Suona il banjo, in maniera eccelsa, e canta con una voce che sa toccare le corde giuste: di quelle che ti arrivano in profondità. Il suo palmarès è di quelli da chapeau: un premio Pulitzer per la musica conseguito nel 2023 insieme a Michael Abels per la splendida opera Omar; un Grammy Award nel 2022 come miglior album folk – «They’re Calling Me Home» – sottobraccio a Francesco Turrisi (pianista e compositore siciliano, uno dei pochi italiani ad aver raggiunto l’ambita meta del Grammy e ingiustamente ben poco noto nelle rassegne e festival dello Stivale). A ciò aggiungasi il Premio Steve Martin Banjo (dedicato proprio a lui, il famoso attore comico statunitense, anche eccellente banjoista), che si è aggiudicata nel 2016 raggiungendo il prezioso traguardo di essere stata la prima donna e la prima persona di colore ad aggiudicarselo.
Come sei arrivata a suonare folk, bluegrass e blues?
Mi ero appena laureata al Conservatorio di Oberlin, dove mi stavo preparando per diventare una cantante d’opera, ironia della sorte. Sono tornata a casa in North Carolina e ho iniziato a fare danza folk, chiamata “contra dance”, e la musica è sempre dal vivo. Divenni ossessionata dai gruppi di ballo del sud, old time, new England/Canadese e irlandese/scozzese, che fornivano la musica dal vivo, in particolare l’old time. Ho comprato un fiddle e un banjo a buon mercato mentre lavoravo a giornata e ho iniziato a imparare. Ho scoperto che il banjo era un’invenzione afroamericana e questo mi ha fatto interessare alla storia.
Foto di Ebru YildizSo che è passato un po’ di tempo, ma vorrei parlarti del singolo Build A House con Francesco Turrisi e Yo-Yo Ma. Com’è nata la collaborazione con il violoncellista e cosa racconta questo brano?
Yo-Yo mi ha contattato sulla scia di George Floyd ai tempi dei COVID per sapere se volevo collaborare per il Juneteenth, una celebrazione americana della fine della schiavitù. Avevo appena scritto Build A House, così l’abbiamo registrata in diretta streaming; Francesco ha aggiunto delle brillanti percussioni per la pubblicazione del disco.
Qual è il tuo rapporto con la musica jazz?
Non è un granché; amo le signore del jazz degli anni Venti e Trenta, ma sono piuttosto ignorante in materia di standard e di gran parte del repertorio successivo agli anni Quaranta. Tuttavia, ho imparato molto da Francesco, che è un profondo conoscitore dell’idioma e della storia del jazz.
Qual è il tuo rapporto con il pubblico italiano?
È piuttosto recente: l’esibizione con Francesco al Folk Club di Torino ha dato il via, e poi abbiamo fatto Spoleto e Umbria Jazz l’anno scorso, che è stato fantastico. Il mio momento preferito è stato sorprenderli con Vedrai, Vedrai di Luigi Tenco, o E se domani di Mina – c’è qualcosa di profondo a cui mi lego in alcune ballate italiane degli anni Sessanta/Settanta.
Rhiannon, puoi dirci qual è la tua missione come artista?
Mettere in luce storie e voci non raccontate, coperte e cancellate della storia americana e offrire un modo di vivere l’arte che non sia legato all’individualismo e al consumismo. È un compito arduo, ma ci provo ogni giorno.
Alceste Ayroldi