Jazz & Hip-Hop: Un incontro al vertice

«L’hip-hop rappresenta per i giovani neri quello che il bebop è stato per quelli della mia generazione. Io c’ero, e vi garantisco che hanno molti punti in comune. Certi cantanti come Eddie Jefferson e Babs Gonzales facevano allora le stesse cose che fanno oggi i rapper. Questi ultimi non lo sanno, ma io sì» (Quincy Jones)

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Molti, per lungo tempo, soprattutto in Europa, hanno incasellato l’incontro, la fusione, tra jazz e hip-hop come una sorta di sottogenere dalle connotazioni volutamente commerciali. E oggi il termine «groove» è spesso usato a sproposito – anche da improbabili dj radiofonici – quando si vuole indicare qualcosa di indefinito in cui il rapporto con la fisicità, con il corpo e quindi con il movimento, con il ballo, prende il sopravvento sull’aspetto meramente musicale. Sono d’accordo. Soprattutto quando si parla di artisti in cui tutto questo avviene senza sovrastrutture, naturalmente. Robert Glasper è il nome più celebre, ma se ne potrebbero fare tanti altri.

Quando, però, sento utilizzare il suddetto termine – l’ho sentito più volte ascoltando un network famoso, e non faccio nomi per delicatezza – per gente come gli Human League et similia allora sono un po’ meno d’accordo. L’errore sta – e sono moltissimi, soprattutto qui in Italia, quelli che lo fanno – nel voler a tutti i costi catalogare, incasellare, spezzettare, definire, la musica e quello che le accade attorno dimenticando che spesso le cose accadono fuori dai libri, nelle strade, semplicemente vivendo. Questo è soprattutto vero quando si parla di black music e quindi di jazz. L’idioma afro-americano era pronto a incontrare l’hip-hop da molto tempo prima che gruppi come i Gang Starr negli Stati Uniti e i DJ britannici dell’acid jazz in Europa si facessero portavoce di quello che, da Adam Krims nel suo Rap Music And The Poetics Of Identity, è stato indicato – a mio avviso in maniera un po’ infelice – come «jazz bohemian».

Kommon, Glasper, Riggins
Kommon, Glasper, Riggins

La patente di sottogenere non calzava a pennello per qualcosa che, nata sulle ceneri del cosiddetto jazz-rock, era riuscita a riportare la musica nelle strade del ghetto, con un occhio alle classifiche e l’altro alla consapevolezza nera. Il jazz-rock, nato tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, come tentativo di avvicinare il pubblico del rock al linguaggio sofisticato del jazz, si stava trasformando in una musica sempre più complessa e sacrificata all’altare di un virtuosismo fine a sé stesso. Fu il funk a riportare la musica nera e il jazz sulla retta via. Quello stesso funk che rappresentò il substrato vitale per le battaglie che, nella seconda metà di quel decennio, i DJ del Bronx ingaggiarono per dar vita a una rivoluzione, non solo musicale, che ancora oggi continua a mietere le sue vittime: l’hip-hop. È la storia che, come sempre, si ripete e si reinventa ed è anche, se ci riflettete, il motivo principale per il quale innalzare dei paletti, delle barriere, all’interno di un mondo i cui intrecci sono strettamente connessi tra loro, diventa un esercizio sterile e privo di alcun significato.

Per cui tentare di creare delle contrapposizioni tra il jazz, la grande musica afro-americana, la tradizione, e l’hip-hop, la musica dei neri di oggi, non ha alcun senso perché in realtà le due culture sono esattamente la stessa cosa. Entrambe sono molto più di un genere musicale, sono dei fenomeni culturali che si sono sviluppati da conflitti ai quali hanno dato voce. Entrambe hanno influenzato stili di vita, abbigliamento, ballo, modi di parlare. Ed entrambe si sono influenzate a vicenda da molto prima che il mondo esterno si accorgesse di loro. Se proprio dobbiamo riferirci a un periodo temporale, allora è il tempo intercorso tra i due assassinii che cambiarono il volto dell’America (quello di Malcolm X nel 1965 e quello di Martin Luther King nel 1968) dal quale bisogna partire. In quel periodo – era il 1966 – due studenti del Merritt Community College, Bobby Seale e Huey P. Newton, fondarono a Oakland, in California, il Black Panther Party, ispirando l’avanguardia jazzistica a fornire un adeguato sottofondo sonoro all’esplosione dei ghetti, da Watts al New Jersey. Fu proprio allora che un mondo unico, coeso, iniziò nell’immaginario dei bianchi europei a dividersi. Musicisti free di prima grandezza come Albert Ayler, Archie Shepp, Ornette Coleman e poi Roscoe Mitchell iniziarono ad avere successo, sia in Europa che in America, negli ambienti universitari della sinistra bianca che iniziò a contrapporre l’aura trasgressiva e «politica» del free a quella volgare e «commerciale» del soul. Fu quanto di più fuorviante il giornalismo e la critica musicale dell’epoca potesse produrre. Per i neri non fu (e ovviamente ancora oggi non è) così.

Kool Moe Dee
Kool Moe Dee

A un ascolto più attento molti degli effetti sonori più estremi utilizzati dai sassofonisti del free jazz non erano particolarmente dissimili dai grugniti dei loro vecchi colleghi che suonavano r&b durante il cosiddetto bar walking, anche se è vero che i sassofonisti free ricorrevano a quelle tecniche scorporandole da qualsiasi sottinteso d’intrattenimento. In più i giovani neri di quegli anni, gran parte dei quali era stata arruolata nella guerra del Vietnam, quando tornarono a casa esigevano come colonna sonora del loro impegno sociale una musica che risultasse accessibile alle masse, per quanto loro stessi fossero estremamente politicizzati. Il famoso «What’s Going On» di Marvin Gaye, suonato da fior di jazzisti dell’epoca, fu concepito e realizzato su queste premesse. I legami tra i due mondi furono testimoniati da un fiorire di gruppi che, pur ponendosi l’obiettivo di arrivare al grosso pubblico, reclutavano musicisti con una maestria strumentale di stampo jazzistico di primo livello. La lista è lunga, e per citare i più famosi faremo i nomi di Earth, Wind & Fire, Ohio Players, Sly & The Family Stone, War, Mandrill, Zapp, Fatback Band, Bar-Kays, Tower Of Power, Kool & The Gang (che guarda caso erano nati nel 1964 sotto la sigla The Jazziacs), Funkadelic. Erano tutte band molto note, molto spesso composte da musicisti di jazz, che strizzavano fortemente l’occhio al pop ma con un’abilità strumentale di gran lunga superiore – fatte le doverose eccezioni – a quella dei colleghi bianchi che facevano rock.

Come al solito, fu Miles Davis a tracciare il solco di una strada che lui stesso, alla fine della sua vita, rimarcò incidendo, con il rapper Easy Mo Bee, «Doo-Bop», che uscì postumo nel 1992. Quel solco fu tracciato nel giugno del 1972 quando, con la testa piena di James Brown e Sly Stone ma anche di Stockhausen, Miles entrò in studio per incidere, insieme a una serie di musicisti che non volle citare in copertina, «On The Corner» un vero e proprio monumento funky. Col tempo si venne a sapere che tra quei musicisti c’erano nientemeno che Dave Liebman e Carlos Garnett ai sassofoni, Chick Corea, Herbie Hancock e Harold I. Williams alle tastiere, John McLaughlin e David Creamer alle chitarre, Collin Walcott al sitar, Billy Hart e Jack DeJohnette alla batteria, James Mtume alle percussioni. Quel disco non ebbe un gran successo commerciale: la Columbia sbagliò campagna pubblicitaria rivolgendo la sua attenzione soprattutto al pubblico del jazz (che inorridì), mentre Miles voleva rivolgersi a quello del funk, che all’epoca era molto più attraente per i giovani neri. Ma «On The Corner» dette il via a una serie di operazioni fondamentali per la storia che stiamo raccontando. Herbie Hancock, lo stesso che all’inizio degli anni Ottanta si accreditò nell’hip-hop con Rockit (contenuto nell’album del 1983 «Future Shock»), incise «Head Hunters», e Donald Byrd abbandonò l’hard bop per intraprendere una strada personale che mescolava il jazz con il funky e il soul à la Motown, incidendo «Black Byrd» nel 1973, «Street Lady» nel 1974 e «Places And Spaces» nel 1975, e dando vita a un gruppo formato da suoi allievi di università, i Blackbyrds, che riscossero un notevole successo commerciale. Le distinzioni erano sempre più sfumate, e una serata qualsiasi all’Apollo Theater di Harlem poteva presentare un artista di jazz accanto a un soul singer. Tutto questo per sottolineare che nella comunità afro-americana non si è mai fatta una vera distinzione tra generi: si tratta di un tutt’uno che arriva sino ai nostri giorni e considera tutta la black music, quindi anche il jazz e l’hip-hop, come un flusso continuo e inarrestabile di influenze ed emozioni.

Ali Shaheed Muhammad, Phife Dawg, Q-TIp
Ali Shaheed Muhammad, Phife Dawg, Q-TIp

Ed è per questo che in alcuni l’incontro tra hip-hop e jazz non ha suscitato la minima sorpresa, visto che era nell’aria praticamente da sempre. Ma a noi tocca stabilire delle coordinate e dei riferimenti al cui interno poterci muovere, anche se risalire a una progenie ben definita risulta abbastanza difficile. E allora, sicuramente la spoken poetry di personaggi come i Last Poets e Gil Scott-Heron ha avuto un ruolo di primo piano nel far avvicinare l’uso della parola e delle rime al jazz. I primi (Omar Ben Hassan, Abiodun Oyewole, Jalaluddin Mansur Nuriddin) erano un gruppo di commentatori di strada legati ai Black Muslims e con i loro due primi album, «The Last Poets» (1970) e «This Is Madness» (1971), oltre a un notevole successo commerciale, seppero cogliere il mood di quegli anni trasformandosi in un eccellente manuale di istruzioni per gruppi ben più tardivi come i N.W.A e i Public Enemy. Il secondo, per il quale il jazz era fin dagli ultimi anni Sessanta il tessuto connettivo di tutta la sua musica, pubblicò nel 1981 un album intitolato «Reflections» in cui era contenuto un brano di poco più di tre minuti, Is That Jazz?, che rendeva omaggio ai grandi dell’idioma afro-americano. E in tutto questo non va dimenticato il ruolo che ebbero i losangelini Watts Prophets, un gruppo di musicisti e poeti di Watts – dove nell’agosto del 1965 avvenne una imponente sommossa a sfondo razziale – che alla pari dei nomi precedenti contribuì a precorrere i tempi di quello che poi fu definito hip-hop.

Ma il personaggio che più di tutti è stato fondamentale nel dare autorevolezza all’incontro tra jazz e hip-hop è Quincy Jones, innanzitutto con le sue dichiarazioni pubbliche («l’hip-hop rappresenta per i giovani neri quello che il bebop è stato per quelli della mia generazione. Io c’ero, e vi garantisco che hanno molti punti in comune. Certi cantanti come Eddie Jefferson e Babs Gonzales facevano allora le stesse cose che fanno oggi i rapper. Loro non lo sanno, ma io sì»), e poi in maniera concreta, pubblicando tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, due dischi fondamentali, ancor più di «Jazzmatazz Vol. 1» dei Gang Starr, in cui veniva istituzionalizzato l’incontro tra jazz e hip-hop. «Back On The Block» nel 1989 metteva insieme leggende come Miles Davis, George Benson, Ray Charles e Chaka Khan a rapper come Ice T, Melle Mel (il sodale di Joseph Saddler, in arte Grandmaster Flash, uno dei pionieri dell’hip-hop), Kool Moe Dee e Big Daddy Kane, «Q’s Jook Joint» nel 1995 faceva interagire James Moody e Stevie Wonder con LL Cool J e Queen Latifah. E fu proprio in quel periodo che l’incontro pressoché quotidiano tra le sonorità del jazz e la mentalità stradaiola dell’hip-hop, con epicentro Brooklyn, iniziò a farsi realtà. 

Donald Byrd
Donald Byrd

Nel 1988 gli Stetsasonic (Prince Paul, Daddy-O, MC Delite, Fruitkwan e DBC) si fecero notare con un brano, Talkin’ All That Jazz, contenuto in un album dello stesso anno intitolato «In Full Gear». In quel brano, che campionava una linea di basso di Cecil McBee tratta da Expansions» (1974), il classico del cosmic soul di Lonnie Liston Smith, si facevano riferimenti al jazz sia nel testo che nella musica. Il testo non era altro che una risposta a una conversazione avvenuta alla radio tra lo scrittore Nelson George e il percussionista James Mtume (figlio del sassofonista Jimmy Heath), membro dei gruppi elettrici di Miles Davis, nella quale Mtume criticava il rap, secondo lui troppo legato al campionamento e di conseguenza privo di vis artistica. Gli Stetsasonic, in netto contrasto con gli artisti hip-hop di quel periodo che privilegiavano campionamenti e batterie elettroniche, suonavano i loro strumenti, e in Talkin’ All That Jazz prendevano di mira Mtume e tutti i critici dell’hip-hop riaffermando lo status artistico della loro musica. Gli Stetsasonic non erano proprio dei pivelli: esistevano già dal 1979 come The Stetson Brothers, avevano esordito nel 1986 con il singolo On Fire su etichetta Tommy Boy e si erano fatti notare per un altro singolo, A.F.R.I.C.A, che anticipava l’afro-centrismo che avrebbe caratterizzato anni dopo la produzione di Jungle Brothers, A Tribe Called Quest e Queen Latifah. Durarono poco, perché i due leader del gruppo iniziarono ad assumere troppi impegni paralleli (Prince Paul produsse, tra gli altri, De La Soul e Boo-Yaa Tribe e Daddy-O collaborò con Queen Latifah e Big Daddy Kane), e incisero nel 1991 un ottimo disco, «Blood, Sweat & No Tears» che rappresentò il loro testamento. Qualche mese dopo l’uscita di Talkin’ All That Jazz (all’inizio del 1989) un tipo di Boston, Keith Elam, in arte MC Keithy E, incontrò a Brooklyn un DJ originario di Houston, DJ Premier, (ovvero Christopher Edward Martin). Elam aveva già un gruppo a Boston che si chiamava Gang Starr. Era un nome che gli piaceva parecchio. Decise allora di cambiare il suo moniker e si ribattezzò Guru (acronimo di «Gifted Unlimited Rhymes Universal).

I nuovi Gang Starr pubblicarono Words I Manifest, che campionava A Night In Tunisia nella versione di Charlie Parker. Il brano si fece notare nel circuito underground, tanto che i Gang Starr decisero di rimissarlo e inserirlo nel loro album d’esordio, «No More Mr. Nice Guy», che uscì subito dopo e, pur non vendendo particolarmente bene, attirò l’attenzione del regista Spike Lee per il suo abbondante utilizzo di campionamenti jazz, in particolare sul brano Jazz Music. Lee era molto legato al jazz: suo padre Bill era noto contrabbassista e compositore che alla fine degli anni Cinquanta era stato membro del gruppo di Max Roach. Così nel 1990 il regista invitò il duo a partecipare alla colonna sonora di «Mo’ Better Blues» e i Gang Starr realizzarono insieme al sassofonista Branford Marsalis una nuova versione di Jazz Thing. Era una storia del jazz condensata in tre minuti e mezzo: iniziava con riferimenti all’eredità musicale e culturale africana, citando la diaspora e il problema della schiavitù per poi passare a parlare del jazz a New Orleans, quello di Jelly Roll Morton, di King Oliver, di Louis Armstrong, della sua migrazione a Chicago e a New York, delle big band di Benny Goodman, Duke Ellington, Count Basie, dei giganti Coleman Hawkins, Lester Young, Billie Holiday, Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Miles Davis.

Jazz & Hip-Hop: Pete Rock, Heavy D, Rakim, Grandmaster Dee, Just-Ice
Pete Rock, Heavy D, Rakim, Grandmaster Dee, Just-Ice

Insomma, quello che fino ad allora era stato un fidanzamento, con i Gang Starr divenne un matrimonio. Nel 1991 il gruppo pubblicò «Step In The Arena», ancora un successo. Ma qualcosa stava cambiando dal punto di vista legale. Il campionamento di brani saccheggiati a man bassa dai DJ era stato se non ignorato, perlomeno tollerato dall’industria discografica, ma in quell’anno si scatenò una disputa legale memorabile: la Grand Upright Music Limited, casa editrice delle composizioni del cantautore soft-rock Gilbert O’Sullivan, citò in giudizio una major discografica come la Warner Bros./WEA International e una serie di notissimi rapper, DJ e manager, tra cui Biz Markie, Tyrone Williams e Benny Medina. Il motivo era che il rapper Biz Markie aveva utilizzato un campionamento della celeberrima Alone Again di O’Sullivan per incidere un pezzo dallo stesso titolo e assai somigliante come linea melodica all’originale (ovviamente non come contesto. 

Il giudice cui fu affidata la causa, Kevin Thomas Duffy, sentenziò infine che il brano di Biz Markie violava il diritto d’autore ed era quindi un furto di proprietà intellettuale. Per correttezza, va detto che in quel periodo i rapper avevano alzato il tiro: fin quando venivano saccheggiati oscuri brani di soul o peggio ancora di jazz, tutto andava bene e quasi nessuno ci faceva caso. Anzi, a volte gli autori originali erano pure contenti: finalmente qualcuno si accorgeva di quei brani. La piaga si infettò quando i pezzi grossi dell’hip-hop iniziarono a campionare i pezzi grossi del pop-rock, e gli interessi in ballo assunsero una tale dimensione monetaria da far scattare l’allarme rosso. Il colpo finale fu dato da un’altra causa, intentata questa volta dai membri del venerando gruppo folk-rock dei Turtles (arrivati al successo nel 1967 con il tormentone Happy Together), che chiesero un risarcimento di ben 2,5 milioni di dollari ai De La Soul per il campionamento non autorizzato del brano You Showed Me, trasformato in Transmitting Life From Mars e inserito nell’album di esordio dei tre stravaganti rapper di Long Island, «3 Feet High And Rising». Il fatto singolare era che You Showed Me non era stata scritta dai Turtles ma da due membri dei ben più celebri Byrds, ovvero Jim (Roger) McGuinn e Gene Clark. Fatto sta che da quel momento in poi per campionare una singola nota riconoscibile di una canzone i produttori hip-hop dovevano ottenere il placet del compositore, accordarsi per acquistarne i diritti o, in alternativa, corrispondergli una percentuale sulle vendite. Ovvio quindi che  il sampling – pratica che aveva caratterizzato tutto l’humus iniziale dell’hip-hop – perdeva di colpo la sua capacità di rompere gli schemi per entrare dalla porta principale dello show business. Fino a quel momento un beat rap poteva contenere un numero imprecisato di campionamenti (Bomb Squad, un collettivo che lavorava con i Public Enemy arrivò a manipolare più di dieci pezzi in un solo brano) con il risultato di ottenere un suono ricco di dettagli, forse anche eccessivo ma comunque caratteristico.

Jazz & Hip-Hop Marcus Miller & Roy Hargrove
Marcus Miller & Roy Hargrove

Da quel giorno i costi di questa procedura divennero proibitivi: ma gli artisti, quelli veri, non si fermano certo davanti alle difficoltà. I rapper, gli MC, i DJ si adeguarono alla nuova situazione, con il risultato che l’hip-hop continuò a crescere dal punto di vista creativo. Da un lato i DJ affinarono la loro attitudine allo «scavo archeologico», e vinsero ovviamente quelli che disponevano di un maggior numero di vinili rispetto agli altri. Dall’altro ci si iniziò a rendere conto che bisognava riprendere cura per la musica suonata a scapito di quella campionata. E qual era il mondo musicale contiguo dal quale approvvigionarsi per restituire all’hip-hop la dignità di musica con la M maiuscola? Risposta semplice, almeno per noi: il sempiterno jazz. Lo scenario cambiò dall’oggi al domani,dando inizio a una ben più intensa frequentazione dei due mondi musicali che arriva direttamente ai nostri giorni. 

Ma facciamo un passo indietro, perché c’è ancora qualcosa da raccontare. I Gang Starr pubblicarono nel 1992 «Daily Operation» e nel 1993 «Jazzmatazz Vol. 1», in cui giovani colleghi dell’epoca come N’Dea Davenport e  il franco-africano MC Solaar interagivano con veterani come Roy Ayers o Donald Byrd. Fu un lavoro importante, che lasciò ben tre seguiti: nel 1995, nel 2000 e l’ultimo, il quarto della serie, nel 2007. Ma il primo volume, l’originale, ebbe un effetto dirompente in un momento in cui l’hip-hop stava iniziando a mostrare una preoccupante tendenza a lasciarsi inglobare nelle maglie dello show business. La cosa strana fu che i due, nel periodo immediatamente successivo all’uscita del primo volume invece di capitalizzare il successo ottenuto iniziarono a dedicarsi a progetti personali che non ebbero la stessa eco artistica ma neanche commerciale. Nell’aprile 2010, infine, Guru scomparve devastato dalle conseguenze nefaste di un mieloma multiplo. 

craig david, angie stone,guru, jools holland, herbie hancock
Craig David, Angie Stone, Guru, Jools Holland, Herbie Hancock

L’inizio degli anni Novanta, negli Stati Uniti, non vide soltanto Gang Starr e Stetsasonic protagonisti della fusione tra vecchia e nuova mentalità: vanno citati almeno tre altri gruppi hip-hop che ebbero un ruolo nell’organizzazione di quelle nozze. Pete Rock & C.L. Smooth (ovvero il produttore Peter Phillips, in arte Pete Rock, e il rapper Corey Penn, in arte C.L. Smooth) incisero nel 1992 «Mecca And The Soul Brother», considerato uno dei migliori dischi di hip-hop della storia e che fu preceduto nel 1991 da un extended play, «All Souled Out» in cui raffinati campionamenti di misconosciuti brani jazz e r&b facevano il paio con testi filosofeggianti che prendevano le distanze da ogni forma di volgarità. A Tribe Called Quest (Q-Tip, oggi una figura ancora molto influente, Jarobi White di cui si sono perse, almeno momentaneamente, le tracce, Ali Shaheed Muhammed – che sta facendo parlare di sé per aver dato vita insieme ad Adrian Younge al progetto «Jazz Is Dead» di cui è uscito in questi giorni il nono episodio tutto strumentale, con contributi di Roy Ayers, Gary Bartz e dei brasiliani Marcos Valle e João Donato – e Malik Taylor in arte Phife Dawg, morto nel 2016 per complicanze legate al diabete di cui soffriva) pubblicarono nel 1991 il loro secondo album «The Low End Theory», che ricevette giudizi positivi non solo dal mondo dell’hip-hop ma anche da quello del jazz, rappresentato sia dai campionamenti (Young And Fine dei Weather Report fu la base di un brano intitolato Butter) ma anche dalla presenza di Ron Carter in Verses From The Abstract: il celebre contrabbassista accettò di collaborare a patto che nei testi non fossero usate espressioni volgari. Ma c’è un gruppo che quasi nessuno cita e che, non solo a mio avviso, è stato decisivo nell’incontro tra jazz e hip-hop: un trio che risponde al nome di Digable Planets. I tre erano (e sono ancora perché il gruppo è ancora in attività) Ishmael «Butterfly» Butler, Craig «Doodlebag» Irving e Mary Ann «Ladybug Mecca» Vieira, figlia di due jazzisti brasiliani che vivevano a Brooklyn. Nel 1992 uscì il loro primo singolo, Rebirth Of Slick (Cool Like Dat), che conteneva campionamenti di Art Blakey con i Jazz Messengers, del trombonista Fred Wesley (già pilastro dei gruppi di James Brown e poi co-leader dei J.B.’s) e dei Last Poets. Chi li vide all’opera sul palco si rese subito conto che l’unica donna della band, Ladybug Mecca, non aveva una funzione puramente decorativa come per la maggior parte dei gruppi hip-hop dell’epoca, ma rivestiva un ruolo di primissimo piano grazie al suo impressionante drive e alla caratteristica voce nasale. I Digable Planets – che al culmine della loro fortuna collaborarono anche con Lester Bowie – ebbero un successo immediato e nel 1993 uscì il loro primo album, «Reachin’ (A New Refutation Of Time And Space)» che divenne subito disco d’oro. I tempi delle piattaforme e della musica liquida erano ancora di là da venire e il successo si misurava ancora sulla vendita dei dischi. I Digable Planets erano un gruppo di culto molto apprezzato ma ebbero un problema: al culmine della propria affermazione si fecero attrarre dalle istanze delle Pantere Nere e del nazionalismo nero, che influenzarono fortemente il loro secondo album, «Blowout Comb» (1994) alla cui realizzazione parteciparono Guru e il suo protegé Jeru The Damaja, un altro rapper di Brooklyn molto famoso all’epoca. L’album ebbe notevoli consensi da parte della critica, ma proprio per i suoi contenuti fu un flop commerciale. Il trio non riuscì a reggere il colpo, ebbe delle divergenze creative e si sciolse per la prima volta (si sarebbe poi riformato, sciolto di nuovo e infine tornato definitivamente in attività). Il suo nome è comunque rimasto scolpito nella memoria di tutti quelli che dall’hip-hop sin da allora volevano qualcosa in più del machismo e della volgarità imperante nel mainstream dell’epoca. Ma Brooklyn non fu soltanto terreno di coltura di DJ e di MC: in uno dei suoi quartieri, Bedford-Stuyvesant, il sassofonista Steve Coleman e il cornettista Graham Haynes dettero vita a M-Base (acronimo di Macro-Basic Array Of Structured Extemporization), un collettivo di musicisti creativi che, con un nucleo di base che includeva il sassofonista Greg Osby, la vocalist Cassandra Wilson, il chitarrista David Gilmore, la mai dimenticata pianista Geri Allen, il bassista Reggie Washington e il batterista Marvin «Smitty» Smith, si rivolgeva alla musica che circolava per le strade prendendo dall’hip-hop l’ispirazione per le linee di basso e per la ritmica funky sui quali costruire le improvvisazioni dei fiati. 

M-Base fu molto importante allora e per molta della musica nera che si è succeduta negli anni fino a oggi: era un collettivo aperto e ogni tanto dava ospitalità a giovani colleghi come Craig Handy, Kevin Eubanks, Ravi Coltrane e un giovanissimo Roy Hargrove. Steve Coleman incise un album nel 1994 con i Metrics, «A Tale Of 3 Cities» in cui l’interscambio tra strumentisti e rapper fu molto fruttuoso. Alla sua realizzazione parteciparono tra gli altri, Ravi Coltrane e Kokayi, un rapper di Washington che recentemente ha arricchito con le sue rime l’ultimo lavoro del batterista Nate Smith, intitolato «Kinfolk 2: See The Birds». Il suo collega di strumento, Greg Osby, fece la stessa cosa incidendo «3-D Lifestyles» e «Black Book», due dischi in cui l’incontro tra jazz e rap veniva sublimato da una maestria strumentale fuori dal comune. La scena era più che fervida e chi non voleva, sin da allora, arroccarsi su vetuste posizioni tradizionaliste (non solo quelle di molta critica europea ma anche di esponenti di spicco della comunità afro-americana – Wynton Marsalis su tutti) aveva trovato pane per i suoi denti. La fusione era già avvenuta e gli stilemi di quello che sarebbe stato il suono del nuovo millennio avevano già superato la fase embrionale. Ma il collettivo che forse più di tutti riuscì a superare le barriere e a creare un suono che sarebbe durato nel tempo e avrebbe influenzato buona parte della musica nera di inizio millennio fu quello dei Soulquarians. Nel periodo a cavallo tra la fine del vecchio millennio e l’inizio del nuovo alcuni personaggi dalla mentalità molto aperta si resero conto che bisognava superare le barriere e riportare la musica nera nella sua totalità (scevra da ogni tipo di categorizzazione) al centro dell’attenzione. I Soulquarians erano il cantante e polistrumentista D’Angelo, il batterista Ahmir «Questlove» Thompson (batterista dei Roots, oggi anche produttore e regista), il produttore J Dilla (figura seminale la cui influenza oggi è riconosciuta da tutti), il trombettista Roy Hargrove, il tastierista James Poyser, il bassista Pino Palladino e i cantanti e rapper Erykah Badu, Bilal, Q-Tip, Mos Def (che oggi si fa chiamare Yasiin Bey), Talib Kweli e Common. Sono tutte figure fondamentali della musica moderna, ognuno con la sua specificità. 

D’Angelo (all’anagrafe Michael Eugene Archer) è stato un bambino prodigio. Nato in Virginia a Richmond, ha studiato piano classico e fu notato durante un’audizione dal pianista e didatta Ellis Marsalis (il padre di Wynton e Branford). Oggi è una star, per quanto abbia avuto una carriera abbastanza schizofrenica – e ha inciso due dischi fondamentali per la storia che stiamo raccontando, «Brown Sugar» nel 1995 e «Voodoo» nel 2000. La sua musica (e quella di quasi tutti gli artisti succitati) è stata etichettata come neo-soul ma è molto più di una semplice etichetta. «Voodoo» non è un album di jazz ma è inciso con una mentalità che col jazz ha molto a che fare: a parte la presenza del chitarrista Charlie Hunter (che ha suonato in diversi brani anche un basso a otto corde costruito apposta per lui) e di Roy Hargrove (che ha contribuito con diverse e strategicamente concise frasi di tromba), a colpire è il lavoro della sezione ritmica. Chi ha ascoltato il disco si sarà accorto dell’andamento sbilenco, quasi scivoloso del suo groove: Questlove teneva il tempo alla perfezione mentre il basso di Pino Palladino gli suonava volutamente dietro e il fraseggio vocale di D’Angelo restava (alttrettanto volutamente) così indietro da dare la sensazione che volesse arrancare. Tutto questo non è stato un caso ma il parto della fervida e oscura creatività di J Dilla. Nato a Detroit nel 1974 James Dewitt Yancey, in arte J Dilla, è stato più che un produttore, è stato un guru per tutto il mondo dell’hip-hop, uno dei pochissimi in grado di portare il campionamento a livello di arte vera e propria. Prima di lui i produttori hip-hop avevano dimostrato come si potesse trasformare un break (una o due battute di batteria oppure una piccola porzione di un brano) in una canzone nuova. Dilla si spinse oltre: riusciva a frammentare i campioni in modo da renderli irriconoscibili e li manipolava in maniera così volutamente imperfetta da renderli un vero e proprio marchio di fabbrica. Nell’hip-hop di quegli anni il suo lavoro era richiesto da tutti. Aveva una cultura musicale sconfinata e la maggior parte dei suoi campionamenti proveniva dal jazz: nell’album di esordio degli Slum Village («Fan-Tas-Tic Vol. 1», 1997), il gruppo di Detroit con il quale esordì, c’erano piccoli frammenti di brani di Bill Evans, Herbie Hancock, Larry Young, Gary Burton ma nessuno se ne accorse. Il suo contributo elettronico divenne paragonabile a quello di un arrangiatore di alto profilo, e la sua influenza sulla musica di questo inizio di millennio è enorme e ancora tutta da scrivere. Elencare tutti i dischi che hanno beneficiato in maniera tangibile del suo contributo sarebbe impresa ardua e richiederebbe un articolo a parte; qui citeremo, oltre al monumentale «Voodoo» di D’Angelo, «Like Water For Chocolate» di Common (2000), «Mama’s Gun» di Erykah Badu (2000), «1st Born Second» di Bilal (2001) e, dulcis in fundo, «Things Fall Apart» (2000) e «The Phrenology» (2004) dei Roots. In tutti, J Dilla ha contribuito a plasmare il suono in maniera inconfondibile. Noto anche come Jay Dee, è poi morto giovanissimo (a soli trentadue anni) nel 2006 a causa di una rara malattia del sangue ma citare il suo nome fa ancora commuovere molti dei musicisti che hanno avuto la fortuna di lavorare con lui. Non ultimo Questlove, il batterista dei Roots, la band di Filadelfia che ha avuto probabilmente il ruolo più importante, negli ultimi anni, nel traghettare l’hip-hop non solo verso il jazz ma verso altri mondi musicali fino ad allora distanti dall’immaginario del ghetto. I Roots (Tariq «Black Thought» Luqman Trotter e Ahmir «Questlove» Thompson) si formarono all’interno della High School For The Performing Arts di Filadelfia e sposarono da subito l’estetica del jazz-rap, scegliendo però di suonare strumenti tradizionali (e di non usare campiomenti). Pertanto Questlove (batterista ma anche MC) e Black Thought (rapper) decisero di arruolare il bassista Leonard Hubbard, il polistrumentista Josh Abrams, l’MC Malik B (Malik Abdul Basit) e, occasionalmente, il tastierista Scott Scorch e il beatboxer Rahzel. Esordirono come Radio Activity, poi cambiarono il loro nome prima in Black To The Future, poi in The Square Roots e infine in The Roots. Finora non hanno sbagliato un colpo e – pur avendo avuto inizialmente critiche da parte dei puristi dell’hip-hop, che li accusavano di aver tradito i presupposti della loro cultura che poneva al centro l’uso creativo del giradischi – i loro concerti sono dei veri e propri avvenimenti. Davvero da non perdere.

Chi scrive li ha visti in azione al North Sea Jazz Festival del 2017 con il cantante Usher come headliner e li ricorda come uno dei momenti più emozionanti e divertenti di quell’anno. Impossibile consigliarne un solo disco perché sono tutti eccellenti, ma se volete avere un’idea di una musica suonata divinamente in cui coesistono abilità strumentale, emotività e modernità allora dovreste procurarvi «Wake Up!» con John Legend (2010), «Betty Wright: The Movie» con Betty Wright (2011) e «Wise Up Ghost» con Elvis Costello (2013). I Roots hanno sdoganato il rap e l’hip-hop dai suoi clichè, e da allora in poi la musica nera non è stata più la stessa. Gran parte dei giovani artisti black di oggi (Robert Glasper, Marcus Strickland, Keyon Harrold, tutto il gruppo della Revive, Nate Smith e chi più ne ha più ne metta) deve a loro il merito di aver mischiato le carte con una maestria tale che oggi nessuno più si scandalizza se musicisti come Steve Lehman o Ambrose Akinmusire o James Brandon Lewis utilizzano le rime dei rapper per colorare le loro funamboliche e creative improvvisazioni.

Oggi la black music è riuscita a crearsi lo status di musica totale riuscendo ad abbracciare – dal compianto Butch Morris a Kendrick Lamar, da Henry Threadgill a Mark Turner, da Nicholas Payton a Makaya McCraven – ogni forma di espressività senza barriere . E tutto questo è accaduto negli Stati Uniti. Sì, perché tutto sommato il ruolo dell’Europa, e in particolare dell’Inghilterra, nel promuovere l’incontro tra jazz e hip-hop è stato a nostro avviso marginale, nonostante la cassa mediatica che hanno saputo battere i DJ dell’acid jazz. Innanzitutto, va da sé, il jazz e l’hip-hop sono nati negli Stati Uniti. E già questo sarebbe sufficiente a chiudere qui la faccenda. Ma c’è un aspetto più sottile al quale non tutti danno la giusta importanza ed è il ruolo che i DJ anglosassoni hanno avuto nel vivere questa rivoluzione. Fatte le doverose eccezioni, i DJ statunitensi – J Dilla ma anche Madlib, Joe Claussell, Theo Parrish, Kenny Dixon Jr. (aka Moodymann), il nuovo nome della house di Detroit, Alexander Omar Smith (in arte Omar S), i più «commerciali» Masters At Work – intervengono nel processo creativo della musica, spesso sono musicisti (un batterista come Questlove è anche un DJ), interagendo in maniera attiva con i musicisti tradizionali, e questo ha fatto sì che il linguaggio potesse assumere un vocabolario più ricco, più colorato, più variegato, pieno di sfumature. I DJ anglosassoni – Gilles Peterson il più famoso, ma anche Paul Murphy, Eddie Piller, Norman Jay, Jay Strongman, Baz Fe Jazz – erano, e lo sono ancora, «osservatori» o, nel migliore dei casi, archivisti, svolgevano e svolgono un lavoro molto importante, da «archeologi». Molto spesso erano anche giornalisti musicali e in discoteca facevano i selecters. Il loro era un ruolo passivo che nulla, o quasi, aveva a che fare con la musica vissuta.

A chi scrive è capitato di partecipare (da avventore) ai pomeriggi domenicali del Dingwalls a Camden Town – là dov’è nato l’acid jazz – e le selezioni erano molto interessanti, ma la resa tecnica era un disastro. Quei DJ non sapevano cosa significasse «andare a tempo». Non voglio con questo sminuire l’importanza che Peterson e compagni hanno avuto nel rivitalizzare una scena, quella del jazz, che stava segnando il passo in termini di popolarità presso il pubblico giovanile, ma ciò che è accaduto in seguito è sotto gli occhi di tutti. La vitalità della musica statunitense sta producendo oggi gran parte delle novità più interessanti della musica attuale, mentre in Inghilterra si suona, anche in questo caso fatte le doverose eccezioni, una pallida imitazione della musica statunitense. 

Anche se è vero che il ripescaggio di personaggi di culto come Sun Ra, di tutto l’Afro-jazz che oggi va tanto di moda, del cosiddetto «spiritual jazz», del catalogo di etichette come la Strata-East nasce e si sviluppa grazie all’attenzione degli «osservatori» inglesi. L’acid jazz è stato l’ultimo vagito di una scena che ha avuto un ruolo di diffusione fondamentale ma non ha saputo andare oltre la dimensione di semplice moda revivalistica. L’acid jazz è stato un paradosso partito con il piede sbagliato, fin dal nome. Non aveva alcun legame con l’acid house (dal quale aveva mutuato il termine) e non è stato mai jazz, quello consolidato in decenni di tradizione. Però. senza di esso. il jazz non avrebbe ripreso il suo appeal presso il grosso pubblico e il suo merito più evidente è stato quello di far scoprire alle nuove generazioni l’idea della musica afro-americana come qualcosa di vivo e in evoluzione. Da questo punto di vista, il suo ruolo nella storia del matrimonio tra jazz e hip-hop è stato essenziale anche se solo, o quasi, divulgativo. Gente come Rob Gallagher e i Galliano, gli Urban Species e il loro rap militante tinteggiato di dub, gli US3 con la speciale licenza da parte della Blue Note di campionare i suoi dischi, come gli Young Disciples e i Brand New Heavies con il loro soul-funk spumeggiante, non ha suonato niente di veramente innovativo ma ha semplicemente riattualizzato, qualche volta anche in maniera maldestra, una musica che negli Stati Uniti era sedimentata con tutt’altro spessore.

È la solita vecchia e annosa questione che differenzia ciò che accade musicalmente in Inghilterra da ciò che accade in America ed è una questione che riguarda principalmente la musica nera. I Rolling Stones si definivano una blues band ma il blues, quello vero, era un’altra cosa. Nei primi anni Novanta sembrava di assistere a una nuova «British invasion» (i britannici US3 trionfavano anche negli Stati Uniti): la vecchia Europa stava rivendendo il jazz al Paese che gli aveva dato i natali, e in apparenza non glielo rivendeva come un pezzo da museo ma come una forma musicale viva ed eccitante. Ma durò un attimo: la barriera del nuovo millennio fu attraversata da un’ondata di elettronica (il drum’n’bass e il grime, nati nei primi anni Novanta, e lo UK garage e il dubstep, spuntati invece nei primi anni Duemila) capace di spazzare via con estrema violenza tutta l’attenzione che pochi anni addietro il jazz era riuscito a crearsi nel Regno Unito. 

Ovviamente lo scambio di culture in UK non si è mai fermato, consolidandosi su coordinate diverse, ma è una storia che racconteremo in altra occasione. Qui ci interessa evidenziare l’importanza di quell’incontro, quello tra jazz e hip-hop, da molti visto come un tentativo commerciale ma che in realtà sta partorendo la musica più interessante di questo inizio di millennio. E se i duri e puri del jazz non sono ancora convinti li invitiamo ad ascoltare lo straordinario omaggio a Louis Armstrong che Wynton Marsalis, Nicholas Payton e il trombonista Wycliffe Gordon hanno pubblicato da poco per la Verve e intitolato «A Gift To Pops»: a parte l’eleganza e la raffinatezza con la quale i musicisti coinvolti nel progetto riescono a trattare il materiale di Armstrong, vi è contenuto un brano, Black And Blue, la magnifica composizione di Fats Waller in cui Nicholas Payton interagisce con il rapper Common. Vi renderete conto che l’unione tra jazz e rap (o spoken word, chiamatelo come volete) ha ormai raggiunto un vero livello di maturità e di consapevolezza. A noi non resta altro che attendere ciò che saprà riservarci nel futuro.

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