«Hafla». Intervista a Jon Balke

Da una quindicina d’anni il pianista norvegese guida – tra i suoi numerosi progetti – una band di grande originalità nel panorama contemporaneo: Siwan. In occasione dell’uscita di un nuovo disco, ci siamo fatti raccontare dallo stesso Balke le origini e le motivazioni del gruppo.

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Jon Balke

Vorrei iniziare con il parlare del tuo ultimo album «Hafla» con il gruppo Siwan. Come è nato il progetto di questo album?
Siwan si è sviluppata nell’arco di circa quindici anni. E ho sviluppato un modo di comporre che parte da un frammento di un brano che consegno al cantante Mona Boutchebak, che lo elabora e, alcune volte, lo cambia con un testo arabo o ispanico. Poi, me lo restituisce e io ci lavoro ancora, lo rielaboro e lo consegno al resto del gruppo. Ma anche loro lo elaborano, lo modificano e, così, alla fine abbiamo il brano definitivo.

Invece, parlando del gruppo Siwan mi sembra che sia cambiato qualcosa rispetto al passato. Mi sbaglio?
Sì, sicuramente è cambiato qualcosa. Circa sette anni fa Amine Aloui ha lasciato il gruppo. Abbiamo cercato una differente via interpretativa con la cantante palestinese Kamilya Jubran, poi con la vocalist tunisina Lamia Bedoui, ma le cose non andavano così come volevamo. Alla fine abbiamo trovato il giusto equilibrio con Mona Boutchebak, che oramai fa parte del gruppo e della famiglia. Lei è un’ottima musicista e una bella persona. Ha il giusto approccio, perché è parte dell’orchestra  e non vuole giocare a fare la diva.

A tal proposito, segui dei criteri in particolare per scegliere i musicisti di questo ensemble?
Innanzitutto devono essere di mentalità aperta e, poi, devono essere degli ottimi conoscitori della tradizione musicale del Paese dal quale provengono. E devono anche essere bravi e predisposti alla comunicazione. E, con sincerità, non è facile trovarne di musicisti così!

Quando hai capito che dovevi mettere su una band come i Siwan?
I Siwan sono nati per una commissione in occasione dei quindici anni del Cosmopolite di Oslo. Mi diedero carta bianca e c’erano abbastanza soldi per fare qualcosa di nuovo e orchestrale. Volevo fare qualcosa che avesse a che fare con il loro background, quindi con il Marocco e chiamai Amine Melaoui. In quel periodo collaboravo anche con il percussionista Helge Norbakken e il violinista Bjarte Eike, che volli coinvolgere. Siwan prende spunto dalla poesia di Al Andalus, principalmente in stile mwashahad. Così, lentamente, l’idea musicale ha preso forma.

Jon Balke

Se non rammento male, sono passati cinque anni dall’ultimo album dei Siwan. Perché questo lungo stop?
In realtà il motivo è pratico: ero impegnato in altre attività, altre collaborazioni e commissioni. Poi, c’è stata di mezzo anche la pandemia che ci ha costretto a posporre i nostri incontri, anche perché i componenti provengono tutti da diversi Stati.

Come hai vissuto il periodo della pandemia?
Personalmente sono stato fortunato, perché mi trovavo in Norvegia, proprio dove sono ora quando c’è stato il primo lockdown. E’ una casa con tanto spazio all’aperto e ho potuto muovermi, comporre, suonare. La situazione determinata dalla pandemia ci deve far capire che dobbiamo dare più spazio alla natura, rispettarla di più.

Alcuni dei lavori precedenti dei Siwan hanno visto la collaborazione di Jon Hassel. Qual è il tuo ricordo di questo grande compositore?
Incontrai la prima volta Jon a Milano, in occasione di un concerto organizzato dal fotografo Roberto Masotti, in cui ero coinvolto. L’indomani facemmo colazione insieme e parlammo a lungo. Ci trovammo subito d’intesa e gli proposi di collaborare con i Siwan; proposta che lui accettò ben volentieri, immediatamente. E’ stato un po’ il nonno per tutti noi. Ascoltava tantissimo e poi intonava la sua tromba, con il suo suono così personale.

Il tuo approccio alla composizione cambia radicalmente quando suoni e componi per altre formazioni?
Assolutamente sì, perché io non compongo da solo completamente tutta l’opera musicale. Non raggiungo subito il risultato conclusivo con tutti i dettagli fino a quando non vi è l’apporto di Mona e Derya, che leggono la musica ma molto lentamente. Così, poi, tutti insieme lavoriamo insieme per i dettagli finali. Invece, quando compongo per altre situazioni lavoro molto di più da solo, anche nei dettagli.

Jøkleba con Per Jørgensen – tromba, voce, percussioni, flauti; Audun Kleive –percussioni; Jon Balke – piano, tastiere e percussioni

Parlando degli altri tuoi progetti e, in particolare, dei JøKleBa!. Una band che mette insieme industrial, classica contemporanea, avanguardia. Qual è l’obiettivo di questo gruppo?
All’inizio si chiamava Jon Balke Trio, ma con il passare del tempo non potevo più definirlo il mio trio, perché si lavorava in assoluta democrazia e con l’apporto di tutti e tre, in maniera egualitaria. Quindi, il nome del gruppo rappresenta le iniziali dei cognomi dei suoi componenti: Per Jørgensen, Audun Kleive e Jon Balke. E il punto esclamativo è solo, come dire, un vezzo che ci è piaciuto. L’ispirazione di questo gruppo è nata in Polonia verso la fine degli anni Ottanta, quando vidi il trio di Tomasz Stanko che aveva la stessa formazione: tromba, piano-tastiere e batteria, senza basso. E questa idea l’ho avuto a mente per diversi anni, fino a quando non ho avuto la possibilità di realizzarla con questi due fantastici musicisti. E così abbiamo deciso di utilizzare ogni tipologia di musica: dagli standard alle canzoni dei Beatles e molto altro.

E’ fantastico come tu riesca a passare dal tocco del pianoforte così pesato, ponderato a certe soluzioni musicali quasi aggressive.
Dipende sempre dal contesto in cui mi trovo a operare. Se mi trovo ad affrontare colonne sonore di film, musica per la danza, o altri contesti. Qualche difficoltà, nel trovare certe sonorità, la ravviso dal vivo, ovviamente nel dare una forma al suono anche con l’elettronica.

Passiamo ai tuoi progetti collettivi: Batagraf e Magnetic North Orchestra.
Sono molto differenti tra loro. La Magnetic Orchestra è nata contestualmente al JøKleBa! nel 1991-1992, ed è nata per una commissione nella quale dovevo creare un combo di musica da camera jazzistico. Fui nominato ambasciatore musicale olimpico dal 1993 al 1994, per le Olimpiadi invernali del 1994 a Lillehammer e ho composto l’opera Magnetic North. Batagraf, invece, è nato nel 2003 con uno scopo del tutto diverso che è quello di ricercare la relazione tra ritmo e linguaggio, con base di ispirazione la musica della tradizione africana.  Era qualcosa che avevo in mente da tempo, ma non avevo avuto modo di curarne gli aspetti organizzativi. Anche questo collettivo è nato durante una prima colazione in un albergo, questa volta con Helge Norbakken. Abbiamo lavorato un paio di anni prima di forgiare il contest di questo gruppo, per trovare le sonorità migliori. Sono a mio agio in entrambe le situazioni. Penso che sia particolarmente importante investigare e ricercare la musica in differenti vie e modi. Mi piace ancora sorprendermi!

Jon, qual è il tuo rapporto con la musica improvvisata? Preferisci l’improvvisazione o la musica annotata?
Non ho una preferenza. Ascolto ed eseguo entrambe. E’ solo una differenza di approccio alla musica.

Vivi e metti insieme le culture di differenti Paesi. La tua è, senz’altro, una visione molto globale del mondo, così come dovrebbe essere. Comunque, molte persone non apprezzano questo punto di vista, perché preferiscono tenere le culture separate. Qual è il tuo concetto di musica e, quindi, di cultura?
Penso che la musica e la cultura non debbano essere selezionate e classificate. In Norvegia abbiamo la nostra folk music, come in ogni Paese. Ogni popolo ha la sua cultura che, nel corso del tempo si è necessariamente fusa con altre culture: i viaggi e le scoperte geografiche hanno contribuito e contribuiscono tutt’ora in tal senso. I musicisti viaggiano e suonano. Se mi trovo a Napoli, assimilo in parte la musica di quella città. Tutte le forme musicali sono frutto di una fusione di sonorità provenienti da diversi spazi. Anche le forme più classiche come la passacaglia, la ciaccona si nutrono di forme ritmiche che appartengono a culture differenti rispetto a quella europea. Ne dobbiamo prendere atto. L’Africa è ben presente in molte musiche: anche nella pizzica salentina, nella tarantella napoletana, così come nel fado portoghese o nel flamenco spagnolo.

Jon Balke

Sei considerato un musicista di jazz e di world musica. Nessun problema per la prima definizione, ma pensi che esista una definizione di world music?
Bella domanda! Non so cosa possa significare, in realtà. Ogni musica è world music: quella norvegese, italiana, spagnola. Sono un pianista e tastierista, non suono strumenti esotici. Questo è certo.

Qual è il ruolo che attribuisci all’elettronica nella tua visione artistica?
Per me l’elettronica è qualcosa di fantastico per lavorare, ma non mi piace quando l’elettronica sostituisce la musica. Mi piace utilizzare il giusto mix tra strumenti acustici ed elettronici.

Chi ha avuto una particolare influenza su di te sia come musicista, che  come compositore?
Come pianista Paul Bley, in modo deciso. Ho avuto il piacere di incontrarlo e di parlare con lui: il mio eroe. Come compositore, invece, è più difficile menzionarne solo uno. Tra tutti Bach, sicuramente, ma anche Ligeti e molti musicisti contemporanei, così anche Sibelius. Ma Bach è il primo in assoluto.

Sei anche un eccellente fotografo. Musica e fotografia: chi influenza di più l’altra? Come fai interagire queste due arti?
Ero poco più di un bambino, avevo nove anni, quando ho scattato la mia prima fotografia. Io e un mio amico passavamo i pomeriggi a fotografare e sviluppare foto nella camera oscura. Quando sei in tour come musicista, nelle autovetture, negli aeroporti, negli alberghi e in città straniere, è una benedizione avere qualcosa da fare: andare in giro in nuovi posti e guardare le luci, le forme, i colori. Non so dire, però, quanto la fotografia incida sulla composizione o viceversa. Sicuramente, la fotografia mi consente di soffermarmi sulle forme, di scolpire anche la musica.

E’ da diversi anni che collabori con l’ECM di Manfred Eicher. E’ abbastanza raro questo comportamento, oggigiorno, nel mondo della musica.
Per me fu piuttosto complicato all’inizio. Fui invitato a registrare, ma qualcosa non andò bene e la registrazione non fu pubblicata. Ebbi una discussione con Manfred Eicher. Fui invitato di nuovo e ne parlammo e decidemmo di continuare a collaborare. Posso dire di essere molto contento e soddisfatto di avere al mio fianco una persona come Manfred Eicher. L’ECM è una label molto professionale ed è un piacere far parte di questa squadra.

Il tuo primo album in piano solo per l’ECM è stato «Book Of Velocities». Il secondo è stato «Warp». La trilogia si è completata con «Discourses». Dopo gli album più complessi dal punto di vista dell’assetto della formazione e, anche, dell’orchestralità, cosa ti ha portato a ordire questa trilogia?
Non ero certo di poter sviluppare del materiale per un piano solo. Ho aspettato molto prima di cimentarmi in un concerto in piano solo. Ma, poi, ho voluto affrontare questa sfida, perché è una situazione totalmente differente rispetto a quelle che avevo vissuto fino a questo momento. Non è facile. Quando sei da solo, hai bisogno di tutta la concentrazione e le responsabilità ricadono tutte su di te. Con questa trilogia ho cercato di creare delle diverse sonorità, diverse architetture per il pianoforte.

Nella tua musica si possono ascoltare molti riferimenti alla musica classica. Qual è il tuo rapporto con questa musica?
Quando avevo otto anni ho studiato musica classica: Bach, Chopin, Debussy. E tutt’ora la suono per il mio personale piacere. Studio le armonie di questi grandi compositori. Però, non suono musica classica sul palco, non sono all’altezza.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi?
Suonare molto con i Siwan, che per me è come una famiglia e amo stare sul palco con loro. Vorrei anche suonare in piano solo. Mentre con Batagraf è più difficile, al momento. Sto componendo la musica per un film che sarà presentato al festival di Cannes. Si intitola More Than Ever, di Emily Atef. E’ la prima volta che compongo la musica per un lungometraggio; in precedenza avevo composto per cortometraggi oppure per spettacoli di danza o teatrali.
Alceste Ayroldi