«The Uneven Shorter». Intervista a Luca Mannutza

Nuovo disco per il pianista sardo in cui omaggia Wayne Shorter. Ne parliamo con lui.

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Buongiorno Luca, piacere di ritrovarti. Iniziamo subito a parlare del tuo ultimo disco «The Uneven Shorter». Da un pianista ci sarebbe aspettato un omaggio al proprio strumento. Perché hai scelto Wayne Shorter?
Buongiorno Alceste, grazie, è un piacere anche per me. Ho scelto di arrangiare la musica di Shorter perché non ho pensato allo strumento ma alla musica e poiché ritengo Shorter uno straordinario compositore, la scelta è stata facile! Sono cresciuto ascoltando la sua musica, sia quella registrata a proprio nome sia quella registrata col secondo quintetto di Miles Davis. È stato da sempre fonte di ispirazione per le mie composizioni.

Immagino che sarà stata dura scegliere un sassofonista in questo caso. Perché hai voluto Paolo Recchia al tuo fianco?
Paolo è un eccellente sassofonista, oltre che un grande amico. Faceva parte del mio quintetto è già nel precedente disco avevamo sperimentato delle speculazioni ritmiche quindi è stato naturale per me chiamarlo a far parte del quartetto. Anche lui, come me e come la maggior parte dei musicisti di jazz, credo, ha subito l’influenza della musica di Shorter nel suo percorso musicale.

Invece, Daniele Sorrentino e Lorenzo Tucci?
Con Lorenzo Tucci ci conosciamo musicalmente da più di vent’anni. Abbiamo condiviso tantissime esperienze musicali, dagli High Five quintet alle Trombe del Re ad esempio. È stata la prosecuzione di un rapporto musicale e di amicizia che dura da tantissimo tempo. Daniele Sorrentino è stata una riscoperta perché avevamo inciso un disco insieme una decina d’anni fa e poi non ci siamo più incontrati musicalmente fino ad un giorno in cui gli ho proposto di fare una prova in quartetto con Lorenzo e Paolo, giusto per farci una suonata. Ci siamo trovati così bene che da lì abbiamo deciso di intraprendere insieme il viaggio del mio nuovo disco.

Con quale criterio hai proceduto alla scelta dei brani?
La scelta dei brani non è stata facile perché Shorter ha scritto tantissimi brani, uno più bello dell’altro. Brani che sono stati i miei ascolti da giovane musicista Jazz in erba quando avevo qualche anno in meno. Ho volutamente fatto riferimento al periodo musicale che va dal 1964 al 1967 ed ho quasi totalmente attinto dai dischi che Shorter ha inciso a suo nome. Non mi sono voluto lasciare scappare delle perle che ha composto per il secondo quintetto di Davis, come Nefertiti e ESP.

C’è stato un brano che hai dovuto lasciare fuori a malincuore?
Più di uno! Ad esempio Water Babies o Limbo, due splendidi brani registrati dal quintetto di Davis. Li ho dovuti lasciar fuori perché non avevo ancora trovato un arrangiamento che mi piacesse.

Qual è stato il tuo approccio alla musica di Shorter al fine di renderla tua?
Ho cercato di arrangiare i brani nell’aspetto a me più congeniale senza dover modificare la bellezza dei suoi capolavori musicali. Ho quindi deciso di lasciare integra la parte melodica e quasi totalmente la parte armonica, eccetto qualche piccola modifica negli accordi di Footprints, dedicandomi esclusivamente ad un lavoro di arrangiamento ritmico perché ritenevo che fosse l’aspetto musicale su cui poter lavorare e la cui modifica avrebbe lasciato inalterata la bellezza dei brani. Senza voler entrare troppo nello specifico dell’aspetto tecnico, posso dire di aver modificato la metrica iniziale dei brani facendo poi un lavoro di arrangiamento polimetrico. Questo vuol dire che spesso si hanno due metriche che si interscambiano e ogni tanto si sovrappongono.

Luca, quanto c’è di Shorter e quanto di Luca Mannutza in questo disco?
Posso rispondere con certezza che di Shorter c’è tutta la musica, accordi e melodie, mentre di Luca Mannutza c’è tutto l’arrangiamento ritmico e l’utilizzo di questa tecnica delle polimetrie.

Hai lavorato solo su parti scritte o c’è anche improvvisazione?
I brani sono stati arrangiati ritmicamente quindi ho dovuto scrivere delle parti obbligate per gli strumenti ma quando si arriva agli assoli le parti sono totalmente improvvisate, pur seguendo la sequenza degli accordi. Le parti ritmiche scritte sono servite anche come indicazione per l’accompagnamento degli assoli.

Qual è stato il brano più ostico da arrangiare?
È stato più difficile suonarli che non arrangiarli! L’arrangiamento è venuto molto spontaneo, come un flusso di idee che riesci ad applicare con facilità. Probabilmente questa facilità è stata dovuta alla padronanza di queste tecniche di arrangiamento ma soprattutto al fatto che con una musica così bella, evitando le modifiche armoniche e melodiche, sarebbe stato impossibile non ottenere dei buoni risultati! È stato un po’ come trovare una scarpa che calza perfettamente a chiunque la indossi.

Ti è mai capitato di incontrare Wayne Shorter? Se sì, cosa vi siete detti? Se la tua risposta è no, cosa avresti voluto chiedergli?
Sfortunatamente non l’ho mai incontrato ed è un grande dispiacere! Se lo avessi incontrato gli avrei chiesto qual è e quale è stato il suo approccio compositivo. Mi sarebbe piaciuto sapere se è stato sempre lo stesso o è cambiato negli anni. Spero di riuscire a fargli questa domanda di persona.

Perché hai deciso di incidere l’album al Nightingale Studios  di Lorenzo Vella che, tra l’altro, è il fondatore della  Birdbox Records  che pubblica il tuo disco?
La collaborazione con Lorenzo Vella, fondatore dello studio di registrazione Nightingale Studios e dell’etichetta Birdbox Records dura da tanti anni ormai. Una amicizia resa salda dalla stima e dal rispetto reciproco. È stata questa la motivazione che mi ha fatto decidere di voler pubblicare il mio disco con questa nascente etichetta discografica. Ho ritrovato nello spirito di Lorenzo e dell’etichetta tutte le qualità che cerco di trovare in una label quando decido di pubblicare la mia musica

Nella tua carriera ci sono moltissime collaborazioni discografiche con altrettanti jazzisti italiani. Questo tuo omaggio a Wayne Shorter, quale posto trova nella tua discografia?
Credo sia il punto più alto della mia ricerca musicale, perlomeno il punto più alto che sono riuscito a testimoniare con una registrazione musicale. Mi piacerebbe applicare questi stessi concetti di arrangiamento a delle composizioni originali. Sto lavorando per questo, ho scritto dei brani nuovi. Vediamo cosa succederà nel prossimo futuro.

Hai suonato in buona parte del mondo. Ti è mai venuto in mente di lasciare l’Italia e andare a vivere altrove?
Tante volte! Mi sarebbe piaciuto trasferirmi a New York, credo sia il sogno di molti musicisti jazz. Per un periodo della mia vita ho pensato che anche il Giappone, in particolare Tokyo, non sarebbe stato male ma poi ho sempre cambiato idea perché gli avvenimenti mi portavano a dover stare in Italia. Sono ben felice di questa scelta perché in Italia si vive bene ma la voglia di vivere a New York è rimasta. Per ora mi accontento di lavorare in Italia e in Europa coi musicisti americani. Come dire: se non posso andare a vivere a New York allora porto un po’ di New York in Europa!

Luca Mannutza

Luca, quando hai deciso (o capito) che l’essere musicista sarebbe diventata la tua professione?
Credo di averlo capito da grande e cioè quando ho lasciato il lavoro di insegnante di musica e gli studi di ingegneria per potermi dedicare esclusivamente allo studio della musica jazz. Fin da piccolo ho studiato musica classica ed ho concluso gli studi prima del tempo perché mi sono diplomato a 18 anni in pianoforte. La mia strada sembrava segnata verso la direzione del musicista classico invece dopo i vent’anni ho avuto l’illuminazione perché ho conosciuto il jazz!

Quali sono stati i tuoi punti di riferimento nella tua carriera artistica?
I miei punti di riferimento musicali sono stati tutti i musicisti che ho ascoltato durante la mia vita, dalla musica jazz alla musica classica. Se dovessi citare di dei nomi sicuramente ne dimenticherei qualcuno però, se vogliamo elencare i maestri, per quanto riguarda l’aspetto pianistico ti posso dire che le mie influenze vanno da Art Tatum a Oscar Peterson a Wynton Kelly, Sonny Clark, Red Garland, Bill Evans, McCoy Tyner, Herbie Hancock, Chick Corea, Keith Jarrett, Kenny Kirkland, Brad Mehldau, Aaron Parks, e tanti altri. Per quanto riguarda l’aspetto compositivo il discorso è un po’ più complesso perché ascolto ed ho ascoltato tantissima musica di vari generi musicali, dal rock progressive alla black music, oltre alla musica classica,  quindi è difficile trovare dei nomi che mi hanno influenzato in particolare. Vorrei citare anche Arturo Benedetti Michelangeli, un idolo per me, perché ha avuto una grandissima influenza su di me  sia come pianista che come artista.

Qual è la tua città preferita e perché?
Non ho un’unica città preferita, ho tante città che mi piacciono per motivi diversi. Voglio fare tre nomi: Roma, la città dove ho scelto di vivere. Cagliari, la città dove sono nato. New York, la città dove vorrei vivere

Ti è mai venuto a noia il jazz?
La musica jazz non mi ha mai stancato! Sicuramente ci sono stati dei periodi di noia per ciò che riguarda l’ascolto della musica jazz a me contemporanea. Credo sia naturale e fisiologico che ogni tanto non si riesca a trovare della musica che ci piaccia da ascoltare. Quando mi capita questo mi rifugio nell’ascolto di altri generi musicali oppure ascolto il jazz degli anni Cinquanta-Sessanta. È un po’ come ascoltare Bach nella musica classica.

Dal punto di vista compositivo, invece, stai lavorando a qualcosa?
Come ho già detto, sto applicando questi arrangiamenti sperimentali ad alcune mie composizioni originali.

Cosa è scritto nell’agenda di Luca Mannutza?
E’ scritto che per ora sono in tour in Germania con dei musicisti americani molto bravi e  che nel 2022 presenterò il disco  alla Casa del jazz a Roma.
Alceste Ayroldi

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