La parola alle associazioni: intervista a Marco Valente presidente dell’Adeidj

Prosegue la serie di interviste con i responsabili delle diverse associazioni che in Italia radunano buona parte degli operatori d'ambito jazzistico. Oggi parliamo con Marco Valente presidente dell'associazione delle etichette indipendenti di jazz.

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Marco Valente Foto di Giacomo Citro

Come e quando è nata l’ADEIDJ?
Alcune etichette italiane di jazz nel 2012 si sono organizzate con un portale (Italian Jazz Music) per spostare sul digitale buona parte della promozione dei propri dischi. L’idea era di aggregare su un portale ad accesso limitato i giornalisti e i direttori artistici interessati alle nuove produzioni. Era un’iniziativa squisitamente tecnica, non eravamo costituiti in nessuna forma giuridica. Pertanto, quando nel 2017 Paolo Fresu ci ha invitato a costituirci in associazione e a far parte della federazione Il Jazz Italiano avevamo già una base ed è stato semplice per noi partire con un buon numero di soci (ventuno i fondatori).

Quali sono gli obiettivi dell’associazione?
Da statuto risponderei così: «si propone di promuovere, sviluppare, diffondere e valorizzare la cultura musicale, senza discriminazioni di spazio, di tempo e di tendenze ed in particolare di valorizzare il ruolo della musica Jazz quale sviluppo della cultura musicale popolare anche attraverso la pubblicazione di opere musicali di Jazz ovvero attraverso l’editoria discografica». Nella pratica ti dico invece che le nostre assemblee sono incentrate sulla ricerca degli strumenti migliori per portare avanti il nostro lavoro nonostante i tempi attuali non siano dei più favorevoli. E’ un bell’impegno e stiamo lavorando su molte idee.

Quanti sono gli iscritti allo stato attuale?
Abbiamo ventinove soci ad oggi e vanno dalla piccola etichetta neonata con qualche produzione all’attivo fino ad etichette con una ventina di anni di attività alle spalle. Siamo molto trasversali, anche come tipologia di musica e di filosofia di produzione. E’ persino sorprendente pensare che ci siano ventinove etichette che si occupano di jazz italiano, considerando che ce ne sono anche alcune estere da aggiungere alla lista.

Quali sono i vostri rapporti con le associazioni delle altre categorie di ambito jazzistico?
Abbiamo fatto alcune riunioni con i direttivi di MIDJ e I-Jazz per cercare di collaborare su alcuni temi. Ci sono cose in ballo e altre ce ne saranno. Ovviamente il nostro confronto con i musicisti è quotidiano e sappiamo bene quali sono le criticità del nostro mondo. Ci vorrebbe maggiore coordinamento tra il mondo discografico e quello dei Festival per far sì che le nuove produzioni girino maggiormente durante l’esposizione mediatica conseguente alle pubblicazioni.

Assemblea soci del 2019

Mentre, quali sono i vostri rapporti con le altre associazioni di discografici? State cercando di fare fronte comune?
Siamo soci di MIA, associazione di categoria che si affianca ad AFI e da quest’anno siamo anche soci di FEM, la federazione degli Editori Musicali visto che molti dei nostri soci sono anche editori. Con loro facciamo fronte comune e siamo sempre aggiornati sulle attività di settore nonostante la nostra sia una sottocategoria che si occupa di una nicchia.

C’è un «nemico» da combattere?
Al momento credo che l’unico nemico sia la credenza che ascoltare in streaming sia sufficiente per avere la coscienza pulita. Ricordo che quando ero ragazzino registravo su cassetta tutti i dischi che riuscivo a prendere in prestito da amici e parenti. Era una mossa necessaria, mi serviva per ascoltare più musica di quanta ne potessi comprare. Serviva per “conoscere” e per fare selezione. Ero consapevole che le cassette erano né più né meno che pirateria. Infatti le cose che mi piacevano andavo poi a comprarle in negozio. Ora Spotify dovrebbe svolgere la stessa funzione. I dieci euro al mese che la gente spende per l’accesso sono meno di quello che spendevo io in cassette TDK, Sony o Maxell. Bisogna trovare un modo per poi “pagare” il giusto ad artisti ed etichette se quella musica la si apprezza.

Quali sono state le vostre proposte fino a questo momento e quali iniziative avete, fino a ora, realizzato?
Il nuovo direttivo per prima cosa ha realizzato che, pur essendo ADEIDJ costituita da ventinove associati, non aveva la forza politica per essere ascoltata ai grandi tavoli, di qui l’idea di associarsi con FEM ed AFI/MIA, cosa che sta producendo molti stimoli per il futuro. L’iscrizione a FEM è avvenuta dopo aver esteso il nostro statuto anche agli Editori. Le iniziative che abbiamo sul tavolo sono di diverso genere, dalla ricerca di migliori e nuove strategie per la divulgazione della musica, alla proficua collaborazione con tutti gli anelli della filiera musicale (musicisti, festival, club, ecc.). E’ un processo lungo al quale nessuno aveva mai posto la massima attenzione e sicuramente tali collaborazioni porteranno in futuro maggiori benefici a tutto il nostro mondo.

La crisi del mercato discografico avrà una fine?
In realtà non si tratta di una crisi. La gente ascolta tanta musica, forse più di qualche anno fa. Quindi c’è domanda e noi cerchiamo anche di stare dietro con l’offerta. Il problema è che sono cambiate le metodologie ma non abbiamo ancora raggiunto un nuovo equilibrio. Che sarà necessario se si vuol stare dietro alla domanda.

Secondo voi quali sono i responsabili di questa crisi?
Non c’è un responsabile. E’ cambiato tutto con l’avvento del digitale. Io ad esempio non amo lo streaming e compro ancora dischi, certe volte vinili. Ma ho appena fatto un viaggio in auto di nove ore e ho trovato comodissimo lo streaming da cellulare via bluetooth direttamente sull’impianto dell’auto. E’ decisamente un passo avanti tecnologico importante poter accedere a tutto mentre viaggi. Ma questo non vuole dire che sia sufficiente dare 0,002 euro all’artista che ho ascoltato in auto. E’ tutto qui il qui pro quo.

Lo stato cosa potrebbe (o dovrebbe fare) e in Italia è peggio che in altri paesi del mondo?
La situazione al di fuori dell’Italia è ben diversa. Gran parte dei paesi europei ha organizzazioni statali e non che ben supportano lo sfruttamento delle iniziative editoriali, attraverso premi di produzione e incentivi per agevolare i viaggi per i concerti live. Se anche nel nostro paese ci fossero tali organizzazioni si aiuterebbe di molto la divulgazione della nostra musica a 360 gradi.

Crisi a parte, mi sembra che la produzione discografica non abbia subito un rallentamento (non parlo di vendite, ma di produzione): ci sono numerosissime uscite di nuovi dischi, anche di ristampe. In pratica, i musicisti continuano a incidere. Come giustificate questo fenomeno?
La necessità del musicista di scattare una foto al proprio processo creativo non si fermerà mai. Possiamo solo ripensare le modalità. C’è anche da dire che il livello tecnico dei musicisti si è alzato parecchio negli ultimi anni per cui ci troviamo di fronte ad un numero di produzioni elevato. In media riceviamo molti più demo di dieci anni fa. A noi spetta fare da filtro, ascoltare tutto e dare una possibilità a chi pensiamo sia meritevole.

Molte case discografiche, straniere per lo più o major, hanno cercato di far fronte alla crisi del mercato con il c.d. accordo a 360 gradi. Cosa ne pensate di questa pratica?
E’ una pratica piuttosto comune nel pop dove curare gli aspetti di immagine e di booking/management di un artista può certamente fruttare. La vedo molto più complicata nel nostro settore a meno che non si tratti di Pat Metheny.

Quali sono i prossimi impegni dell’ADEIDJ?
Ci stiamo impegnando per ottenere un tax credit per le produzioni discografiche, l’Iva al 4% anche per i prodotti discografici così come avviene sui libri, stiamo istruendo i musicisti su come muoversi nel mondo digitale e dei diritti d’autore e connessi, partecipiamo al tavolo per la creazione di un ufficio music export e tanto altro.
Alceste Ayroldi