Buongiorno Tamara, benvenuta a Musica Jazz. Vorrei iniziare dalle tue liriche. Alterni testi in lingua istriana, in italiano e anche in inglese. Immagino che la metrica sia sempre differente. Come ti destreggi tra questi differenti idiomi e come li plasmi nelle sonorità jazzistiche?
Grazie Musica Jazz per questa opportunità. Entro immediatamente nel merito: le parole o meglio i versi sono una parte essenziale dell’espressione vocale. A parte la suggestione emotiva, che per me è fondamentale sia nei testi che nella musica, il suono stesso dell’idioma prescelto, compreso il dialetto, ha una sua melodiosità e una metrica particolare, che mi porta a variare le melodie nella composizione, che poi collego con tutto ciò che caratterizza la musica jazz che nell’improvvisazione è da sempre il mio fondamento. Ecco perché il momento creativo musicale come la comunione con il jazz è un processo intuitivo che sgorga da fonti diverse, a volte è il linguaggio, a volte una tematica specifica, una melodia o una frase musicale. A tutto ciò s’aggiunge il contributo di grandi musicisti con i quali ho la fortuna e l’onore di collaborare.
Agli albori della mia carriera ho cantato in inglese rielaborando i diversi standard jazzistici tanto da comporre dei pezzi in questa lingua; le canzoni sono nel mio primo disco «Triade» del 1996. E’ stata una breve fase, perché la scoperta dell’Istria era già un fatto, per la melodiosità della sua lingua e per la specificità del melos locale, che è una parte importante della mia scrittura ed espressione musicale. Per cui da allora ho continuato scrivendo la maggior parte dei testi nel mio dialetto ciacavo presente nel sud dell’Istria. Poi, ho scritto le musiche su meravigliosi versi dei poeti istriani che compongono nei diversi dialetti locali sia di origine slava che romanza, ma ad ispirarmi sono stati anche i versi della poetessa italiana Carmela Ronchi autrice di M’hanno ferita, che mi hanno commosso quando ho avuto modo di leggerli all’ultima stazione della funivia che porta alla vetta più alta delle Dolomiti, la Marmolada.
L’uso dell’italiano o del dialetto istriano ti ha penalizzato dal punto di vista della visibilità a livello internazionale?
Potrebbe essere, ma credo che nel mondo del jazz intervengano altri elementi a determinare la presenza degli interpreti a livello internazionale, per esempio l’appartenenza a un paese più piccolo, la dimensione del mercato del jazz, per cui la lingua non è una pregiudiziale. Anche se nel caso della Germania, per fare un esempio, vediamo il fiorire di un gran numero di festival dedicati, club, ecc., e la possibilità di irradiare cultura nella propria lingua in Austria, Svizzera e persino in alcune parti della Francia e del Benelux, quindi quando un musicista entra in quel mercato, è più facile che spazi anche in tutti gli altri. Un mercato così grande inoltre stimola gli eventi correlati come le case editrici, il management, il booking, poi le scuole di jazz, le accademie, e molto altro. Tutte cose che la Croazia non si può permettere per un puro calcolo matematico: in Croazia vivono poco meno di 4 milioni di abitanti, la Germania ne conta 83 miolioni, o l’Italia 60 milioni, si tratta di cifre che fanno la differenza. Ma, per tornare all’uso della lingua, ad esempio il fado, che pochi capiscono, ha una presenza molto ampia a livello internazionale.
A tuo avviso qual è il ruolo della musica nel preservare il patrimonio culturale e linguistico di un Paese?
Oggi, la conservazione del patrimonio culturale e linguistico è estremamente importante, in particolare per un paese piccolo come la Croazia, che vanta un patrimonio linguistico e culturale ricco e diversificato per la sua posizione geografica e geostrategica.
Credo che ogni segmento dell’arte in grado di valorizzare alcuni elementi della tradizione e della cultura contribuisca a questo processo, soprattutto se assume una forma contemporanea, il che è possibile nella musica che permette un uso diretto del linguaggio come uno degli elementi di base della cultura, in grado di rendere il tutto immediatamente intelligibile. Attraverso le opere dei poeti istriani io stessa ho scoperto la ricchezza delle parlate di nicchia, quasi dimenticate, molte delle quali in via di estinzione, come l’istro-rumeno.
Il tuo ultimo lavoro discografico in ordine di tempo è «Nuvola», se non mi sbaglio. Qual è il tema portante di questo disco?
Proprio così, «Nuvola» è l’ultimo album realizzato con i Quartet, uno delle formazioni più longeve al mio fianco, si tratta di 25 anni di splendida interazione, con interruzioni occasionali. Nel CD «Ulika» del 1997 ho espresso per la prima volta in tutte le composizioni quell’amalgama musicale in cui lo spirito dell’Istria è permeato dal suono del jazz. E’ un tratto distintivo che continua fino ad oggi in tutte le mie esecuzioni, con le diverse band e in un diverso equilibrio del concetto jazz e Istria, ma sempre presente e significativo che ogni formazione ha saputo sviluppare in modo speciale ed unico.
«Nuvola» è tutto ciò: segue il corso che collega l’Istria al jazz, che il Quartet rende più evidente, sia per quanto riguarda le sonorità jazz che il modo di porgerle attraverso l’improvvisazione e la libertà di espressione che condivido da tanti anni con grandi musicisti le cui performance rendono la mia musica completa e sempre diversa. Il disco prende il nome dai versi del poeta istriano Daniel Načinović che ho avuto il piacere di musicare cosciente che si tratti di composizioni complesse in termini di forma e struttura, anche se, come nelle composizioni degli album precedenti, esprimono soprattutto le mie emozioni ed il mio sentirte in continua trasformazione.
Ci parleresti del TransAdriatic Quartet con il quale ti sei esibita alla Casa del Jazz di Roma?
TransAdriatic quartet è una mia formazione musicale operante dal 2017, nella quale suonano due grandi musicisti italiani, Stefano Battaglia e Salvatore Maiore, e il mio collaboratore di lunga data, il batterista Krunoslav Levačić. Proprio per questa formazione ho scritto le mie nuove composizioni, cosiderando il lirismo e l’originalità della tecnica di Stefano Battaglia, nonché l’abbinamento stilistico musicale di Salvatore Maiore, con il quale ho collaborato all’inizio della mia carriera alla fine degli anni ottanta, così come per la spiccata inventiva del batterista Krunoslav Levačić, che è presente in tutti i miei ensemble. L’album «TransAdriaticum», che già nel nome specifica sia l’appartenenza della musica e dei musicisti all’ambiente e alla cultura mediterranea, sia il collegamento di due paesi che si affacciano sullo stesso mare, sia il simultaneo trascendere della realtà attraverso l’immaginario della musica; pubblicato nel 2019 per l’austriaca Alessa Records, i brani contenuti sono stati presentati durante il concerto alla Casa del jazz a Roma.

Hai diversi ensemble all’attivo. Quali obiettivi ti sei prefissata, al momento, dal punto di vista artistico?
Gli obiettivi che ci si pone nella musica seguono percorsi indipendenti che si realizzano in diverse fasi. Si tratta di processi inconsci che di solito sono il risultato di periodi più lunghi di maturazione, personale e professionale. Quello che è successo negli ultimi due anni con le esibizioni della mia formazione musicale “originaria”, il quintetto internazionale Transhistria ensemble, è che siamo entrati in una nuova fase della produzione musicale congiunta con questo gruppo. Dopo aver raggiunto diverse mete, ora ci troviamo di fronte a nuove sfide, qualcosa è accaduto stimolando nuove fasi interpretative. Abbiamo quindi deciso di concentrare la nostra attenzione sul nuovo repertorio al quale sto lavorando e che mi rende particolarmente felice. E’ ciò che succede nella vita: con la maturità, le cose si spogliano di ogni orpello, ed è inevitabile separare l’essenziale da ciò che non lo è; quando l’uomo è giovane è normale che abbia il bisogno di mettersi alla prova con se stesso e con gli altri, è alla base dello sviluppo, ma quando si cresce nasce il bisogno di approfondire, nel mio caso il rapporto con me stessa e con la musica. Per i cantanti questo è particolarmente importante se consideriamo il fatto che il nostro corpo è il nostro strumento mentre la nostra psiche è il “carburante”, quindi qualsiasi lavoro sul proprio stato mentale ha un effetto diretto sull’esecuzione musicale, sia dal punto di vista della resa tecnica che spirituale.
La cosa interessante e bella è che si tratta di una maturità raggiunta contemporaneamente da tutti i musicisti dell’ensemble, lo si avverte anche nel livello di comunicazione durante i concerti, che francamente mi ha stupita, non credevo fosse possibile. Quindi, in questa fase della mia vita, la cosa più importante per me è il sentimento di comunione con la musica e con i musicisti sia nel processo creativo che nelle performance sul palco… entriamo in una sorta di “trance” che ci avvolge e ci guida, personalmente la considero l’essenza e motivo per cui faccio questa professione. Fatto curioso, ma non strano, il termine trance inteso come stato d’animo è contenuto nel nome stesso del gruppo musicale Transhistria ensemble e, poiché Histria è l’antico nome dell’Istria, significa anche trascendere il locale attraverso il linguaggio universale della musica e dell’improvvisazione.
A proposito di progetti, mi piacerebbe che tu ci parlassi del tuo progetto OBROVAC ².
Si tratta di un progetto particolarmente importante, emotivamente molto intimo, perché collego la mia musica alla pittura di mio padre, pittore accademico e docente scomparso nel 2019, al quale ero molto legata. E’ un progetto audiovisivo in cui il quartetto Transhistria (Tamara Obrovac / voce, composizioni, Uroš Rakovec / chitarra, cetra, Žiga Golob / contrabbasso, Krunoslav Levačić / batteria) esegue una selezione delle mie composizioni, collegate da improvvisazioni, da proiezioni, da immagini di mio padre, elaborate in tempo reale dal videoartista Ivan Marušić Klif.
Noi musicisti siamo “precipitati” all’interno di proiezioni video tridimensionali delle immagini molto complesse di mio padre, e le improvvisazioni che utilizziamo per collegare le mie composizioni in un’unica performance completa sono per lo più focalizzate sull’elemento visivo a cui corrispondono. Inoltre, le stesse composizioni collegate alle improvvisazioni sono frammentate e separate in modo da aprire spazi completamente nuovi e diversi, sperimentali e anche di libera improvvisazione. E’ un progetto che mi riporta ad un nuovo legame con mio padre attraverso la riscoperta della sua arte pittorica per me affascinante e complessa, in cui si scopre un micromondo in ogni dettaglio. Sono sue anche le immagini delle copertine dei miei dischi. La nostra comunicazione continua nella creazione di un mondo immaginario nel quale si intrecciano le nostre due visioni della creatività, visiva e musicale.
Papà, insieme alla nonna, sua madre, è stata la persona più importante nella mia formazione personale e professionale, che, oltre a tutto il resto, mi ha trasmesso anche il senso di appartenenza al mio ambiente natale come prisma di relazione con il mondo e l’universo, è grazie a questa educazione che ho usare grande liberta nel fare musica e nella vita in genere.
Alceste Ayroldi