Mauro, quando si parla di un disco, solitamente, mi piace iniziare dal titolo. E, mai come in questo caso, quello del tuo album mi incuriosisce parecchio. Perché e cosa significa «TerraVetro»?
La Terra e il Vetro rappresentano rispettivamente la stabilità, su cui poggiare noi stessi, i nostri sogni, le nostre speranze e la fragilità contro cui spesso le nostre certezze si infrangono. Terra è la motivazione forte, la fiducia, il movente che ci spinge a partire, a metterci in viaggio; Vetro è la realtà con cui sempre dobbiamo fare i conti e contro cui, spesso i nostri sogni vanno a sbattere, ridimensionandosi. Quando progettai l’idea del disco non avrei mai immaginato che sarebbe diventata così attuale in tempi di pandemia.
Per te è molto importante viaggiare e questo disco è quasi un tributo al tuo volontario peregrinare. Quanto è importante il viaggio per il tuo modo di intendere la musica?
Moltissimo. Il viaggio è un «sospendere» ciò che siamo per un periodo definito. Uscire da noi stessi, dalla nostra vita, quella di tutti i giorni, per andare in un luogo (fisico o mentale che sia), in cui non valgono più le dimensioni sociali con cui siamo misurati ogni giorno.
Un altalena di emozioni e di musiche: dal jazz ai sapori arabi e anche delle tinte spagnole. In questo tuo ultimo disco, però, mi sembra che ci sia una maggiore dose di jazz rispetto ai precedenti. Mi sbaglio?
Sì, è vero. Rispetto al disco precedente dove l’elemento jazzistico era stato introdotto principalmente dal pianista Gianfranco Fedele, in questo disco ho lavorato anche io in questo senso ma senza allontanarmi troppo da ciò che la voce dell’oud rappresenta. Inoltre l’apporto della tromba di Luca Aquino ha spinto molto verso una direzione più jazz.
Però, si respira anche tutta l’aria del Mediterraneo. Cosa rappresenta per te?
E’ molto importante perché il Mediterraneo è il luogo che in qualche modo parla, non solo di me, ma di tutti i componenti della band. Siamo quello e suoniamo quello che siamo.
C’è un filo rosso che lega la tua produzione discografica, almeno fino a ora. Qual è?
Come dicevamo prima, il tema del viaggio e dell’incontro sono sempre presenti nei miei lavori.
Gli arrangiamenti oltre alla tua, recano la firma anche dei tuoi musicisti e di Michele Palmas. Perché hai voluto lasciare entrare anche altri nel tuo universo musicale?
Mi piace condividere la mia musica, con gli altri. Se hai fiducia nelle persone con cui lavori diventa interessante lanciare la tua idea, lasciare che si «contamini» con il punto di vista altrui, per poi vederla tornare arricchita, ripulita, fresca.
Alcuni brani, come Désir, Listen, Noodle e Mistral hanno una struttura più complessa, quasi delle suite, tanto da sembrare composte in più riprese. Come hai agito in fase compositiva?
Désir nasce dalla volontà di rappresentare il concetto della non coincidenza tra desiderio e realtà, dunque sono partito da una poliritmia su cui ho costruito una melodia apparentemente facile ma con un gradino ritmico forzato. La seconda parte volevo che desse un po’ di respiro e riportasse a delle sonorità più vicine all’oud. Infine l’ultima parte, i cui accordi sono stati scritti da Gianfranco Fedele, volevo che suonasse un po’ più aperta in senso armonico. Per Mistral, sono partito dalla melodia che, fortunatamente, era già pronta nella mia testa con tutti i suoi accenti in levare. Ho soltanto aggiunto una modulazione e il B che volevo riportasse al Mediterraneo. Suonandola in studio, confrontandomi con i ragazzi, ho pensato di aggiungere ancora un elemento di frattura alla fine del solo di piano che annunciasse il cambiamento del Mistral. Listen Noodle, invece, è una composizione di Gianfranco Fedele che, a proposito del brano dice: «L’ho scritto tutto in un’unica ripresa, ma pensando già da subito a una struttura ordinata, prendendo in considerazione anche questa nel momento di ideazione del brano, allo scopo di cercare di far succedere in maniera naturale le varie parti. Poi ci sono state modifiche alla struttura per l’inserimento della tromba».
Prima di parlare dei componenti del tuo quartetto, parliamo dell’ospite: Luca Aquino. Perché hai voluto proprio lui in questo disco?
Ebbi il piacere di suonare con Luca nel 2016. Già allora rimasi colpito dalla rapidità con cui riuscì ad entrare nel concetto sonoro del progetto. Inoltre, per il disco, avevo bisogno di un suono che respirasse con la musica. Mi serviva un linguaggio immobile, sussurrato, in grado di fermare l’ascoltatore, di «sospenderlo» ma, all’occorrenza, capace di portare un fraseggio jazzistico e blues in senso tradizionale. Un suono sottile ma pieno, rotondo, avvolgente. E’ stato naturale pensare a lui.
Ora, invece, parliamo dei tuoi compagni di viaggio.
Gianfranco Fedele (pianoforte), Tancredi Emmi (contrabbasso) e Alessandro Cau (batteria), sono i compagni di sempre. Con loro ho registrato anche il primo disco. È sempre fondamentale il loro apporto, sia in fase compositiva che in fase di arrangiamento. In generale abbiamo ormai acquisito un linguaggio comune e riusciamo ad intuire, in brevissimo tempo, la direzione migliore da assegnare ai brani. Mi sorprende sempre vedere come Gianfranco, Alessandro e Tancredi riescano a fare loro le mie idee e a concludere i miei periodi, spesso anche meglio di come potrei fare io. Inoltre, anche in questo disco, come nel primo («The Colour Identity»), Gianfranco Fedele ha dato il suo contributo in fase compositiva. Infatti, oltre ad essere co-autore di Dèsir, è anche autore del brano Listen, Noodle. Alessandro Cau, invece, ha firmato l’arrangiamento ritmico dell’ultima traccia dell’album («The Secret Conflict of Pireo»). Fondamentale è stato l’apporto in studio, lucido, attento e competente, di Michele Palmas che ha anche contribuito agli arrangiamenti di Carthago, I Muri di Ceuta, Listen, Noodle.
E’ la prima volta che utilizzi l’elettronica? Ritieni che possa essere un valore aggiunto, in generale?
Avevamo già utilizzato l’elettronica nel primo album. Entro certi limiti penso possa essere utile per amalgamare il suono e per creare atmosfere rarefatte. Ma non deve essere mai troppo invadente.
Mauro, prima di impugnare l’oud e il bouzouki c’è stata la chitarra nella tua vita musicale?
Sì, ho iniziato con la chitarra, suonavo blues e studiavo jazz, ma senza troppa convinzione. Poi sono arrivati: prima il bouzouki e un timido approccio alla musica tradizionale greca e poi l’Oud con lo studio della musica Classica Ottomana. Gli studi di chitarra si riversano comunque nel bouzouki che utilizzo come parco suoni e non in maniera tradizionale. Inoltre spesso utilizzo la chitarra per comporre.
Perché, poi, hai scelto proprio questi strumenti?
Il primo passo ci riporta al tema del viaggio. In particolare tutto ha avuto inizio dalla Grecia e dalla musica tradizionale di quella terra meravigliosa. Lì conobbi il bouzouki. Poi in un video di Loreena Mckennitt (lontanissima dalle sonorità del Mediterraneo), vidi un suonatore di oud, mi interessai e in due passaggi arrivai ad Anouar Brahem e dopo aver conosciuto Anouar non ho più avuto dubbi su quale dovesse essere il mio strumento. Rispetto alla chitarra ho trovato, nell’oud, una sonorità più affine alla mia concezione musicale.
Quali sono state le persone o gli episodi che hanno caratterizzato la tua carriera artistica?
Gli incontri sono stati fondamentali, come sempre. Sicuramente l’aver trovato sulla mia strada Gianfranco, Alessandro e Tancredi è stato importantissimo per la mia formazione e per la crescita musicale; l’aver suonato con Erik Truffaz, Javier Girotto e Luca Aquino mi ha dato la spinta necessaria per portare avanti un discorso professionale con una maggiore consapevolezza dei miei mezzi; anche l’incontro con l’etichetta discografica S’ardmusic che ha creduto e ancora oggi crede in noi, è stato molto importante. Ma forse, il punto di svolta è stata la mia collaborazione con Tonj Acquaviva e Rosie Wiederkehr degli Agricantus. In quella circostanza ho capito che avrei fatto di tutto per portare avanti il progetto «musica» nella mia vita
Sei nato a Torino ma, come si diceva prima, hai viaggiato molto. Ora dove vivi?
Vivo in Sardegna, vicino ad Oristano e spero di rimanere qui per molto tempo.
Qual è il progetto che vorresti intraprendere ma, per vari motivi, hai sempre tenuto nel cassetto?
Mi piacerebbe lavorare con un coro a Tenores sardo e provare ad allontanarmi e allontanarli un po’ dalla tradizione.
Se dovessi dedicare un album a uno scrittore, quale sarebbe?
José Saramago perché mi ha fatto compagnia
Mauro, come hai vissuto – e stai vivendo – la situazione determinata dal Covid-19?
La cosa più’ difficile da accettare è che non esista un luogo fuori da questa situazione, dunque non esiste neanche un luogo in cui alloggiare le nostre speranze e quando parlo di luoghi non intendo solo quelli nello spazio, ma anche quelli nel tempo.
Quando tutto terminerà, pensi che la situazione del mondo dello spettacolo tornerà come prima?
Non saprei, in realtà spero di no; spero che tutto questo ci stia insegnando qualcosa, specialmente nel nostro rapporto con l’ambiente, ma siamo animali talmente prevedibili da risultare imprevedibili.
Covid-19 a parte, quali sono i tuoi progetti futuri?
Prima di tutto spero di poter presentare il disco nel 2021, a partire dai concerti gia’ fissati o in via di definizione (in Francia, Polonia, Estonia, Lettonia, Senegal, Turchia e Italia); intanto inizierò a lavorare ad un nuovo progetto, molto essenziale, ritmico-melodico, forse con un violoncello. Sto già scrivendo qualcosa a riguardo.
Alceste Ayroldi