«Vivere Piano». Intervista a Orazio Saracino

Nuovo lavoro discografico per il pianista e compositore pugliese. Ne parliamo con lui.

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Orazio, inizierei dal titolo del tuo album «Vivere Piano». E’ il concept del tuo lavoro?
Esattamente. Oltre a definirne il concept, «Vivere Piano» rappresenta una filosofia di vita che mi rispecchia, approccio calmo alla quotidianità in contrapposizione con il ritmo frenetico che la società moderna ci impone. Con l’auspicio che dall’esperienza della pandemia possa scaturire la conseguenza virtuosa di un rallentamento generale del mondo: lo dobbiamo a noi stessi, e al pianeta che abitiamo. Nel disco ho provato a tradurre in musica questo semplice concetto, ma che ai più sembra sfuggire, specie in occidente.

Ti sei occupato sia delle musiche, che dei testi che sono tutti in lingua italiana. Un aspetto piuttosto inconsueto, visto che spesso i testi nei brani di jazz sono in inglese. Sei partito dalle liriche o dalla musica?
Ho sempre ritrovato nella lingua italiana un grande potenziale sia in termini di metrica che di cantabilità, tali da poterla abbinare anche a stili musicali tipicamente associati ad altre lingue, tra cui il jazz. Nel processo creativo parto generalmente dalle liriche, sebbene la scrittura dei versi proceda spesso in parallelo con l’elaborazione delle prime idee musicali.

La struttura che privilegi è quella della canzone. Ti senti più vicino al cantautorato italiano o alla struttura della canzone del Tin Pan Alley?
Nel mio background di ascolti la musica d’autore italiana occupa uno spazio importante. Sento più vicini alla mia sensibilità cantautori quali Fabio Concato, Francesco De Gregori, Sergio Cammariere, passando per Niccolò Fabi e Brunori Sas, rispetto all’industria musicale del Tin Pan Alley.

Quattro brani cantati e cinque differenti vocalist. Perché hai preferito ripartire il carico di lavoro in questa maniera?
Il fatto di non essere l’interprete vocale dei miei stessi brani mi offre una grande opportunità: quella di cercare ogni volta il timbro ideale che possa sposarsi al meglio con un data intenzione musicale. In questo caso la scelta è caduta su vocalist differenti proprio perché i quattro brani sono molto diversi tra loro dal punto di vista dello stile compositivo, e richiedevano di essere affidati alle giuste sensibilità vocali.

In generale, per questo disco hai coinvolto un gran numero di musicisti, distribuendo le loro abilità nei nove brani del disco. Ci spiegheresti i motivi di tale scelta?
In analogia con il primo disco «IncontroTempo Suite», ho voluto conferire al progetto una grande varietà stilistica e timbrica. Questo per dar sfogo alle mie diverse anime musicali, che abbracciano gli studi classici, il cantautorato italiano, la musica per film, il jazz. Data questa eterogeneità era necessario coinvolgere tanti musicisti, ognuno con la storia e le sue peculiarità. Ma soprattutto, artisti di fiducia e grandi amici con cui desideravo condividere un pezzo del mio percorso artistico.

L’ascolto dei brani strumentali ci conduce verso un tipo di jazz più europeo che statunitense, con una grande attenzione alla linea melodica. Mi sbaglio?
Non sbagli. Nel processo compositivo curo molto la linea melodica (probabile eredità degli studi accademici); la tessitura armonica e ritmica vengono di conseguenza. Ed i miei ascolti jazzistici guardano molto al nord Europa, in particolare alla Scandinavia. Per quanto il mio rifermento principale resti un americano: Brad Mehldau.

Quali sono i passaggi che reputi fondamentali della tua vita artistica?
Il primo è stato senza dubbio l’incontro con il Maestro Valfrido Ferrari, che mi ha portato al diploma di pianoforte classico e, soprattutto, ha dato un decisivo imprinting al mio essere musicista. Poi ci sono gli studi di composizione, la conoscenza di Mirko Signorile grazie a cui sono stato introdotto al mondo dell’improvvisazione, e la pubblicazione del mio primo disco di inediti con cui sono uscito allo scoperto.

Quali ascolti musicali ti hanno maggiormente influenzato nel modo di concepire la musica?
Oltre ai già citati cantautori italiani, provo a sintetizzare le mie influenze citando tre dischi: «You Must Believe In Spring» di Bill Evans; «For Those I Never Knew» di Luca Flores e «Trio World Tour 1996» di Ryuichi Sakamoto.

Quando hai scritto il tuo primo brano?
Il mio primo brano originale risale ai tempi delle prime band liceali (primi anni duemila). Sembrerà strano, ma era in stile reggae.

Qual è il libro che hai sul comodino ora?
Il cammino dell’arco di Paulo Coelho.

Qual è l’artista che ammiri di più in assoluto?
Considerata la mia molteplice natura musicale, ce ne sarebbero diversi. In generale, ammiro gli artisti liberi da condizionamenti e che hanno fatto della musica la propria ragione professionale e di vita.

Come hai vissuto – e stai vivendo – la situazione creatasi in conseguenza del Covid-19?
Pur nella drammaticità del momento, vivo la pandemia provando a guardare il bicchiere mezzo pieno. Questa inaspettata dimensione sospesa mi ha offerto quel surplus di tempo grazie a cui ho potuto finalizzare il disco, la giusta serenità per riordinare le idee sul futuro e, soprattutto, la possibilità di non saltare nessun passaggio dei primi mesi di vita di mia figlia.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Sulla scia del disco, dare continuità alla mia produzione musicale sia strumentale che autoriale; ho già un paio di idee ambiziose in cantiere. E tenermi pronto in vista della ripartenza, spero prossima, degli eventi dal vivo.
Alceste Ayroldi