Era da circa quattro anni che non uscivi con un disco con nuove composizioni. Circostanza piuttosto strana in un mondo musicale, anche quello jazzistico, dove vengono sfornati dischi a buon ritmo. Cosa è successo in questi anni?
Sì, hai perfettamente ragione. Il mercato musicale ci convince ogni giorno che è necessario sfornare album come macchinette, come se la quantità fosse più importante della qualità. Nel mio caso preferisco attendere di avere qualcosa di vero da comunicare anche se richiede tempo. Sono stati anni molto prolifici. Dal 2021 infatti mi sono trasferito a Parigi, dove suono molto come sideman e come co-leader in vari progetti. E’ una città molto intensa e piena di arte che mi ha fatto riflettere e tutt’ora mi fa pensare al mio ruolo d’artista in un mondo in cambiamento.
A tal proposito, il tuo precedente «In the Eyes of the Whale» ti consacrò al successo e alla notorietà, come «emergente», «nuova scoperta». Credi che pagherai lo scotto, in tali termini, di questo tuo silenzio?
Non sono stato fortunatissimo come tanti colleghi, perché il mio album è uscito proprio a gennaio del 2020. Con l’avvento della pandemia sono stato costretto ad un silenzio quasi forzato per due anni, in cui ho perso un po’ di fiducia nel pubblicare un disco da leader. Negli anni a seguire ho ricevuto per varie circostanze molte influenze e molti stimoli diversi e ho cercato di sintetizzarli in questo album. Forse sarebbe stato meglio, in un’ottica di mercato, aver dato più continuità al mio lavoro, ma la mia vita ha preso altre direzioni che mi hanno portato a dare priorità ad altre situazioni, e non me ne faccio una colpa.
Forse l’industria musicale sta divorando la creatività degli artisti. Cosa ne pensi?
Sicuramente viviamo in un periodo di forte contrasto tra la creatività e l’industria musicale. Per quanto riguarda il mondo della musica jazz, che è quello che conosco meglio, vedo tanto malcontento in giro. Da una parte c’è stato un surplus di pubblicazioni musicali. Abbiamo vissuto in un periodo in cui ogni musicista di jazz pubblicava almeno un lavoro all’anno come leader. Dall’altro suoniamo una musica di nicchia, e il pubblico non è abbastanza per ascoltare il lavoro di tutti. Questo significa che per portare il tuo album all’attenzione degli ascoltatori devi investirci molto tempo ed energie e molte volte non sei ripagato.
Parlando del tuo nuovo disco, mi piacerebbe sempre iniziare dal titolo. Perché Gently Broken? Qual è il messaggio che vuoi darci?
Mi piacerebbe che ognuno ci trovasse il proprio messaggio personale nel titolo ed in generale nell’album. Quello che ci vedo io è una «rottura», un cambio di rotta con una corrente artistica in cui non mi riconosco più. Una scissione dolce, consapevole che il futuro si crea grazie al passato.
Un disco ricco di spunti, più che di influenze. Tanto materiale sonoro nuovo, con un inclinazione maggiore verso la musica classica contemporanea e delle venature jazz più vicine alla scuola europea, che non quella americana. Mi sembra che qualcosa sia cambiato rispetto al tuo passato: mi sbaglio?
Una caratteristica importante è certamente quella di essere partito da un’idea per poi svilupparne un’altra sulla precedente e così via. Ho cercato di ricreare, nel mio piccolo, un po’ il processo con cui Picasso o i The Beatles creavano le proprie opere. Non esiste infatti alla base di una creazione un idea definitiva a priori, ma l’opera piuttosto subisce tutta una serie di trasformazioni a partire da un’idea in divenire, che dal suo concepimento l’accompagna fino alla definitiva realizzazione e prosegue in un processo di continuo cambiamento, attraverso lo sguardo mutevole e il peculiare stato d’animo dell’osservatore.
A me sembra un concept-album, sia per i temi che per la musica. E’ solo una mia idea?
Sì, c’è una linea comune tra i vari brani, un filo sottile che accompagna tutto il disco, per questo può essere definito come un concept album.
Hai affermato: «Con questa band e con questo album ho cercato di combinare i miei vecchi valori con i miei interessi più recenti». Quali sono i tuoi interessi più recenti?
Recentemente ho sviluppato interessi nuovi specialmente per la musica made in L.A di artisti come Pedro Martins, Frederico Heliodoro, Chris Fishman, Thundercat, Luis Cole, Sam Wilkes, Kiefer, Flying Lotus. Altre influenze nuove ed importanti per me sono state Petter Eldh, Jeff Parker, Kendrick Lamar, Resavoir.
A proposito della band, vorresti parlarci dei musicisti che ti accompagnano in questo disco?
Il pianista Rupert Cox è stato l’elemento da cui sono partito per costruire il gruppo. Rupert è riuscito a dare alla musica un respiro proprio seguendo il suo stile e grazie alla sua esperienza con la musica prodotta si è rivelato assolutamente una carta vincente anche fuori dalla sala di registrazione. Ivan Liuzzo, oltre alle sue capacità di creare dei drumming assolutamente efficaci sulle mie composizioni, è stato fondamentale per il suo dono di “sintesi” aiutandoci tantissimo nel capire cosa si poteva fare di più su ogni traccia oppure quando era giusto fermarsi. Grazie a questi musicisti siamo riusciti a creare un terreno fertile dove Luca Zennaro ha potuto sbizzarrirsi riuscendo a creare melodie mai scontate e ricreare il suono perfetto e la voce giusta per ogni brano. il trombettista Christos Stylianides, che è presente in alcuni brani, ha portato la magia e la sua visione originalissima della tromba dando così un ulteriore spessore. Francesco Panconesi si inserito perfettamente con il suo suono sussurrato portando il brano Danubio su un altro pianeta. Liselotte Ostblom è riuscita a scrivere un testo bellissimo sul brano The Princess of Breaking Shadows e creare una linea melodica che si è amalgamata benissimo allo spirito del brano. Sicuramente il lavoro di Stefano Bechini come co-produttore è stato fondamentale sia sul livello tecnico sia sul lato artistico. Abbiamo seguito il processo sempre insieme e grazie a questo confronto sono uscite la maggior parte delle idee e la loro realizzazione. E’ riuscito a ricreare perfettamente quello che avevo in testa, devo dire davvero un mago dei suoni, e la realizzazione di questo album sarebbe stata impossibile senza di lui.
Qual è stato il tuo approccio al processo creativo che ha portato alla nascita di questo disco?
Il processo con cui è stato concepito questo album è molto affine e simile al processo che compie uno scultore quando si avvicina ad un blocco di marmo. Dalla materia grezza e non lavorata l’artista ne estrapola il concetto e la materia con scalpello e sudore, così come in questo album da delle registrazioni in studio grezze abbiamo intrapreso un processo di lavorazione per estrapolare il cuore pulsante della musica. Si compie dunque un processo di sottrazione, la scultura, o come in questo caso, la musica, esiste già ed è compito dell’artista tirarla fuori e modificarla durante il processo. Un percorso lungo che include sempre qualche cambio di programma e cambio di rotta. Ogni volta che devo creare un nuovo gruppo o un nuovo progetto, passo ore/giorni a pensare agli elementi che ne faranno parte. In questo tipo di mondo, come la musica jazz o la musica improvvisata in generale, è tutto basato sull’alchimia. Ogni elemento che s’inserisce è fondamentale ed unico e per ciò la scelta deve essere minuziosa. Con questa band ho cercato di combinare i miei vecchi valori con i miei interessi più recenti, per capire come la produzione musicale può inserirsi nel meccanismo dell’improvvisazione e composizione. Ho scelto dunque personalità che avessero già esperienza in questi due mondi (quello della musica improvvisate estemporanea e quello della produzione musicale) per poter dunque navigare libero.

Michelangelo, cosa racconta questo album?
Racconta di una fase di cambiamento nella mia vita, dove ho scoperto un nuovo me ed ho affrontato sfide che mi sembravano insormontabili. Racconta di un periodo di crisi e il viaggio che si fa per uscirne.
Quali sono i passaggi della tua vita artistica che reputi più importanti?
Uno dei più importanti sicuramente è stato ricevere il primo premio al concorso di Umbria Jazz nel 2019. E’ stata un’esperienza che mi ha dato molta fiducia nelle mie possibilità. Un’altra esperienza importante è stata quella di vincere la Getxo International Competition a Bilbao nel 2021. Recentemente invece è stato bello condividere il palco più volte con Seamus Blake e Jeff Ballard, due musicisti assoluti che mi stanno insegnando moltissimo.
Qual è il tuo rapporto con l’elettronica applicata alla musica?
Credo che al giorno d’oggi, dopo che per secoli abbiamo cercato molto nella melodia, nell’armonia e nel ritmo sia interessante focalizzarsi più sul suono e sulla bellezza delle sue sfumature. L’elettronica può aiutarci molto in questa ricerca e credo che sia una bellissima strada da percorrere.
Invece, qual è il tuo rapporto con i social network?
Sono un mezzo di comunicazione a doppio taglio. Bisogna stare molto attenti ad un tipo di rapporto che può dare diverse dipendenze. Personalmente cerco sempre di utilizzarli solo per la mia vita professionale, quindi sponsorizzazione concerti e comunicazione di eventi. Cerco di non postare mai contenuti che riguardino la mia vita privata, ma sfrutto il social più come “vetrina” per condividere i miei impegni lavorativi.
La tua musica, soprattutto in Gently Broken, è molto cinematografica. Hai mai pensato di proporti come compositore di colonne sonore?
In molti me lo dicono in realtà! Sto iniziando a pensarci seriamente (ride, N.d.R.). Sicuramente guadagnerei di più che fare il jazzista!
Comunque, quale sarebbe il film che ti sarebbe piaciuto musicare?
Mi sarebbe piaciuto molto musicare C’era una volta in America che è anche il mio film preferito. Sicuramente anche i vari Batman e recentemente avrei voluto produrre la colonna sonora di Dune.

Qual è stata l’esperienza più significativa che hai avuto finora come musicista nella tua carriera?
L’esperienza più significativa, per il significato che gli attribuisco è stato il mio debutto a New York alla Jazz Gallery.
Qual è il tuo primario obiettivo come artista?
Non ripetermi mai. Essere onesto con me stesso e quindi con la musica. Suonare ciò che sento in quel determinato momento.
Quali sono i tuoi prossimi impegni?
A giugno suonerò al Ronnie’s Scott di Londra con un gruppo internazionale nuovo formato da Alex Hitchcock, Myele Manzanza e Maria Chiara Argirò. Un nuovo progetto che mi vedrà molto impegnato quest’anno in vari parti del mondo, infatti saremo in tournée in Australia e Nuova Zelanda in novembre. Ad agosto poi parte una nuova produzione firmata Grey Cat Jazz Festival, che vedrà la creazione di un gruppo inedito italiano/coreano in collaborazione con lo Jarasum International Jazz Festival. Sempre con questo nuovo progetto ad ottobre saremo in tour in Corea. Invece sto suonando da qualche mese nel trio di Hakan Başar, un giovanissimo pianista turco già all’attenzione del mondo jazzistico internazionale, e con lui oltre ai vari show europei, suoneremo al Montreux Jazz Festival in Cina ad ottobre.
Alceste Ayroldi