Max, il tuo nuovo album si intitola «Tivoli». Che valore ha questo nome per te, sia dal punto di vista personale che musicale?
«Tivoli» è rappresentato da due luoghi reali, il parco di Copenaghen e la città alle porte di Roma, ma è diventato anche un luogo simbolico, è un posto che per me evoca bellezza, equilibrio, gioco, storia e natura, elementi che sento molto vicini alla musica che amo fare oggi. Diciamo che è il punto d’incontro perfetto tra sensibilità diverse, dove le differenze culturali non si annullano ma dialogano.
Questo progetto nasce dall’incontro con un gruppo di musicisti scandinavi. Come è avvenuta questa collaborazione?
La collaborazione nasce da un rapporto che si è consolidato nel tempo. Con Jesper Bodilsen e Martin Andersen suoniamo insieme già da un po’ e due anni fa abbiamo inciso anche un disco in trio, Like, che ha avuto un ottimo successo. Questo ha segnato l’inizio di un percorso comune molto forte. Tivoli nasce proprio dal desiderio di dare una nuova forma a quel legame, ampliando il progetto e coinvolgendo il pianista svedese Martin Sjöstedt, con il quale si è creata subito una sintonia profonda, sia umana che musicale.
Il jazz scandinavo è spesso associato a atmosfere rarefatte e introspettive. Come dialoga questo linguaggio con la tua cifra stilistica?
È vero, quella tradizione ha spesso un approccio più meditativo, ma questi musicisti sono molto di più di una sola storia. Loro sono in grado di assecondare qualsiasi genere, perché mettono sempre in primo piano la musica senza lasciarsi condizionare dall’appartenenza a qualcosa, e questo è quello in cui ho sempre creduto anch’io non accomodandomi in una sola poltrona, ma cercando sempre nuovi spazi da abitare.

Dopo tanti progetti, cosa rappresenta «Tivoli» nel tuo percorso artistico?
Rappresenta una tappa molto importante, forse una delle più mature. È un disco che nasce senza forzature, senza l’urgenza di dimostrare qualcosa. Mi sento molto a mio agio in questa musica, che è il risultato di anni di esperienze, viaggi, collaborazioni e ascolti.
Oltre alle tue composizioni troviamo anche quattro brani di Kenny Wheeler, Sergio Ruben Aranda, Cole Porter e Johnny Griffin. Perché hai scelto proprio questi brani?
Sono autori molto diversi tra loro: Kenny Wheeler è stato fondamentale per il mio modo di pensare la melodia ed ho sempre amato le sue composizioni; Cole Porter è un punto di riferimento per chiunque abbia anche una sola minima conoscenza del jazz e rappresenta una fonte inesauribile di eleganza; Johnny Griffin è un riferimento diretto per il mio strumento e la ballad che ho scelto credo sia una delle più belle che abbia mai suonato. Mentre Sergio Ruben Aranda mi porta in una dimensione lirica e culturale, quella argentina, che sentivo affine al progetto. Ognuno di questi brani si è inserito in modo naturale nel racconto del disco.
Per quanto riguarda le tue composizioni, sono pensate appositamente per questo lavoro?
Sì, assolutamente. Sono nate immaginando questo gruppo, questo suono e questo tipo di interazione. Non sono brani scritti e poi adattati, ma musica pensata fin dall’inizio per queste personalità e per il tipo di dialogo che si è creato tra di noi.

Quali differenze hai percepito, sul piano umano e musicale, lavorando con questo gruppo rispetto ad altre formazioni del tuo percorso?
C’è stata una grande attenzione all’ascolto reciproco, una calma molto nordica anche nei momenti più intensi. Umanamente ho trovato un clima sereno, rispettoso, senza ego in competizione. Musicalmente questo si traduce in più spazio, più respiro e una grande fiducia nel silenzio quanto nelle note.
Cosa speri arrivi all’ascoltatore?
Spero arrivi un senso di sincerità. Non è un disco urlato, non cerca l’effetto, ma racconta un momento vero. Mi piacerebbe che l’ascoltatore sentisse il piacere di suonare insieme e la libertà che c’è stata nel creare questa musica.
Quali ascolti e quali musicisti hanno avuto maggiore influenza sulla genesi di questo disco?
Credo che, per una volta, io non mi sia ispirato a qualcosa di preciso. Ho cercato di non partire da modelli o riferimenti dichiarati, ma di lasciare che la musica parlasse da sola, raccontando questo momento del mio percorso. Ovviamente dentro ci sono tutti gli ascolti e le influenze di una vita, che probabilmente emergono in modo naturale, ma senza la volontà di omaggiare qualcuno in particolare.
Quali sono i tuoi prossimi impegni e i tuoi progetti?
Ci sono diversi concerti in programma in Nord Europa, Spagna e Italia, e l’idea è proprio quella di dare continuità a questo progetto anche dal vivo. Inoltre non escludo che «Tivoli» possa essere l’inizio di un percorso più lungo, magari con un nuovo capitolo in studio. Parallelamente continuo a portare avanti gli altri miei progetti e l’attività didattica, che ho scoperto negli ultimi anni e che mi sta dando grandi soddisfazioni.
Alceste Ayroldi