La collaborazione tra Seipersei e Roberto Masotti (e lo Studio Lelli e Masotti), partita con Jazz Area, aveva preso un felice abbrivio, con la serie di volumi monografici iniziata con Keith Jarrett: A Portrait, proseguita poi con il volume in commento e ora attestatasi alla terza uscita, Franco Battiato: Nucleus. John Cage: In A Landscape, oltre alle fotografie (due serie delle quali – quella del Teatro Lirico e quella del Treno – sono intestate allo Studio Lelli e Masotti) presenta testi di Joan La Barbara, Franco Masotti e Veniero Rizzardi, sia in inglese sia in italiano.
Scrivendo del libro dedicato a Jarrett, non avevamo mancato di sottolineare il particolare stile del fotografo: la discrezione assunta come metodo consapevole (l’endiadi «assenza/presenza», che gli era così cara), il modo naturale, eppure deciso, di filtrare entro la relazione scenica, in qualche modo «sceneggiandola», infine la semplicità.
Proprio su quest’ultimo argomento, Roberto si era diffuso nell’intervista che pubblicammo su Musica Jazz nel mese di novembre del 2019 («Roberto Masotti: coerenza di un percorso»). Parlando dei suoi primi lavori per Manfred Eicher – e mettendoli in parallelo con quelli eseguiti per Gianni Sassi, pur nella consapevolezza dell’estrema diversità dei personaggi – ne aveva sottolineato il valore (anche in relazione a un tipo di immagine di solito utilizzata nell’ambito dell’editoria libraria):
«Le mie foto erano molto semplici, molto… E tutto avveniva con una grande semplicità, e poi la cosa molto bella oltre all’apprezzamento era il fatto che le foto venivano molto valorizzate. […] Quella che spesso veniva pubblicata era una fotografia circondata da uno spazio bianco, una sorta di passepartout assolutamente non lezioso in cui venivano inserite poche cose: l’autore, il titolo del disco e i titoli dei brani. Questo sistema, che a sua volta era molto semplice, e ci tengo a sottolineare la parola semplicità, era talmente efficace che ti consentiva – cosa che ho fatto anch’io a un certo punto – di proporre certe fotografie che sono andate in copertina in un modo più tradizionale, jazzistico, come il ritratto di gruppo che mi è sempre piaciuto moltissimo».
Oltre al metodo della semplicità, aveva ricordato l’importanza di poter conoscere personalmente l’artista, quando capitava (non certo per vanità):
«[…] Sono nati dei rapporti che altrimenti sarebbero stati di tutt’altro tipo. […] Aver avuto legami di un certo tipo, rapporti importanti, che so, con Steve Lacy, con Abercrombie, con Jan Garbarek, John Cage, Paul Bley, Terry Riley e tanti altri è stato fondamentale».
Quanto si va dicendo non è soltanto memoria emotiva. L’enunciazione dei «metodi», infatti, corrisponde perfettamente al contenuto del volume dedicato a Cage.
Il Cage conosciuto da Masotti è quello del periodo di fine anni Settanta e sino agli inizi degli anni Novanta: gli scatti nel volume (una settantina) vanno dal 1977 sino al 1991, dunque un lasso di tempo niente affatto breve.
È un Cage maturo (era nato nel 1912), che in questa fase ritorna a forme arcaiche (Hymns And Variations è del 1979), mentre non cessa di interessarsi ad aspetti sociologici, ambientali, filosofici, anzi, completando un processo di sovvertimento dell’idea dell’arte come elemento autosufficiente, separato dal resto dell’esistenza; rifiutandone perciò la trascendenza e arrivando a diffidare del suo contenuto emotivo.
È anche – ed anche per questo – in qualche modo, un personaggio (un personaggio pubblico) tuttora in piena iconizzazione, avvolto in un groviglio (cercato? subìto?) di provocazioni, malintesi, strumentalizzazioni, banalizzazioni.
Lo è sempre stato, in realtà, fin dall’inizio, e questo è un aspetto non secondario, anzi.
Nella sua bella prefazione a Musicage. Conversazioni con Joan Retallack, Veniero Rizzardi ricorda l’opinione espressa da Franco Donatoni (nello scritto «Comporre l’esistenza/vivere l’opera, incluso nella collettanea John Cage. Dopo di me il silenzio (?), Milano, 1978) che aveva qualificato l’esperienza cageana come una «malattia», risultata contagiosa per una intera generazione:
«Dei sintomi, ognuno di noi assolutizzò quello a sé somigliante: vi fu il caso e l’indeterminazione, il grafismo e l’improvvisazione, l’eccentricità narcisistica e lo pseudo-zen, l’happening e l’indiscriminazione dell’esito, il processo formalizzato e l’equivalenza materiale/opera, e chi più ne farnetica più lo attribuisca a Cage».
La prima serie di scatti nel volume riguarda la nota esecuzione di Empty Words (Parte III) al Teatro Lirico di Milano. Il musicista era stato invitato da radio Canale 96. La Cramps Records di Sassi, come è noto, ne aveva pubblicato un paio di album («John Cage», 1974 e «Cheap Imitation», 1978) nella collana Nova Musicha, giocando la carta dell’avanguardia, e collaborò all’organizzazione.
Empty Words è un tipico esempio di come Cage fosse arrivato ad operare «in sottrazione», destrutturando e lasciando che le cose accadessero, abbandonando il controllo della produzione e anzi, la sua stessa idea. Così, attraverso l’I Ching e i suoi esagrammi, aveva compiuto la progressiva scarnificazione di The Journal di Henry David Thoreau, espungendone casualmente frasi, parole, sillabe e ottenendo un testo divenuto sequenza di puri suoni, intervallati da silenzi. La lettura di queste «parole vuote» (di una loro parte, in realtà, essendo la durata totale dell’opera di circa dieci ore), sostanziava l’evento milanese del 2 dicembre 1977. Ma un pubblico giovanile si attendeva un «concerto», non certo la lettura di quella sequela di suoni, accompagnata dalle diapositive coi disegni astratti di Thoreau.
Ne venne fuori un happening indesiderato, nella sua (di Cage) migliore tradizione.
Il pubblico rumoreggiò, si agitò, protestò, salì sul palco, disturbò l’imperturbabile lettore-autore-evocatore sino a superare i limiti del contatto fisico (gli furono tolti gli occhiali e spenta la luce che consentiva la lettura). Rizzardi, nel suo scritto «Happy New Year», riesce in poche parole a ricreare l’atmosfera di una serata che oscillò «tra carnevalata e catastrofe». Patrizio Fariselli e Demetrio Stratos si vedono nelle foto, schierati a protezione «quando la situazione sembrava precipitare». Ma soprattutto vi riescono le fotografie, che, montate in pagine affrontate, riprodotte per lo più a mo’ di provini, rappresentano plasticamente l’imprevedibile oscillare di un presepe casuale, isterico e affastellato. La serata può essere riascoltata nell’album «Empty Words (Part III). Live Teatro Lirico di Milano 2 dicembre 1977» (ristampato anche in cd).
Fu certamente un primo incontro fatale, tra i due.
Secondo Joan Retallack («Introduzione. Conversazioni a posteriori», prefazione a Musicage. Conversazioni con John Cage, Milano, 2017) l’evento, che non dovrebbe dunque stupire, sarebbe dipeso «dall’utilizzo delle operazioni aleatorie come oracolo, principio attivo che ci consente di farci guidare dalle domande anziché dalle risposte […] scatenan(do) un impeto simile al clinamen epicureo. […] Ho il sospetto che sia questo che intende chi dice «Conoscere John Cage mi ha cambiato la vita»».
Lo stesso Masotti, che ha definito Cage «un tranquillo rivoluzionario che però ha cambiato le regole del gioco» (in «Tutto fa suono: John Cage secondo Roberto Masotti», intervista di Silvia Eccher su mimesis-scenari.it) sembra avere avuto questa stessa percezione, ammettendo di averne subito la fascinazione fin dai tempi (1958) di Lascia o raddoppia.
Del resto, la trascrizione della serata finale di quel quiz micologico in qualche modo epocale, opera di Carlo Bertocci, era stata pubblicata su Gong (oggi reperibile, insieme a una miriade di altri materiali, su johncage.it, sito per molti aspetti imperdibile come pure lo è johncage.org), di cui Masotti era stato tra i fondatori.
Su quella serata tanto movimentata, Masotti si è espresso con una certa chiarezza, ponendo l’accento sul tema della strumentalizzazione: «Il suo modo di resistere all’attacco del pubblico al Teatro Lirico, che aveva invaso progressivamente tutto il palcoscenico, è indicativo al riguardo. Alla fine fu lui ad averla vinta su tutte le ingiurie e i soprusi, arrivando indenne dopo due ore e mezzo alla fine della lettura […].
Qualche anno dopo, a Bonn a un festival interamente a lui dedicato, ci fu una lettura di Empty Words che durò sei ore e il tutto si svolse in modo tranquillo. Il punto non era quindi Cage che provocava il pubblico con la sua performance, ma il modo in cui Cage era stato proposto, pubblicizzato e accolto [Eccher intervista Masotti, cit.].
Altri incontri vennero, come si diceva, in quel lasso temporale piuttosto esteso. Né furono infrequenti. Il volume ne testimonia diversi: Milano, 1978 (con una foto dall’indimenticabile raccolta You Tourned The Tables On Me, Auditorium, 1994); Bologna, Porretta, Ravenna e Rimini, 1978 (Alla ricerca del silenzio perduto. Il Treno di John Cage, three excursions for a prepared train, variations on a theme by Tito Gotti; by J. C. with the assistance of Juan Hidalgo and Walter Marchetti. From 26th to 28th of June 1978 starting from Bologna and alternately touching the cities of Porretta, Ravenna, Rimini); Ivrea-Monte Stella, 1978; New York, 1979; Bonn, 1979; Milano, 1980; Venezia, 1982; Torino, 1984; Ferrara, 1991. Nel libro una delle serie fotografiche più corpose è quella dedicata a «Il treno di John Cage».
Il «treno preparato» – un vero e proprio convoglio musicale, su ruote e viaggiante – fece la spola per tre giorni (partendo da Bologna, sino a raggiungere Ravenna, passando per Porretta e per Rimini), producendo così, in guisa di un pianoforte preparato, ma in moto, una combinazione di suoni, umani, meccanici ed elettronici.
L’idea di Tito Gotti, impresario bolognese incaricato dal Teatro Comunale, trovò pieno accoglimento da parte di Cage e alla sua realizzazione parteciparono Walter Marchetti, Juan Hidalgo, Joe Jones, Demetrio Stratos, Esther Ferrer, Aldo Clementi, Daniel Charles e molti altri. Ne nacquero diversi servizi fotografici e registrazioni dei suoni prodotti e un servizio della Rai.
Le immagini riescono a rendere conto dell’happening in modo tanto più vivo quanto più ne è evidente la raffinatissima semplicità, di cui prima discorrevamo. Qui essa è gioiosa e priva di paludamenti, ma sempre estremamente «ricca», attenta alle necessità dell’accurata sceneggiatura per immagini, che intreccia i piani della «verità», del «convenzionale» e del «reale».
Emerge così fortissima la figura di un Cage interessato alla filosofia sociale, a quella dimensione che così bene Franco Masotti («Not Wanting To Say Anything About John», nel volume) definisce nei termini di «socialità artistica» (espressa nella «dialettica continua tra un connaturato individualismo e la dimensione profondamente sociale del vivere e dell’agire artistico di Cage»).
Lo stesso Cage, in uno dei suoi seminari ad Harvard (poi pubblicato nel 1990, I-VI), aveva chiaramente esposto questo suo principio ispiratore: «Credo che una delle cose che distinguono la musica dalle altre arti è che la musica spesso ha bisogno di altre persone. L’esecuzione di musica è un’occasione pubblica o un’occasione sociale. Ne consegue che l’esecuzione di un brano musicale può essere una metafora della società, di come vogliamo che la società sia».
Questa dimensione vive, nell’evocazione immaginifica dei «personaggi» (per esempio, nel ballo delle persone in attesa del treno alla stazione di Riolo, nell’incontro con l’azdora e con le sue piadine, in Cage più volte avvolto dalla folla e in altre), nei punti di vista del fotografo, che li spigola «di quinta», rivelando e catalizzando particolari che così divengono struttura e materia narrativa.
Cage ride in modo inconfondibile, impettito, dal finestrino del treno.
Joan Retallack ha saputo descrivere bene il senso dell’umorismo di Cage (definendolo «eminentemente serio», chiarisce che non si presta ad essere categorizzato come una barzelletta, né è clownerie), collegato al suo generoso vivere nel caos del mondo: «Cage era interessato al contrasto tra il senso della vita tragico occidentale e comico orientale. Sosteneva che quando credi che gli dèi siano su un piano diverso dalla vita quotidiana vedi la separazione ovunque e la vivi come una perdita. Se invece vedi il sacro accanto al profano, non puoi che gioire della pienezza delle cose. L’ironia immensa e spaziosa nella risata di John Cage era, insieme ai prodigiosi risultati della sua opera, la cosa più straordinaria del suo modo di stare al mondo» (Retallack, cit.).
Un passaggio merita, indubbiamente, la sequenza di immagini del sopralluogo di Monte Stella di Ivrea.
Infatti nel 1979 venne presentato un nuovo happening a sé, del tutto originale: il progetto di sonorizzazione di un bosco, appunto Monte Stella, ad Ivrea. L’obiettivo che Cage si proponeva, insieme a John Fullemann, un tecnico del suono, era quello di far conoscere il suono del bosco ai bambini, riprendendolo per mezzo dell’applicazione di microfoni alle piante, collegati poi ad apparati di registrazione, affinché il loro suono risultasse udibile. Il progetto fu rimandato molte volte, fino poi a non trovare più attuazione. Quelle foto sono un esempio della maestria discreta di Masotti, narratore defilato eppure presente.
Non stupisce l’attenzione di Cage al suono silenzioso del bosco: era pur sempre colui che, nel 1951, aveva visitato una camera anecoica alla ricerca dell’assoluto silenzio, «dell’udire il nulla», per scoprire poi, in quella stanza, che poteva invece ascoltare il suono del suo stesso corpo, del sistema nervoso e circolatorio:
«In that silent room, I heard two sounds, one high and one low. Afterward I asked the engineer in charge why, if the room was so silent, I had heard two sounds… He said, «The high one was your nervous system in operation. The low one was your blood in circulation» (Indeterminacy in Silence: Lectures And Writings, 1961).
L’esperienza lo avrebbe condotto a 4’3’’, certo, ma in questo senso è estremamente illustrativa la narrazione di Franco Masotti sui suoni del loft newyorkese di Cage «le cui finestre sono rigorosamente prive di doppi vetri» (Franco Masotti, cit.).
Le due dimensioni si riflettono ed esprimono la fascinazione esercitata su Cage dalla compresenza e dalla sovrapposizione dei suoni (si ricorda, infatti, che a Monte Stella egli fu particolarmente attratto dal sottofondo di rumore proveniente dal traffico cittadino e ancora udibile sulla collina).
Il pensiero si volge a Imaginary Landscape no. 4 – che pure risaliva al 1951 e al primo Cage delle «musiche casuali» -, ma anche, naturalmente, al ciclo delle Europeras (sulle quali, e soprattutto su Europera 5, si diffonde lo scritto di Franco Masotti).
La serie della fotografie scattate nel loft di Cage a New York (forse la più famosa) permette di raggiungere una minima sintesi in questo discorso. In queste otto immagini, infatti, è particolarmente esplicita la ripulsa di cui si diceva più sopra, da parte di Cage, dell’arte trascendente. Questa scelta è in realtà obbligata: essa viene dal dato esperienziale della coincidenza fra arte, vita e natura stessa (il breve saggio di Franco Masotti torna, in modo assai convincente, anche su questo aspetto così centrale).
Non soltanto secondo Cage «Tutto ciò che faccio è a disposizione della società, che può usarlo», ma non esiste sopravvivenza nella separatezza tra arte (musica) e ambiente (natura). Affrontare la vita, il «mondo noi», è conversare, nella complessità e nell’incompletezza, nel caos che comprende l’ordine e il disordine: «Per Cage il compito del compositore era sempre multiplo e paradossale: comporre la musica, ovviamente, ma anche la lingua, i materiali visivi, uno spazio in cui vivere e lavorare che fosse sia socialmente reattivo sia isolato: una specie di oasi al centro della nostra cultura, dominata dal consumismo e dai mass media, quasi come se la «rivoluzione» ci fosse stata» (Retallack, cit.)
In questo spazio, che è anche luogo fisico, il fotografo si insinua, forte di una relazione «di durata» con l’uomo che lo vive, nella casa-natura con più di cento piante; e sembra quasi di sentire arrivare lo stratificato suono di sottofondo del traffico in strada, attraverso le enormi finestre.
Se con Jarrett poteva esser sorto il dubbio che l’artista effigiato potesse avere in qualche modo prescelto e orientato la capacità dell’interlocutore-antagonista-narratore di assorbirne il racconto, nella relazione Cage-Masotti questa possibilità non si percepisce, forse non si pone. Prevalgono la profonda affinità, la curiosità giocosa e ironica di entrambi (ma sempre nel modo «serio» che dicevamo, che era tanto proprio di Roberto).
Non c’è più spazio per nessuna iconografia (singolare, in un libro così pieno di ritratti), né per l’ego, anche il pianoforte è ridotto, in uno degli ultimi scatti, a cordiera e bulloni. Cage, ci ricorda un po’ polemicamente Retallack, «come tutti gli artisti d’avanguardia, è celebre per ciò che ha smantellato» e lui, idealmente, ci saluta di spalle, guardando la Giudecca.