Tower Jazz Composers Orchestra: prima parte

La prima parte dell'intervista a Francesco Bettini, Alfonso Santimone, Filippo Orefice, Giulia Barba e Stefano Dallaporta che ci parlano della genesi e dell'attività di quella che si è imposta come una delle esperienze orchestrali degli ultimi anni.

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Tower Jazz Composers Orchestra Foto di Eleonora Sole Travagli

Iniziamo dagli aspetti pratici: a chi è venuta in mente l’idea dell’orchestra e come ha preso forma?
Francesco Bettini: Non è tanto un chi, ma un come. Non è che manchino le idee, anzi è esattamente l’opposto, ma difficilmente si realizzano senza che ci siano condizioni favorevoli a svilupparle. In questo senso è stato fondamentale il fertile ambiente culturale che alimenta l’attività del jazz club Ferrara: una miscela di passione, condivisione e comunione d’intenti di promotori, musicisti e pubblico. Questi i presupposti. Sintetizzando, la genesi dell’orchestra è cominciata con la realizzazione, nel 2016, di una serie d’incontri diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, dedicati all’approfondimento delle tecniche di improvvisazione e conduzione. In conseguenza del successo dell’iniziativa, i partecipanti hanno richiesto di poter sviluppare collettivamente gli esiti del workshop con ulteriori sessioni di conduction per largo organico. Nel corso del 2017, attraverso una sorta di selezione naturale dei partecipanti, si è andato a delineare progressivamente il nucleo di base dell’orchestra che, in breve tempo, si è trasformata in un vero e proprio laboratorio stabile di composizione e arrangiamento. Da lì in poi l’orchestra si è trovata mensilmente presso il club estense e in questi anni di attività, ci hanno lavorato una cinquantina di musicisti producendo un repertorio originale di oltre sessanta composizioni, un disco, un tour italiano ed uno europeo alle porte.
Alfonso Santimone: è un progetto nato in seguito a una precedente esperienza di stampo didattico che si era svolta al Torrione Jazz Club di Ferrara. L’iniziativa, nominata The Unreal Book (titolo ottimamente congeniato da Piero Bittolo Bon), si prefiggeva di lavorare con gruppi composti dagli iscritti al corso su materiali compositivi e tecniche relative agli ultimi trenta-quarant’ anni della storia del jazz. Un insieme di repertori e pratiche improvvisative spesso non presente nei programmi dei vari Conservatori che dispongono di un dipartimento jazz, ma fondante e seminale rispetto alla contemporaneità. In seguito a quella esperienza ci è venuta l’idea di costruire una specie di laboratorio permanente di composizione/arrangiamento/orchestrazione e pratiche esecutive/improvvisative di ambito orchestrale.

Perché il nome Tower?
Francesco Bettini: Perché la sede del Jazz Club Ferrara è un bastione delle mura rinascimentali della città il cui nome è Torrione San Giovanni.

Qual è il vostro obiettivo?
Francesco Bettini: Il mio, come «produttore fantasma», è quello di trovare ancora i fondi necessari affinché questa esperienza possa continuare ad esistere e, parallelamente, di riprendere da zero un percorso analogo a quello che ci ha portati fino a qui. Il risultato è stato talmente positivo che sarebbe un delitto non replicarlo ad uso delle future generazioni di musicisti. È oltretutto un format che avrebbe senso venisse sviluppato anche altrove, laddove ci sia una situazione di analogo fermento.
Alfonso Santimone: Continuare a sperimentare i nostri linguaggi compositivi e improvvisativi, cercando di allargare gli orizzonti oltre l’idioma classico della big band, dal cui studio e frequentazione pratica ogni compositore/arrangiatore/orchestratore può di certo trarre grande arricchimento. Ma questa ricchezza non ha alcun senso se si tramuta in una pratica “morta”, freddamente museale, capace soltanto di negare il concetto stesso di tradizione. Senza transito, trasferimento, traduzione, tradimento, trasformazione la tradizione muore. Nega la sua stessa intima natura. Conseguentemente a queste considerazioni, anzi, a questo sentire artistico e culturale, uno dei nostri obiettivi è evolvere il nostro linguaggio sperimentando il più possibile senza preconcetti e senza sedersi sprofondando nella poltrona polverosa della common practice. Tutta questa pratica compositiva, intrecciata al fatto improvvisativo e performativo, costituisce un arricchimento artistico – e direi anche spirituale – per tutti noi. È un bagaglio che poi ci portiamo dietro nelle tante esperienze in cui siamo coinvolti e che fa germinare altre idee in altre formazioni di cui siamo leader o comprimari.

Come nasce un vostro disco? Chi è che fa da compositore e come avviene il processo compositivo?
Francesco Bettini: Lascio ad Alfonso il commento artistico, limitandomi a dire che per poter realizzare il primo disco della TJCO è stato fondamentale che convergessero i fondi della Regione Emilia-Romagna (attraverso la partnership con il Bologna Jazz Festival), la nostra sempre abbondante quota di autofinanziamento e l’entusiasmo e la competenza tecnica dell’Over Studio Records di Cento.
Alfonso Santimone: Il nostro primo disco è nato scegliendo alcune delle circa sessanta composizioni originali che abbiamo elaborato in questi anni di attività. Probabilmente il prossimo avrà un’impronta più monografica… staremo a vedere. Ogni musicista interno all’organico e che graviti intorno a questa nostra larga comunità può presentare una composizione. Il processo compositivo è qualcosa di personale per ciascun compositore e quindi spetterebbe ad ognuno parlare del proprio. Potrei descrivere estesamente diversi aspetti del mio linguaggio, visto che da sempre ho molto amore per la composizione (anche come destinazione e sorgente allo stesso tempo di idee legate alla mia pratica di improvvisatore), ma forse non abbiamo un centinaio di pagine a disposizione… Se ne parla comunque spesso tra noi musicisti, più o meno direttamente. E senza dubbio ne discutiamo molto brevemente quando, in sede di prova orchestrale, dobbiamo mettere in piedi una nuova partitura nelle pochissime ore del pomeriggio precedente alla nostra serata mensile al Torrione. Sarebbe molto bello avere spazi periodici sulla stampa di settore, cartacea e on-line, per discutere della “carne” della musica. Spesso si toccano argomenti interessanti anche per un pubblico non tecnico. Si sconfina su territori che hanno a che fare con le ragioni artistiche, culturali, filosofiche, politiche che nutrono una composizione.

Cosa bisogna fare per entrare a far parte di questa orchestra?
Alfonso Santimone: Al momento l’organico è al completo. Periodicamente ci sono diversi avvicendamenti, perché non tutti gli oltre venti musicisti sono sempre disponibili contemporaneamente dati i tanti impegni artistici di ognuno. Abbiamo quindi un’affollata “panchina” di veri e propri titolari (sembra un controsenso ma non lo è in musica) che rendono l’orchestra sempre disponibile per i concerti. Ma la panchina non è mai abbastanza grande. Naturalmente le abilità strumentali e improvvisative devono essere adeguate alla grande sfida che rappresenta montare un repertorio di concerto in poche ore di prova pomeridiana nel giorno stesso della performance. Se c’è poi l’interesse personale a sperimentare con composizione e orchestrazione il profilo dell’aspirante componente della TJCO risulta molto interessante. La nostra è un’esperienza che intende durare nel tempo e quindi il ricambio, più o meno graduale, sarà un processo naturale.

Alfonso Santimone
Foto di Eleonora Sole Travagli

Visto che siete in numero così consistente, visto che non viviamo negli Stati Uniti dove le orchestre beneficiano di contributi governativi per potersi esibire anche all’estero, come pensate di far fronte alle esigenze economiche degli organizzatori per poter partecipare a festival o rassegne in varie parti d’Italia?
Francesco Bettini: Per il momento, abbiamo ancora una copertura dal bando legge 2/18 della Regione Emilia-Romagna che ci consente di uscire a circa 2.500 euro, pari a circa il 50% di quanto sarebbe necessario per poter dare un compenso il più dignitoso possibile ad ogni componente dell’orchestra. Dall’estate 2020 in poi esauriremo questa risorsa istituzionale, ma speriamo che il progetto piaccia e che chi lo dovesse apprezzare si possa permettere di ospitarci. Tutto sommato non stiamo parlando di importi stratosferici…

A chi compete la direzione della vostra orchestra?
Alfonso Santimone: Il ruolo di direttore nel senso stretto è spesso ricoperto da me. Ogni tanto, se previsto in partitura, metto le mani sul mio arsenale elettronico che tengo a lato della postazione direttoriale, ma raramente suono il piano. Questo mi rende il componente dell’orchestra con le mani letteralmente più libere, non impegnate a suonare. Inoltre nella nostra orchestra sono il «veterano», con più anni di esperienza di arrangiamento e orchestrazione in tanti ambiti diversi. A volte altri mi sostituiscono sul podio e io magari vado al piano, oppure ballo in disparte e mastico degli yeah – yeah. La direzione artistica, al momento, è soprattutto di Piero e mia, ma abbiamo intenzione di costruire un vero e proprio comitato artistico, soprattutto perché il contributo compositivo di tutti si fa sempre più significativo.

I vostri riferimenti sono tanto jazzistici, quanto classici. Poi, troviamo dei passaggi come in Transitions dove si ascolta, in tratti profondi, anche il sound delle orchestre degli anni Sessanta, quelle da film. Quali sono i vostri spunti? Quali sono i vostri mentori spirituali?
Alfonso Santimone: Non posso rispondere per tutti, naturalmente. Per quanto riguarda Transitions lascerei la parola a Filippo Orefice che ne è il compositore. Personalmente i miei mentori sono talmente tanti e di ambiti così diversi che mi servirebbero pagine per nominarli tutti. Tutto ciò che ascoltiamo, leggiamo, vediamo, esperiamo nella vita ha senza dubbio un’influenza sulle nostre idee e sui nostri sogni e desideri musicali.
Filippo Orefice: È vero, in tanti hanno giustamente trovato in Transistions dei riferimenti alle colonne sonore di alcuni film d’azione degli anni ’60. In realtà non è stato pianificato, il mio gusto personale nello sviluppare l’arrangiamento mi ha condotto naturalmente a questa sonorità, per esempio: le improvvisazioni delle congas nell’introduzione richiamano in qualche modo la colonna sonora de L’infernale Quinlan ma ripeto, non me ne sono accorto e infondo, a posteriori, non mi dispiace. Il pezzo è stato scritto per il Malaika Trio di cui faccio parte assieme a Fabrizio Puglisi e Marco D’Orlando. È molto sintetico poiché il materiale scritto per trio deve lasciare spazio all’improvvisazione. Per un ensemble così largo è stato invece necessario sviluppare ulteriore materiale e nuove cellule melodiche. I riferimenti potrebbero essere tanti, non ne ho piena consapevolezza poiché nel mio bagaglio culturale c’è musica diversa. Sicuramente tra le varie fonti ci sono partiture per big band e musica cameristica, restando in ambito americano penso ad alcune composizioni di Jimmy Giuffre.

Il Maestro, la voce e la grancassa. Chi è il maestro, di chi è la voce e che lingua parla? Cosa racconta questo brano?
Alfonso Santimone: Il Maestro è il soprannome con cui è noto nella mia Ferrara (e non solo) Marco Jannotta, purtroppo scomparso nello scorso settembre 2019. Marco era un grande amico, valente pittore le cui opere sono sparse per tutta la città, nelle case di tanti amici, nei bar e nei locali pubblici, al Torrione, sui muri, per le strade. Era una persona di grande profondità e vasta cultura, con una genialità sempre al confine tra altezze filosofiche, trovate al limite del dadaismo, brutali e dionisiache chiacchiere da bar. Era amico fraterno di tanti di noi, di tutto lo staff del Torrione. Era un elemento centrale di quello che noi musicisti chiamiamo hanging, fare comunità nei luoghi di musica e per estensione di arte, bar compresi! In una delle sue trovate, Marco parlava da anni di una performance per grancassa e voce: una sorta di recitar-cantando, recitar-mugugnando, usando una sua lingua inventata tra citazioni in latino, dialetto ferrarese, dialetti immaginari, slang inventati. Una lingua che spesso usava anche negli audio messaggi tra amici, inviati spesso a notte fonda o di mattina presto, quando la sua creatività si scatenava intorno a testi classici da Omero a Dante, o a dar voce ai più disparati personaggi da Leporello ai Re Magi, a qualche oscuro e dimenticato calciatore. Questo brano è la documentazione di una sua performance dello scorso Aprile 2019 al Torrione. Il titolo allude a un romanzo di Bulgakov che entrambi amavamo. Mi è sembrato il titolo più adatto quando abbiamo compilato la scaletta del disco includendo questa registrazione come ghost track. Restituisce bene la figura di Marco tra «altezze e bassifondi», totalmente jazz.

Giulia Barba ©SoleTravagli

Trova l’intruso. Chi sarebbe l’intruso?
Giulia Barba: Il titolo Trova l’intruso vuole rispecchiare il principio con cui ho composto il brano: inserire in un contesto familiare elementi musicali estranei ad un orecchio abituato al linguaggio jazzistico tradizionale. Dal punto di vista melodico, gli intrusi sono le dissonanze ricorrenti nel tema principale; dal punto di vista ritmico sono i sedicesimi che compaiono all’improvviso nel contesto swing. E ancora, i due contrappunti che accompagnano la seconda e la terza esposizione tematica hanno la funzione di confondere l’ascoltatore, che a quel punto non sa bene quale linea melodica merita di più la sua attenzione. Dal punto di vista armonico, l’intruso è la riarmonizzazione costante del tema, tecnica compositiva inflazionata che tuttavia costituisce sempre il migliore effetto sorpresa. Dal punto di vista della forma, sono intruse le quattro battute finali del chorus d’improvvisazione, dichiaratamente blues, ma di sedici misure. Questa è l’idea che ha accompagnato la scrittura del brano, ad ogni modo spero che l’ascoltatore si senta libero di cercare e trovare l’“intruso” in autonomia, sorvolando la dichiarazione poetica dell’autore, relativamente ininfluente.
Alceste Ayroldi

La seconda parte dell’intervista sarà pubblicata il 3 novembre

L’intervista completa è stata pubblicata sul numero di agosto 2020 della rivista Musica Jazz.