«Overtones». Intervista a Valerio Corzani

Musicista, critico musicale, regista e conduttore radiofonico, Corzani, con Erica Scherl, da qualche anno, ha dato vita a Interiors, che ha recentemente pubblicato un nuovo disco. Ne parliamo con lui.

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Buongiorno Valerio, piacere di conoscerti e ospitarti tra le pagine di Musica Jazz. Dunque, inizierei con il chiederti di spiegarci come è nato il progetto Interiors.
Il progetto è nato dall’affinità elettiva che si è fin da subito accesa tra me ed Erica Scherl (parliamo di undici anni fa, quando ci siamo conosciuti). È una sintonia che ci ha visto collaborare dapprima nel progetto de Gli Ex, che guidavo insieme a Massi Amadori, Alessandro Casetti, Frei Rossi e Alessandro Ciuffetti, e poi in una serie di progetti tra musica e teatro come il reading musicale dedicato a Le Galline Pensierose di Luigi Malerba. Erica è una musicista totale che suona ogni tipo di violino (dalla viella al violino barocco, dal violino acustico al violino elettrico) e i nostri background si completavano a vicenda, pur essendo entrambi contraddistinti dalla medesima apertura mentale e da una sorta di interesse famelico per ogni tipo di musica.

E’ sempre una mia curiosità capire il processo mentale che porta gli artisti a definire un progetto, a dargli un nome. Perché hai (o avete) scelto proprio questo termine, Interiors?
Il primo sottotitolo del progetto era: arredamenti sonori per interni, direi che l’insegna è venuta fuori da lì. Interiors è anche una parola che conserva una benefica dose di ambiguità, perché il riferimento potrebbe anche essere alle pareti interiori della nostra anima, alla percezione dei sensi interni…

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E perché il titolo «Overtones»?
Abbiamo sempre «giocato» con i titoli dei nostri album, mettendo in pista una buona dose di ironia ed autoironia e supportando il tutto con alcuni dei miei scatti fotografici che sono finiti nelle nostre copertine. Dopo «Liquid», che aveva in copertina quattro scalini di un canale veneziano coperti da alghe e melma e lasciava aperta la possibilità di interpretare il termine Liquid come componente acquatica o come riferimento alla musica liquida, è arrivato «Plugged» che ribaltava il cliché del disco unplugged segnalando che noi nella nostra musica abbiamo piuttosto “attaccato la spina” anziché staccarla. Poi è arrivato «Escape from the war», un titolo per certi versi profetico per un album uscito nel 2019, e che però suggeriva (attraverso una foto scattata davanti al Macba di Barcellona) di fuggire dalla guerra a bordo di uno skateboard. Infine «Overtones», dove la consapevolezza che la vita è una questione di sfumature e di piccolissime e decisive sliding doors viene certificata da una foto dai toni e dai profili molto definiti, tutt’altro che sfumati. Le sfumature del titolo vengono poi spiegate poeticamente anche dal testo di More Overtones, scritto e interpretato da Luca Swanz Andriolo dei Dead Cat in a Bag, il quale ci ha fatto il regalo di mettere il suo vocione nell’unico brano dell’album che ha quasi il profilo della forma canzone.

Un’altra curiosità nasce dal fatto che il lavoro discografico è già in doppia veste: quella “naturale” e quella remix. Perché hai deciso per questa formula già ab initio?
Perché le follie vanno assecondate fino in fondo e produrre un doppio album di questi tempi è davvero un po’ folle.

Perché remixare i brani? Qual è l’obiettivo e chi si è occupato del remix?
Ci piaceva smentire fin da subito la categoria museale che prendono gli album quando escono. È come se la versione che hai fatto uscire fosse sempiterna e definitiva e invece a noi piace pensare ai nostri brani come se fossero fatti col pongo. Passibili di essere modellati e vestiti ogni volta in modo diverso. Così abbiamo deciso di affidare il remix di alcuni brani della scaletta a dj e producer che li vestissero nuovamente. Speriamo sia una piacevole sorpresa per il pubblico che si ritrova questa “torta” ben farcita e lo è stata anche per noi, perché Filoq, Vinx Scorza, DLewis, Manuel Volpe e la Rhabdomantic Orchestra, Francesco Colagrande hanno trattato i nostri pezzi con grande inventiva e libertà, restituendoci una serie di quadri che attingevano a una tavolozza fatta di diverse sfumature, di overtones che magari approfittavano più pesantemente dell’opzione elettronica e lo facevano comunque esprimendo in pieno la propria personalità e la loro fisionomia stilistica. C’è chi ha spinto più sull’house, chi sul dub, chi sulla techno e chi sul glitch. Il gioco di rivestire e riarrangiare i brani ci è piaciuto così tanto che ci siamo riservati anche noi un paio di remix. Quello di “Due di due” ci è servito tra l’altro a recuperare le tracce di tastiera che ci aveva spedito Massimo Martellotta dei Calibro35. Nella versione del primo cd avevamo dovuto tagliarne parecchie per non saturare troppo l’arrangiamento e invece nel nostro remix di quel brano abbiamo potuto dedicarci a valorizzare il suo magnifico manovrio e le sue invenzioni timbriche.

Ho apprezzato moltissimo il videoclip di Little Lullaby, che racconta una storia emozionante. Ti andrebbe di riassumerla per i nostri lettori?
In realtà la storia nasce da un canovaccio molto libero venuto in mente ad Erica, ovvero il «sogno lucido» di una sciamana, impersonata nel video dalla danzatrice Anna Albertarelli, che ha delle visioni rappresentate da queste figure eteree e terrestri al tempo stesso, impersonate dalle danzatrici della compagnia DROP di AlmaPro, dirette da Elisa Pagani. Il femminile atavico e ancestrale, declinato in due accezioni contrapposte e complementari…la sciamana sogna, e sognando danza, e sognando riesce ad addormentare le giovani, forse per farle sognare, o per farle entrare con più profondità dentro di sé, perché si sa che il sogno e la realtà sono l’uno l’ombra dell’altra. Lasciamo che le suggestioni ispirate dal video parlino a chi lo guarda in modo sempre diverso, con piani di lettura che possono mutare e rinnovarsi.

In secondo luogo, vorrei chiederti qualcosa in merito alla realizzazione dello stesso: il regista, gli attori, i luoghi.
Il regista Fabio Fiandrini, cui siamo legati da un lungo sodalizio (ha curato anche la regia del nostro Soundtrack For A Christmas Tree, un lungo brano di 20’ del 2015) ha colto ed interpretato perfettamente la nostra idea. Così hanno fatto anche Elisa Pagani e Chiara Merolla che hanno lavorato con un tipo di danza contemporanea che a noi piace molto, perché carnale e lontana dagli stereotipi, e Anna Albertarelli, iconica, inquietante e misteriosa con la sua fisicità così intensa. Tutto è nato in modo molto spontaneo, da un’alchimia che non ha avuto bisogno di molte parole, e che si è nutrita anche della magia del luogo in cui è stato girato il video, ovvero il Parco dei Gessi e dei Calanchi della Badessa vicino a Bologna.

Il videoclip ci fa capire, ancor più, quanto la musica di Interiors sia visiva, cinematografica mi viene da dire. Però, ciò che vorrei chiederti è se hai avvertito tu, in quanto artista, la necessità di realizzare il video, oppure perché fa parte, oramai delle logiche di mercato?
No no nessuna logica di mercato, noi abbiamo sempre avuto un particolare interesse verso l’interazione tra i nostri suoni e le immagini. Addirittura del primo album finimmo per realizzare un clip per ognuno dei brani in scaletta e in questi anni ci siamo trovati sia a realizzare una serie di sonorizzazioni live (dei documentari di Yann Arthus-Bertrand, dei super8 sperimentali di Derek Jarman e, prossimamente, del magnifico Fata Morgana di Werner Herzog) sia a comporre vere e proprie colonne sonore. È un’attitudine che, come hai notato anche tu, si sposa bene alla nostra musica, la completa e la valorizza. Poi, certo, un videoclip è anche un modo per far circolare meglio una proposta sonora, per piazzarla sui social con maggiore efficacia. Ma le logiche che seguiamo noi quando pensiamo a un video, sono molto lontane dal tran tran del marketing degli influencer. Il cinema piace molto ad entrambi, tutto qua.

Valerio, se tu fossi costretto – e sottolineo costretto – a dover riporre il disco di Interiors in uno scaffale di un negozio di dischi, dove troverebbe alloggio? In quale genere musicale?
Come tutti i progetti molto porosi, anche il nostro fatica ad essere definito in una sola categoria stilistica. Se ci fossero ancora i negozi di dischi ci divertiremmo molto a vedere dove i vari esercenti piazzerebbero i nostri. Metterli in difficoltà sarebbe già in qualche modo una piccola vittoria. Sceglierebbero lo scaffale delle colonne sonore? Della world music? Dell’ambient? Del jazz? Della cosiddetta chill-out? Del Post-Rock? Della Folktronica? I nostri brani stanno tutto sommato dentro a tutte queste definizioni e allo stesso tempo non si esauriscono in esse. Un recensore del nostro disco d’esordio parlò di Dub da camera e questa è una definizione che ci è piaciuta molto, a patto che si pensi sia al dub che alla musica da camera ben al di fuori dei piccoli e rigorosi recinti di genere in cui vengono solitamente collocati. Si tratta di dub come attitudine e di musica da camera come sfera poetica.

Un disco che lascia ascoltare echi di classica contemporanea, di folk, di rock d’avanguardia, che dispensa groove. Quanto delle tue esperienze precedenti, penso ai Mau Mau per esempio, confluiscono in questo nuovo progetto e quanto c’è di totalmente nuovo nella tua vita artistica?
Tutto si tiene, certo. La propria storia confluisce in ogni nuova avventura, che lo si voglia o no. Pur essendo calligrafie molto diverse anche le mie storie con Mau Mau, Mazapegul, Daunbailó, Gli Ex e Caracas finiscono dentro Interiors. Ci finisce ad esempio un certo amore per la “vertigine”, per la trance, per il coinvolgimento immersivo nei concerti, per l’attraversamento delle latitudini geografiche e per i sub profondi che caratterizzano il mio suono di basso.

Ti andrebbe di fare un bilancio di quanto fino a ora hai realizzato?
Urca, è difficile, molto difficile fare bilanci. Ho cinquantotto anni, ma ancora lo zaino pieno di suoni, storie, strumenti, mappe, progetti che forse non riuscirò a realizzare ma che ho comunque sognato e quindi è già come se li avessi realizzati. Sono sempre stato un globetrotter eppure mi mancano ancora tanti posti da conoscere e attraversare. Non sogno quasi mai cose da comprare. Sogno sempre latitudini e anemometri, come quello raffigurato nella copertina del nostro ultimo album. Di certo se mi guardo indietro apprezzo la cocciutaggine con cui ho disdegnato i consigli di chi mi raccomandava di abbracciare un solo campo, una sola pratica. Fare “solo” la radio, solo il giornalista della carta stampata (e anzi solo il critico jazz senza occuparmi di rock), solo il musicista, solo il fotografo, solo il conferenziere o il didatta…Poi sono arrivati gli anni novanta, è esploso Internet e tutti i puntini si sono collegati come in quei giochi della Settimana Enigmistica. E fare tutto è diventata una qualità, un bonus, una chance in più.

Erica Scherl e Valerio Corzani

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi?
Sono scisso tra il cercare di continuare a fare quello che faccio e il trasferirmi in un isoletta piena di palme, tra il divulgare la musica di qualità e un mestiere come il guardiano del faro. Non è detto che in futuro non trovi il modo di conciliare queste attitudini. O forse, a ben vedere, l’ho già trovato: devo solo tenere ben oliato il motore.

Valerio, la tua esperienza non è limitata a quella di artista, ma trova agio nella critica musicale, nel mondo delle emittenti radiofoniche e dell’editoria musicale, visto che sei anche un saggista. Mi daresti il tuo parere sul Music Business in Italia?
Certo è un mondo profondamente cambiato. Per certi versi un cambiamento irreversibile cui hanno dato il “la” le etichette discografiche degli anni Novanta che hanno accolto con una miopia misogina l’avvento del digitale. Il terrorismo commerciale con cui hanno accolto i nuovi formati ha finito per favorire la pirateria e innescare processi che non è più possibile calmierare. Mio nipote non comprerà mai un mp3, al massimo è disposto ad abbonarsi a una piattaforma, ma lo fa con dispetto perché è nato in un mondo in cui la musica non si paga. Purtroppo i vecchi vizi, le paturnie produttive, continuano ad essere reiterate. Se guardo a quello che è successo a noi per la pubblicazione del nostro album vedo luci e ombre. Da una parte abbiamo potuto produrcelo da soli, investendo i nostri soldi in uno studio di registrazione cui siamo fedeli fin dal primo album (Spectrum Studio di Bologna), in un buon distributore (Audioglobe) e in un ottimo ufficio stampa (Guido Gaito) che oltre ad essere diventato nostro amico, “cospira” con noi per far crescere la nostra musica. Dall’altra non riesco a dimenticare la mancanza di feedback da parte di alcune (poche) etichette teoricamente “indie” e “illuminate” che avevamo provato a coinvolgere prima di decidere per l’auto produzione. Pensa che uno mi ha risposto che non poteva produrre il nostro album perché odiava il suono del violino, non quello del violino di Erica, ma proprio del violino in generale, senza aggiungere null’altro sulla nostra musica. Ma come si fa? Che discorso è? Come si fa ad essere così superficiali? Tra il violino di Iva Bittova e quello di Stephan Grappelli c’è un abisso, così come tra quello di Yilian Canizares e Salvatore Accardo, o tra un violinista folk irlandese e un violinista rom. Mettere tutto nella stessa idiosincrasia è una forma di razzismo davvero deprimente.

Ho letto che ti sei laureato con una tesi su John Cage, grande personalità artistica che, però, allorquando in vita ha stentato anche a mettere insieme il pranzo con la cena. Post mortem in molti si sono accorti di lui. Non voglio scoprire la tua tesi di laurea, ma ti andrebbe di sintetizzare in tre punti la grandezza di Cage?
Cage ho avuto anche la fortuna di conoscerlo, di regalargli la mia tesi e di offrirgli il braccio per una settimana per aiutarlo a salire le scale o a cucinare i suoi infusi macrobiotici. È stato per certi versi come fare una tesi su Socrate e poi conoscere Socrate, un privilegio indicibile. Se dovessi assegnare tre definizioni alla sua musica direi 1) tollerante (perché non aveva preclusioni ed era interessato non solo ai suoni ma anche ai rumori e ai silenzi 2) catalizzatrice (perché con l’happening inventó le pratiche multimediali e le connessioni tra le arti) 3) ludica (perché il suo amore per la cultura orientale gli permise di demilitarizzare la composizione e consegnare un ruolo privilegiato all’alea, ovvero ai giochi imprevedibili del caso)

I cd sembra che stiano per andare in pensione definitivamente, la carta stampata – in particolare i quotidiani – stentano a trovare un mercato. Le tecnologie ci stanno sovrastando, sopraffacendo?
Vedremo…personalmente non ho preclusioni  nei confronti dei nuovi “strumenti” e trovo piuttosto patetica e ultra-passatista la riscoperta del vinile. Se da adolescente, con la divorante voglia di musica che avevo, avessi avuto la possibilità come ho oggi di esplorare “con un colpo di mouse” la cultura musicale cipriota o i modi della musica del Rajasthan, ascoltare un concerto in streaming di Nick Cave o recuperare un libro di analisi sull’idioma zapoteco, sarei stato al settimo cielo. Sono che oggi si possono fare, allora o non si poteva o dovevi metterci un impegno assurdo senza essere certo di riuscirci.

Qual è il tuo rapporto con il pubblico?
Il pubblico lo rispetto, ma non ragiono in base alla dittatura dei numeri e alla retorica della maggioranza. Vedo sempre più colleghi musicisti che abbassano l’asticella qualitativa della propria musica per ottenere un ingaggio in più o avere un recinto più largo in cui collocarla. Certo la situazione per chi fa musica di ricerca (e bada, uso questo termine nel senso più lasco possibile) è sempre più tosta. Ma dall’altra parte guardo con ammirazione a chi riesce con grande surplace a conciliare il bello e l’attraente, il sorprendente e il ludico. Penso a gente come Teho Teardo e Vinicio Capossela, ma anche a Beatrice Antolini, Danilo Gallo, i Calibro35, i C’Mon Tigre, Antonello Salis, Pasquale Mirra, Giorgio Li Calzi, Peppe Voltarelli, Vera Di Lecce, Caterina Palazzi, Costanza Alegiani, Michele Rabbia, Caterina Barbieri. È tutta gente, che in ambiti diversi, fa musica poco incasellabile (i titolari delle radio mainstream la definirebbero “strana”) eppure girano l’Italia e l’Europa, trovano spazi per i loro live. Prendi Danilo Gallo, ha duemila progetti, tutti di qualità, evviva!

Un artista con cui vorresti collaborare, o avresti voluto collaborare (se non è più in vita).
Suonare con un esteta del rumore come Arto Lindsay, dopo che negli anni Novanta ho avuto la fortuna di collaborare e suonare con un altro fuoriclasse come Marc Ribot, sarebbe davvero un trip fantastico.

Un consiglio su un libro da leggere, da non perdere.
Consiglio tutta la bibliografia di Philip K. Dick, nessuno escluso. Ci insegna a immaginare mondi, ci aiuta a preservarli, ci spinge all’eroismo e alla lungimiranza, ci avverte sui pericoli della cultura mainstream (anche quando è travestita da balilla marziano) e ci rincuora. Farsi rincuorare da un uomo disperato come Dick, mi sembra un ossimoro fertile e mirabolante.

Cosa è scritto nell’agenda di Valerio Corzani?
Resta curioso.
Alceste Ayroldi

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