Buongiorno Pasquale, parliamo subito del tuo nuovo disco «Sparks». Innanzitutto perché questo titolo?
Buongiorno Alceste, vorrei citare il primo verso del mio breve componimento poetico che è contenuto nell’album, «Sii Scintilla che illumina la vita» in inglese «Be Spark that lights up the life». Quando ho iniziato a scrivere questo brano, che poi ha dato il titolo al nuovo album, eravamo in piena pandemia e in un inedito modus vivendi: il lockdown, un periodo strano, triste in cui tutti noi ci sentivano depredati della nostra normalità, della vitalità e della gioia di sempre. Io in particolare avevo bisogno di qualcosa che mi rivitalizzasse, mi desse una spinta, un’idea, una scintilla, che illuminasse il mio percorso compositivo per il nuovo album. Ed ecco Sparks, «scintille come gioiosi fuochi d’artificio che vanno dritti al cuore e restano lì a cantare la loro musica» per citare un altro verso della mia composizione.
Quindi è un disco che hai concepito durante il periodo di “fermo musicale” provocato dalla pandemia.
Sì, è proprio così. La maggior parte delle composizioni le ho scritte durante la fase di lockdown, da febbraio 2020 fino alla fine di novembre, altri brani li avevo composti nel 2016 e rodati già in diversi concerti. Mi piace raccontare com’è andata. Quando siamo stati costretti a rimanere a casa per via della pandemia, avevo deciso di occupare bene il mio tempo a studiare, sperimentare e comporre. Nei primi giorni di lockdown, ogni volta che mi sedevo al pianoforte con l’idea di creare qualcosa di nuovo, d’interessante, puntualmente non ci riuscivo, e questo è durato per molto tempo, come se avessi esaurito tutte le mie idee; mi sentivo vuoto, sterile, probabilmente a causa del periodo che stavo e stavamo vivendo tutti. Un po’ di scoraggiamento è subentrato e non nego che ci stavo quasi rinunciando; la sensazione del sentirsi sospesi permaneva; ma poi ecco la “famosa” scintilla che amo definire di gioia, di energia positiva che ha letteralmente illuminato il mio percorso e, da allora, è stato come un fiume in piena di idee che ho tradotto in musica e che mi ha portato all’incisione di questo album.
La struttura dei brani è vicina (in alcuni casi del tutto strutturata) a una suite, anche per come sono articolati. Sei partito con questa idea, oppure la struttura si è evoluta con la composizione?
A me piace molto questo tipo di scrittura che si avvicina a quella classica ed ho deciso di adottarla nella maggior parte dei brani contenuti nel mio disco, perché ritengo sia la più completa. Il compositore descrive il proprio pensiero musicale attraverso una parte scritta molto strutturata e lascia comunque uno spazio all’improvvisazione dei musicisti. Sono un fan da sempre della pianista e compositrice giapponese Hiromi e di Egberto Gismonti e amo molto il modo di pensare e scrivere la musica, i brani che scrivono sono sempre molto strutturati e credo che dopo tanto ascolto probabilmente ho tratto ispirazione. Ho sperimentato anche la scrittura in metriche dispari e in sedicesimi per avere delle melodie e poliritmie particolari, in Sparks e in Clocks, che sono composte in questo modo con repentini cambi di tempo, mantenendo sempre in evidenza la melodia.
Sempre parlando dal punto di vista della composizione, rispetto al precedente «Mediterranean Tales» si ascolta una sostanziosa rivoluzione. Eppure non è passato molto tempo (il disco in questione è del 2020). Cosa è successo?
Io credo che un compositore debba sempre mettersi in gioco e al servizio della musica, realizzando la sua idea in base al progetto e alla formazione. Il passaggio da «Mediterranean Tales» disco a cui tengo moltissimo, in cui sono co-leader con un grande Gianni Iorio al bandoneon, a «Sparks» è davvero netto ma è il risultato di due idee compositive diverse. Per il duo bisognava far sentire agli ascoltatori non solo un pianoforte e un bandoneon, ma anche un contrabbasso e delle percussioni e a volte anche un’orchestra. Per il trio ho pensato alla mia idea musicale facendo emergere la mia parte più jazz. Il denominatore comune può essere senz’altro la volontà, da compositore, di scrivere e arrangiare i brani dove ogni musicista è protagonista, lo è stato per «Mediterranean Tales» e lo è per «Sparks».
Quindi, hai realizzato due dischi in poco più di un anno. Pasquale, a cosa serve, oggi, pubblicare dischi fisici?
Ho realizzato due dischi in poco più di un anno ma probabilmente sono usciti nel periodo più sbagliato di sempre, a causa della pandemia. A parte gli scherzi, è sempre una grandissima soddisfazione scrivere musica nuova e poi avere occasione di registrarla e pubblicarla. Anche se nel mondo ormai si ascolta musica solo in formato digitale sugli smartphone con i servizi che la rete ci offre, e devo dire che sono comodissimi, ma il suono di un disco ascoltato nel tuo sistema hi-fi di casa non ha eguali. Io sono tra i romantici che acquistano ancora dischi fisici e ama ascoltarli in casa comodamente seduto sul divano. Pubblicare dischi fisici serve perché il Cd o il vinile è un oggetto da custodire, da guardare, da leggere e ammirare come un libro, anche i libri stanno subendo la metamorfosi del digitale ma, anche in questo caso, non c’è paragone tra la copia fisica e quella digitale. Un altro motivo valido per pubblicare dischi fisici è quello di attendere la fine del concerto e ammirare il pubblico entusiasta con il tuo disco tra le mani, che ti chiede l’autografo e questo è davvero un momento impagabile. Io poi sono un sentimentale e credo che il compact-disk tornerà di nuovo in voga alla grande.
E’ molto chiaro che il tuo modo di concepire la musica sia marcatamente europeo. In precedenza, però, nelle tue mani risuonavano melodie e armonie latine. In particolare, il tango argentino era di casa. Cosa è accaduto?
La mia passione per la musica sudamericana rimane immensa e immutata nel tempo. Con questo nuovo album ho voluto staccare la spina da quel mondo che mi ha accompagnato per tantissimi anni, anche se negli ultimi sei o sette anni il mio progetto in duo con Gianni Iorio al bandoneon si è evoluto nel proporre esclusivamente composizioni originali che si discostano ormai del tutto dal tango argentino, basta ascoltare «Mediterranean Tales». Con questo album voglio che venga fuori un’altra parte di me come compositore ed esecutore, probabilmente meno conosciuta, per aprire un nuovo capitolo della mia musica, cercando di focalizzare i punti di contatto tra le composizioni jazz e la musica classica moderna, e perché no anche al rock, puntando sempre sulla bellezza della melodia e l’atto magico e creativo dell’ improvvisazione.
La tua tecnica pianistica non è di certo caratterizzata dalla muscolarità: è al servizio della melodia. C’è qualcuno, in particolare, che ti ha influenzato?
Ascolto tantissima musica di ogni genere. Mentre nei primi anni di studi rimasi letteralmente folgorato da Chick Corea, Herbie Hancock, Keith Jarrett, Kenny Barron, Oscar Peterson, Bill Evans passando anche da Michel Petrucciani, ricordo di aver trascritto tantissimi soli usando un mio vecchio mangianastri, con i tasti play e rewind praticamente usurati, negli ultimi anni ho ascoltato e studiato molto Esbjörn Svensson, Avishai Cohen il contrabbassista e Hiromi, che ritengo i principali ispiratori di questo mio nuovo lavoro discografico dal punto di vista compositivo. Il jazz nord-europeo dell’E.S.T. che ha rivoluzionato il sound e il ruolo dei musicisti nel suo interno, la particolarità delle metriche dispari della musica di Cohen e l’abilità compositiva e soprattutto la concezione della scrittura musicale della pianista giapponese Hiromi mi hanno letteralmente entusiasmato. Ovviamente i miei miti sono un po’ gli stessi di ogni pianista, vorrei aggiungere anche due altri grandi artisti: Brad Mehldau e Fred Hersch.
Ci presenteresti i tuoi compagni di viaggio, spiegandoci perché hai scelto proprio loro?
I miei compagni di viaggio sono due grandi musicisti: Giorgio Vendola al contrabbasso e Saverio Gerardi alla batteria. Sembrerà strano ma prima di scrivere i nuovi brani avevo già in mente quale sarebbe stato il suono del mio trio e avevo già contattato Giorgio e Saverio, chiedendo loro una collaborazione. Avevo bisogno di un contrabbassista che avesse determinate qualità: la lettura, l’uso dell’arco, che avesse un sound europeo e Giorgio incarna tutto ciò, e poi avevo necessità di un batterista che non fosse solo jazz ma sulla linea di confine, un crossover come si direbbe oggi, e che avesse voglia di mettersi in gioco con questo progetto ed ecco Saverio. I brani si sono rivelati molto difficili, proprio perché sono molto strutturati e spesso con metriche dispari, e abbiamo dovuto costruire un suono, soprattutto con la batteria, con un lavoro davvero immenso. Non smetterò mai di ringraziarli per la disponibilità, la pazienza, la professionalità, in un periodo difficile di lockdown: era il mese di dicembre del 2020, credo dal 10 in poi fino al 23 gennaio, in cui abbiamo fatto tantissime prove per poi incidere l’album a Cavalicco (UD), a quasi 1000 km da casa, con tanto di autorizzazioni alla mano per via della pandemia, presso l’Artesuono Recording Studios di Stefano Amerio il 25 e 26 gennaio.
Il piano trio è la tua dimensione ideale?
Il piano trio è una formazione che amo moltissimo dove faccio emergere la mia parte più jazz. Allo stesso tempo amo molto anche il duo per la libertà che ti dà e l’adrenalina di mettersi in gioco in ogni istante. Non saprei dire qual è la mia dimensione ideale, l’importante è prepararsi bene, credere in quello che si fa e proporre sempre progetti di alto livello e soprattutto internazionali. Sin dagli inizi della mia carriera ho preferito concentrarmi solo su pochi progetti, con i quali ho avuto e sto avendo la possibilità di portarli in giro per il mondo.
Prosegue, con profitto, la tua collaborazione con l’Enja. Qual è il valore aggiunto di questa etichetta?
Sparks” è il mio terzo album con Enja e sono davvero orgoglioso di questa tappa della mia carriera. Matthias Winckelmann, che ha fondato questa etichetta cinquantuno anni fa, è una persona eccezionale, un profondo conoscitore di musica, che sa consigliarti sempre bene, ha un entusiasmo davvero incredibile e, nonostante abbia prodotto nomi come Kenny Barron, Cecil Taylor, Tommy Flanagan e tanti altri crede nei giovani. Certo il valore aggiunto è senz’altro il nome prestigioso di questa etichetta storica di cui mi onoro di far parte.
Pasquale, tra le altre, hai anche una laurea in economia. La prima domanda è: ti è utile anche per la professione di musicista?
La laurea in Economia è utilissima, devo dire che il percorso universitario l’ho sempre vissuto più per una sfida con me stesso che per una reale possibilità di impiego futuro. Per prima cosa, il fatto di frequentare sia la scuola, poi l’università e contemporaneamente il Conservatorio, sin da bambino, mi ha aiutato nell’organizzazione del mio lavoro e del mio tempo. Gli studi fatti per conseguire la laurea, in particolare il marketing a cui mi sono davvero appassionato, mi aiutano per il mio personale management musicale e anche per la parte burocratica della professione di musicista, in più sono anche un esperto di bandi pubblici rivolti ad enti ed associazioni a cui partecipo, anche per attingere fondi per esempio per il mio festival jazz a Stornarella (FG). Ma il vero centro nevralgico sta nella promozione e la gestione della mia attività di musicista: dalla creazione e gestione del sito web, social fino al concerto finale, con tutti i passaggi intermedi. Anche se devo dire che ovviamente gli studi universitari non sono certo bastati, è banale dire che bisogna sempre studiare e aggiornarsi.
La seconda: quando hai capito che la musica sarebbe stata la tua professione?
Ho sempre voluto fare il musicista. Il mio sogno da bambino era quello di prendere un aereo e andare dall’altra parte del mondo e suonare la mia musica nei miei concerti e devo dire che, grazie alla mia determinazione e alla mia ambizione, ho la fortuna di vedere questo sogno realizzato con la voglia di alzare sempre di più l’asticella. Se dovessi per forza dare delle date sarebbero il periodo successivo al diploma di Pianoforte Classico, dal 1995 in poi, quando mi sono concentrato soprattutto sullo studio del jazz e poi, subito dopo la laurea in economia che, nella gioia del conseguimento mi ha quasi liberato da un peso psicologico, da allora ho deciso che la musica sarebbe stata la mia professione.
Chi è stato il tuo mentore artistico?
Devo dire che non ho mai avuto un mentore artistico. Ricordo sempre con grande piacere l’esperienza al CPM di Siena Jazz con Mauro Grossi nel lontanissimo 1995 e le lezioni con il compianto Davide Santorsola, pianista e didatta straordinario. Sono cresciuto artisticamente studiando sui dischi, trascrivendo, arrangiando e poi componendo.
Guardavo con attenzione la tua biografia sul tuo sito pasqualestafano.it e ho notato che vi è una preponderante presenza di concerti che hai svolto in mezzo mondo, mentre in Italia sono sicuramente di meno. Vale anche per te il detto “Nemo profeta in patria”?
Ho fatto tanti concerti all’estero e questi ultimi anni dal 2013 moltissimo in Asia che amo molto. Non credo che valga il “Nemo profeta in patria” perché comunque nel corso della mia carriera, iniziata nel lontanissimo 1996, in Italia ho suonato davvero molto e anche in teatri e festival molto importanti. Allo stesso tempo, quando si cresce artisticamente ovviamente aumentano le ambizioni di essere invitati in ambiti ancora più prestigiosi e, mentre all’estero, nel mio caso, risulta più facile, qui in Italia è un po’ più difficile. Le ragioni possono essere tante. Una è sicuramente la difficoltà di ascoltare nuove proposte da parte dei direttori artistici. Come detto, sono anch’io direttore artistico di un festival jazz e mi arrivano giornalmente tantissime mail con progetti, link da cliccare, musica da ascoltare e, non avendo uno staff, faccio fatica anche solo a rispondere alle mail ed ecco che risulta difficile, a fronte di un’offerta musicale enorme e di livello elevato, proporsi e soprattutto essere ascoltati.
Visto che siamo in tema, che ne pensi del Music Business in Italia?
In Italia il music business fa ancora un po’ fatica perché spesso la musica non è considerata ancora un lavoro. E’ chiaro che se si parla di etichette major, di musica leggera di TV le cose cambiano ma nella nostra nicchia di mercato, quella del jazz, servirebbe secondo me per esempio un network tra festival, club e soprattutto formazione di figure professionali che sappiano gestire il business attraverso una vera e propria organizzazione aziendale, dagli aspetti legali e contrattuali fino all’organizzazione e gestione di eventi live, management, comunicazione e tutto ciò che ruota in questo campo. Sembra comunque che negli ultimi tempi qualcosa si stia muovendo.
Cosa è scritto nell’agenda di Pasquale Stafano?
Poco meno di un mese fa ho presentato il mio nuovo album in uno dei templi del jazz europeo: il Porgy & Bess di Vienna, dove abbiamo trovato il pubblico delle grandi occasioni e ne siamo tornati davvero felici. Per me è stata la sesta volta al Porgy, la prima nel lontano 2005 ma ogni volta, quel palco ti dà delle emozioni incredibili, non so come possa succedere. Ho tante date che si stanno concretizzando con i miei due progetti principali: già dalla prossima primavera e a fine anno avrei con il mio trio due tour, uno in Cina e uno in Corea del Sud, ma bisogna ancora usare il condizionale perché siamo ancora in una fase pandemica. Mi piace segnalare una data su tutte, il 26 marzo p.v. sarò con Gianni Iorio alla Casa del Jazz di Roma, dove presenteremo Mediterranean Tales.
Alceste Ayroldi