«ARCH». Intervista al trio ARCH

ARCH, al secolo Luca Sguera (pianoforte), Joe Rehmer (contrabbasso) e Giovanni Iacovella (batteria) presentano il loro primo lavoro discografico pubblicato dalla Hora Records. Ne parliamo con loro.

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La presentazione del vostro lavoro discografico recita, testualmente: «In “Asleep At The Disco” gli strumenti si confondono in un’unica trama cubista fatta di pulsazioni, suoni percussivi e ostinati ritmici che proiettano, a ripetizione, un’orchestra gamelan in una discoteca». Una presentazione folgorante che, però, merita qualche precisazione. Partiamo dalla trama cubista. Quale sarebbe?
L.S.: La volontà è quella di far vivere all’ascoltatore una complessità data dalla sovrapposizione simultanea di tre prospettive (la mia, quella di Joe e quella di Giovanni) su un unico soggetto, puramente ritmico. Ogni prospettiva nasconde poi in sé un’ulteriore complessità, intimamente legata alla scelta timbrica degli elementi che costituiscono la trama ritmica. Credo che la musica in quanto arte del tempo possa dare forma ai temi della complessità e della simultaneità, che sono d’altronde gli stessi dell’arte cubista.

D’altro canto, c’è bisogno di un po’ di sano cubismo oggi. Soprattutto nel jazz: ci sono troppi jazzisti che hanno reso troppo seriosa questa musica e si prendono troppo sul serio. Non credete?
L.S.: Non credo che prendersi sul serio sia una cosa negativa, se questo significa credere in una propria ricerca artistica, soprattutto quando questa vive di rapporti con le ricerche altrui e le riconosce. Il cubismo dovrebbe stare nella curiosità e nell’immaginazione di una realtà in qualche modo sempre nuova, fatta di complessità, di rapporti e di un procedere assieme che si riflette nella simultaneità di cui parlavo prima.

Cosa ci farebbe un’orchestra gamelan in discoteca?
L.S.: In Asleep At The Disco, che è il titolo del singolo che anticipa il disco, il senso della discoteca sta nell’utilizzo della ciclicità e delle gravità ritmiche mentre quello dell’orchestra gamelan nel lavoro di gruppo su un unico soggetto e nella qualità dei timbri non temperati di pianoforte preparato e percussioni. (Luca)

Tra i titoli dei brani mi ha colpito quello dedicato a Jenny Lind, che è stata anche la prima artista ad avere un vero e proprio fan club. Come mai questa dedica?
L.S.: Avevo scritto il pezzo lavorando ad un progetto discografico del collettivo Goodbye, kings. I pezzi di questo disco (non ancora realizzato) sono tutti legati al mondo del circo di Phineas Barnum, il quale portò la cantante svedese Jenny Lind ad esibirsi in una serie di concerti oltreoceano che riscossero un grandissimo successo di pubblico. Il canto e la forma canzone sono la principale ispirazione per questo brano, che avevo già registrato con Alessandro Mazzieri ed Ernst Reijseger e pubblicato nel disco «From The Oosterkerk» (RousRecords, 2021) con il titolo Swedish Nightingale, nome con cui veniva chiamata Jenny Lind dal suo fan club.

Da un primo ascolto, mi sembra che vi siano ampie parti affidate alla composizione, ma anche una buona parte all’improvvisazione. Nei live come procederete?
J.R.: Questo può ovviamente cambiare da concerto a concerto ma in generale ci piace che la musica che suoniamo sia più libera possibile. I pezzi lasciano tanto spazio per l’improvvisazione libera fornendo al contempo dei punti di partenza e di arrivo per essa. Sul palco siamo aperti a tutto, sempre in ascolto, pronti ad interagire e ad andare dove la musica ci porta.

Facendo un piccolo passo indietro. Il trio ARCH come è nato?
J.R.: Conobbi Luca nel 2018, dopo un suo concerto con AKA al Marchisielli di Foligno. Parlavamo di trovarci a suonare e Luca mi parlò di Giovanni, che non avevo mai incontrato, nonostante avessi già sentito il suo nome. A febbraio del 2019 Giovanni e Luca tornarono a Foligno per registrare con Dan Kinzelman il primo disco di She’s Analog “What I Bring, What I Leave” e approfittammo dell’occasione per trovarci e fare la nostra prima session.

E il nome di questo gruppo, da dove nasce?
G.I: Il nome nasce dall’idea di una struttura, un arco appunto, che tiene uniti due punti e allo stesso tempo sostiene il peso di qualcosa che si erge al di sopra. Metaforicamente parlando, l’improvvisazione e la composizione rappresentano i due pilastri tra i quali si manifesta l’attività di questa struttura, ovvero la musica del trio. Il gruppo diventa quindi un veicolo, un luogo nel quale le personalità dei singoli musicisti hanno modo di esprimersi liberamente attraverso composizioni ed improvvisazioni che alternano tessiture sonore particolarmente dense a momenti di respiro più eterei e vicini al silenzio.      

In relazione a questo disco, ma anche in generale, come vedete il rapporto tra suono, spazio e performance e quali sono alcune delle vostre strategie e approcci?
J.R.: Abbiamo registrato questo disco presso l’Auditorium San Domenico di Foligno con Dan Kinzelman. Considerando che è una cattedrale del XIII secolo lo spazio è molto grande e potete immaginare quanto riverbero naturale possa esserci. In una situazione del genere devi sempre suonare facendo i conti con lo spazio che ti circonda, cosa che in casi come questo ti porta generalmente ad avere un approccio particolarmente aperto. L’importanza data ad ogni gesto viene amplificata dallo spazio regalando una naturale ariosità alla musica. Dan ha fatto un bel lavoro di ripresa e di mix, per far sì che il suono della band fosse caldo e definito mantenendo però le caratteristiche date dalla cattedrale in cui abbiamo registrato.

Derek Bailey ha definito l’improvvisazione come la ricerca di materiale trasformabile all’infinito. Indipendentemente dal fatto che siate o meno d’accordo con la sua prospettiva, quali materiali si sono rivelati particolarmente trasformabili e stimolanti per voi?
G.I.: Penso che il primo materiale stimolante e trasformabile incontrato sia stato quello umano, senza il quale non credo che questo progetto sarebbe nato. In secondo luogo la facilità nell’interagire musicalmente e l’attento ascolto reciproco rendono la musica fluida e sempre trasformabile. Cosi come cambiamo noi nel tempo, si trasforma il nostro modo di suonare, a seconda dei periodi, delle influenze artistico/musicali (spesso condivise) e degli stati d’animo. Per questo direi che un margine di trasformazione è sempre presente, se si è disposti ad ascoltare.

Mi rivolgo a voi che siete giovani. Non vi sembra che i giovani non abbiano un buon rapporto con il jazz?
J.R.: Credo che il termine giovani sia abbastanza relativo. Trovo che l’età media del nostro pubblico si sia notevolmente abbassata negli ultimi anni. Tutti e tre abbiamo ovviamente alcune radici nella tradizione della musica jazz ma se ascolti ARCH e gli altri nostri progetti come She’s Analog e Hobby Horse difficilmente li definiresti strettamente jazz. Mi sembra sempre più difficile etichettare la musica al giorno d’oggi. Si incrociano talmente tanto i generi che credo sia abbastanza controproducente suddividere tutto in contenitori, perché ciò non fa che limitare un potenziale accesso a nuova musica da parte degli ascoltatori.

Avete una visione musicale che non siete riusciti a realizzare per motivi tecnici o finanziari, o un’idea di ciò che la musica stessa potrebbe essere al di là della sua forma attuale?
G.I.: Penso non ci sia bisogno di ribadire quanto la nostra attività sia poco sostenibile, sotto molteplici aspetti, soprattutto se volta a un tipo di ricerca che non coinvolge un largo bacino di utenza. Detto ciò, penso sia indispensabile quantomeno immaginare un sistema diverso in cui le nostre attività (di produzione, studio e ricerca) siano invece sostenibili e sostenute da chi è in grado di farlo. In quanto al discorso legato alla visione musicale, penso che il primo requisito necessario sia l’urgenza, la necessità di dare voce a quella visione, che in un modo o nell’altro troverà sicuramente modo di manifestarsi.

Volendo dare un’etichetta alla vostra musica, quale sarebbe quella che trovate più calzante?
J.R.: Beh, è un piano trio acustico (pianoforte/contrabbasso/batteria) il che mette ARCH all’interno di questa incredibile tradizione musicale (contemporanea e storica). Come ti dicevo è davvero difficile etichettare tanta musica. Mi è sempre piaciuto molto il nome dell’etichetta di John Lurie, che è Strange & Beautiful Music. Tanta della musica che mi ha influenzato negli anni è strange and beautiful.

Quali sono i vostri obiettivi artistici?
G.I: In quanto gruppo, penso che uno dei nostri obbiettivi principali sia quello di portare avanti il lavoro di ricerca e lo sviluppo di un suono e una direzione artistica unici del trio. A monte di questo lavoro, penso sia importante per noi presentare la nostra musica dal vivo dato che gran parte della crescita è legata alla pratica performativa.

Cosa è scritto nell’agenda degli ARCH?
G.I.: A maggio, in occasione dell’uscita del disco, presenteremo la nostra musica dal vivo a Rimini, Thiene e Padova. Per il resto è in programma un tour autunnale e tanto lavoro sulla nuova musica.
Alceste Ayroldi

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