Angular Blues: Wolfgang Muthspiel

Veterano dei gruppi di Gary Burton e di Paul Motian, da quando è rientrato in patria il chitarrista austriaco sembra aver trovato la quadratura del cerchio: due cd in quintetto (con Akinmusire e Mehldau) e un nuovo album in trio, con Scott Colley e Brian Blade. Qual è il suo segreto?

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Parliamo del tuo ultimo album «Angular Blues». Perché hai voluto che il brano omonimo rappresentasse il titolo del tuo album?
Ho scelto questo brano come titolo perché  è una locuzione atipica per me. Poi, perché ritengo che potesse creare dei pensieri interessanti. È forse il brano più complesso dell’album, ma la forma su cui suoniamo è sempre il blues.

I due canoni che troviamo nel disco sono molto interessanti. Hai voluto sottolineare quanto la musica classica e il jazz siano vicini?
Non volevo intenzionalmente dimostrare nulla. Ma provengo dalla musica classica e mi piacciono le sfide tecniche della scrittura dei canoni. Trovo interessante combinare un linguaggio così impostato con l’improvvisazione.

Sei tornato al trio e hai confermato la tua collaborazione con Brian Blade. Qual è il suo valore aggiunto alle tue strutture musicali?
Brian ha il dono di portare sempre così tanto in ogni situazione e di dare sempre il Massimo: presenza totale e supporto totale. La nostra relazione è cresciuta negli anni, negli album e nei tour. Mi sento molto fortunato a continuare a condividere la mia musica con lui.

Comunque, non c’è più Larry Grenadier e, al suo posto, troviamo Scott Colley.
Larry è un altro dei miei collaboratori di vecchia data. Nel periodo in cui si dovevano tenere questi concerti in Giappone, e in quello della successiva registrazione, era impegnato con altri concerti. Avevo già suonato con Scott e l’ho adorato da subito. Inoltre, Scott e Brian hanno suonato in molte situazioni insieme negli ultimi anni, quindi volevo usare questo affiatamento e il calore che riescono a sviluppare stando insieme.

Scott Colley – Brian Blade – Wolfgang Muthspiel

Dopo aver ascoltato il tuo disco, cambieresti qualcosa?
Onestamente, non la penso mai così. Ritengo che, a un certo punto, la registrazione è terminata e quindi è libera da me e dal mio giudizio: spetta agli altri dire la propria opinione. Questo disco, però, mi sta rendendo felice.

Facciamo un passo indietro e parliamo del tuo lavoro precedente: «Where The River Goes». Come hai messo insieme il supergruppo con cui qui suoni?
Questo album è iniziato con il desiderio di continuare quanto costruito nell’album precedente, «Rising Grace». Quindi, ho cercato di espandere il trio con Larry, Brian e me, aggiungendo la tromba e il pianoforte. Ho pensato ai miei musicisti preferiti e ho chiesto loro se volessero suonare con me e i miei compagni. Fortunatamente l’idea è subito piaciuta e quando ho saputo che erano a bordo, ho iniziato a scrivere per noi cinque. È la stessa band in entrambi gli album del quintetto, solo Eric Harland suona in «Where The River Goes» al posto di Brian Blade. Il risultato è interessante: entrambi sono fantastici, ma molto diversi.

Quando componi già sai quale tipologia di gruppo e quali musicisti suoneranno con te?
Sì, il più delle volte. Ma c’è anche una sorta di composizione quotidiana che faccio, indipendente da ogni idea di chi suonerà la mia musica. È più come raccogliere oggetti per usi futuri. Ma, per esempio, quella melodia nella canzone Wondering è ispirata all’immaginazione del suono di Scott.

Cover Angular Blues

Tu hai anche collaborato con due giganti del jazz come Paul Motian e Gary Burton. Queste collaborazioni hanno influenzato il tuo modo di concepire la musica?
Decisamente. Entrambi sono stati molto importanti per me. Gary Burton mi ha dato una grande opportunità quando ero giovane e piuttosto nuovo negli Stati Uniti, e Paul fu una rivelazione da molti punti di vista, qualche anno dopo: mi ha fatto conoscere lo swing.

Tu hai vissuto negli Stati Uniti per molti anni, ma sei tornato in Europa, nella tua natia Vienna. Perché hai fatto questa scelta?
Desideravo ardentemente l’Europa, lo spazio, la bellezza. Comunque, adoro ancora gli Stati Uniti e sono – e sarò – per sempre grato a quella scena.

Questa scelta ha cambiato qualcosa in te?
Non sono sicuro, ma probabilmente è così. Ho una situazione calma in cui posso creare. Non devo lottare per la mia esistenza. Ho una piccola famiglia di cui mi prendo cura e lei si prende cura di me. Questo è molto importante per me.

Hai iniziato studiando la musica classica. Poi, cosa è successo? Perché hai scelto il jazz?
Sono cresciuto con la musica classica. Ho iniziato studiando il violino quando avevo sei anni. Il jazz è arrivato parecchio dopo, intorno ai quindici anni. Studiavo entrambi e così sono andato avanti fino ai ventidue anni. Ho dovuto, quindi, prendere una decisione, perché non potevo rendere giustizia a entrambi allo stesso tempo. Così, sono approdato definitivamente al jazz e alla sua libertà espressiva.

Hai studiato al Berklee. Oggi, quanto è importante frequentare una scuola come questa?
Sulla carta non è importante. Nessuno lo chiede mai. Ma in termini di apprendimento è una scelta valida, perché si incontra un’intera generazione di musicisti. Tuttavia, questo percorso può essere fatto in altri modi, sul palco con un maestro o attraverso un sacco di ascolto e sperimentazione. Tuttavia, c’è una lingua con cui bisogna familiarizzare per esprimersi adeguatamente, o per rifiutarla, o cambiarla. È necessario comprendere i colori quando li si utilizza.

Ci sono alcuni tuoi colleghi compositori che affermano che il musicista può, anzi dovrebbe, cambiare il mondo. Come vedi il tuo ruolo nella società?
Nel mio mondo la musica è ciò che ha più senso per me. È essenziale come il cibo. Penso che ciò che un artista possa fare in questo mondo sia mostrare uno stile di vita che non si basi sui soliti trofei come denaro e potere. Una vita che è una specie di gioco, una specie di ricerca, una specie di esplorazione. Può anche essere una vita che rispecchia direttamente la realtà politica e sociologica, ma la mia musica non lo fa. L’arte esprime una speciale dimensione spirituale, non ideologica, di cui il mondo ha bisogno.

Capovolgo la solita domanda. Secondo te, c’è qualche chitarrista che è influenzato dal tuo modo di suonare e di comporre?
Interessante. So che alcuni miei studenti sono influenzati da me e dal mio modo di approcciare alla musica. Sarei curioso, però, di sapere se vi sia qualcuno che è influenzato dalla mia musica e dalla mia tecnica.

Wolfgang Muthspiel

Musicalmente parlando ti senti più statunitense o europeo?
Penso che nella mia musica confluiscano entrambe.

Hai mai pensato di lasciare la musica e cambiare professione?
No, mai.

Cosa avresti fatto se non fossi diventato un musicista professionista?
Ci sono molte cose che amo fare, ma non sono realmente portato tanto da poterne fare una professione. Mi piace cucinare, scrivere; mi sarebbe piaciuto diventare un tennista (ma non gioco a tennis). Magari viaggiare per il mondo con un piccola valigia e un libro di poesie.

Sono cambiati, nel corso del tempo, i tuoi obiettivi artistici rispetto a quando hai iniziato?
Sì, sono passati da obiettivi di carriera e obiettivi tecnici a obiettivi artistici. Voglio migliorare molte cose nella musica e voglio approfondirne il suo nucleo.

Chi sono i tuoi artisti (non musicisti) preferiti?
Mattisse, Cy Twombly.

Pensi che in seguito alla pandemia causata dal Sars Covid-19 il mondo dello spettacolo dovrà cambiare il suo approccio e le sue modalità?
Che ne dici, per esempio, di un’assicurazione sanitaria gratuita per tutti gli artisti e liberi professionisti?

Quali sono i tuoi progetti futuri?
In questi giorni canto molto, perché sto imparando un grande ciclo di composizioni di Schubert. Ho una rinnovata voglia di esercitarmi alla chitarra. Sono fortunato a poter fare musica.
Alceste Ayroldi

Foto di Laura Pleifer

Intervista pubblicata su Musica Jazz di luglio 2020