«Antroposophie». Intervista a Johnny Lapio

Esce in formato digitale, per l’etichetta inglese DDE Records, il nuovo album del trombettista torinese, vincitore del bando Vivere all’italiana indetto dal Ministero degli Affari Esteri. Ne parliamo con lui.

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Johnny, un disco che prende spunto dalla teoria dei quattro temperamenti di Rudolf Steiner. Cosa ti ha condotto fino a questa teoria?
Ciò che mi ha condotto ad approfondire questa teoria è una ricerca personale sul concetto di salute che personalmente vivo come una conquista. Partendo dal fatto che la salute è data dall’equilibrio tra aspetti bio-psico-sociali diventa difficile avere a che fare con persone totalmente sane. In che maniera i temperamenti, elementi o sub-personalità intervengono sul fattore umano? Con quali scelte si esprimono? Per rispondere a queste domande mi sono imbattuto in diverse teorie interessanti tra cui quelle di Steiner che ho avuto modo di approfondire, nonostante io non sia un antroposofo puro.

Cosa c’entra con la musica la teoria di Steiner?
Il suono, i movimenti spazio-temporali e il colore che noi introiettiamo dalla nascita entrano a far parte della nostra biografia corpo-sonora-visiva e agiscono a livello fisico, psicologico, simbolico e fonosimbolico. Diventa quindi difficile, per come la vedo io, separare i temperamenti umani (che Steiner studia) dai concetti di suono, colore (elemento fondamentale nelle teorie antroposofiche) e movimento (questo è uno dei motivi per cui nelle partiture oltre alla scrittura canonica introduco segno, colore e corpo)

Hai tratto ispirazione da Steiner, ma come hai proceduto per dargli una veste musicale?
In parte facendomi ispirare dal mio temperamento irrequieto s-bilanciato tra collera e malinconia (da qui i temi, la conduzione muscolare e la grafia). In parte dalle personalità dei musicisti dell’Arcote project.

Perché questo titolo «Antroposophie»?
Sicuramente da antroposofia, decisamente generico per scelta, che mira/tenta di incuriosire già dal titolo che jazzistico sembra avere poco e anticipa un punto di vista differente.

In pratica, troviamo sei brani, anzi sei suite. Un processo rischioso dal punto di vista commerciale. Hai riflettuto su questo aspetto?
Mi ritengo un anarchico musicale, ho maggiore interesse per l’aspetto artistico/espressivo. La mia è un’urgenza comunicativa che spesso mi provoca anche un importante disagio personale e le rare volte in cui ho pensato esclusivamente all’aspetto commerciale non mi ci sono riconosciuto troppo.

E troviamo classica contemporanea, improvvisazione pura, jazz contemporaneo, tracce di jazz tradizionale, e anche delle punte di rock. Come hai agito in fase compositiva?
Ho immaginato un flusso continuo, l’ideale sarebbe immaginare le sei suite come un unico lavoro da cinquanta minuti, una sorta di viaggio in cui vi sono punti fermi e altri in cui la direzione prende pieghe inaspettate. Un po’ come la vita, mentre per quanto riguarda i generi che emergono, per come la vedo io, non esistono. Io sono così, è musica del mondo che arriva dai rapporti con persone diverse, continenti diversi, formazione personale, ascolti di diversi periodi storici della vita…

Quando componi pensi anche al pubblico al quale si rivolgerà il tuo lavoro? Assolutamente sì, infatti cerco sempre di essere artisticamente sincero e coerente con me stesso e di conseguenza con il pubblico. Il pubblico che segue i nostri concerti è trasversale ed eterogeneo come età, ceto sociale e culturale. La prima volta che ci ascolta, soprattutto dal vivo, rimane colpito emotivamente; dopo le persone si incuriosiscono e si chiedono che tipo di esperienza vivranno nei prossimi ascolti. Credo sia per questo che abbiamo un ottimo seguito.

In genere, cosa pensi del pubblico?
Il pubblico è spesso lobotomizzato dai social, dai media e dalla sciatteria della politica, ma scuotendolo, soprattutto in questo periodo storico, è in grado di stupire come non mai per le emozioni che è in grado di regalare…

Parliamo dei tuoi sodali. Come e perché hai scelto proprio loro?
Premetto che sono musicisti con cui suono da parecchio tempo. Con il sassofonista Francesco Partipilo c’è sintonia totale, è espressivo e viaggia a nervi scoperti, al contrabbasso un solido Michele Anelli assume le sembianze di un isolato personaggio biblico in perenne viaggio, al pianoforte Emanuele Francesconi alterna delicati passaggi poetici a rabbia inespressa che ti esplode in faccia senza preavviso. Per quanto riguarda la batteria solitamente suono con Davide Bono che è particolarmente attento alla dinamica e ai pianissimo (ed è per questo che in generale lo prediligo), ma per «Antroposophie» ho chiamato Fabrizio Fiore perché necessitavo di un temperamento positivo con quell’entusiasmo che solo certi giovani sanno trasmettere. Li ho scelti perché c’è interplay, professionalità, ma soprattutto cuore e direzionalità imprevista.

Un disco dalle mille sfaccettature, dai risvolti filosofici e pedagogici. Però in copertina, come si suole dire, ci hai «messo la faccia». Perché hai voluto la tua foto in copertina?
Perché è un disco «pericoloso» e che osa più del solito…quindi me ne assumo la responsabilità in toto mettendoci la faccia.

Probabilmente hai anticipato i tempi, visto che il tuo ultimo disco esce in versione digitale. In realtà, sembra che i cd siano destinati a scomparire. Cosa ne pensi in proposito?
Pur guardando al futuro mi dispiace molto che i cd stiano scomparendo. Io adoro l’oggetto, la copertina, le note, ma ancora di più i vinili. Penso che sia un vero peccato.

Johnny, quando hai capito che la tromba sarebbe diventato il tuo strumento musicale?
Solo dopo aver acquisito una certa consapevolezza artistica e professionale, quindi non nell’immediatezza della giovane età, ma in adolescenza. Suono e studio il pianoforte dall’età di otto anni e oggi dedico molto alla composizione, ma vivo questo strumento in maniera esclusivamente intima e introspettiva. Nel tempo mi sono reso conto che necessitavo di una voce personale ed unica che mi rappresentasse all’esterno e che fosse in grado di tradurre il mio mondo interiore; uno strumento a cui potermi aggrappare per non cadere, che avesse un’accezione spirituale e che fosse il prolungamento di me stesso. Per me quello strumento è la tromba con cui ho stretto un rapporto perpetuo di amore e odio. Il momento preciso comunque è avvenuto quando ho soffiato nello strumento per la prima volta; una sensazione incredibile che provo tutt’ora.

Tu svolgi anche attività didattica. Ce ne parleresti?
Tendo a prediligere l’aspetto compositivo sperimentale, l’improvvisazione trasversale transdisciplinare e lo sviluppo approfondito delle idee artistiche. Di conseguenza ho poco interesse per l’insegnamento dello strumento e delle materie più tecniche che preferisco demandare a chi ne ha la passione. Trovo invece interessante condurre percorsi, magari per periodi abbastanza lunghi, con artisti che arrivano da discipline diverse; musicsti, performer, pittori. La tendenza è all’idea di performance totale. Trovo anche interessante lavorare tramite i suoni con i bambini e con certe tipologie di disagio relazionale. Forse un’idea un po’ strana di didattica per l’Italia…meno per il nord Europa.

Con quanti gruppi hai suonato e con quali è andata molto bene?
Gli anni di attività sono parecchi e quindi anche i gruppi in cui ho suonato sia da leader che da sideman sono tanti, ma se dovessi citarne alcuni in cui è andata particolarmente bene vi sono sicuramente Braxton e il Sonic Genome, il sestetto di Chris Jonas a Santa Fe, i lavori con Satoko Fujii e Natsuki Tamura a Tokyo, l’ensemble di Intuitive Music diretto da Markus Stockhausen a Venezia, il Porta Palace con Rob Mazurek, il duo con John Russell in Uk e Sten Hostfalt a New York e soprattutto i lavori in collaborazione con Sylvano Bussotti (di cui tre opere a doppia firma).

Cosa ne pensi del music business italiano?
Che tristezza…

Quanto pensi che la situazione economica causata dalla pandemia possa incidere sul futuro della musica?
Penso che inciderà negativamente sulla musica d’arte, sulla musica dal vivo nei club, teatri e non tanto su quella commerciale (con l’accezione peggiore del termine) che ben si presta a social vari, tik tok, instagram,fb e progammi vari…

Quale esperienza ha segnato in modo rimarchevole il tuo percorso artistico?
La vita nel quartiere popolare di Aurora Porta Palazzo di Torino, ricca di multiculturalità e umanità errante.
Alceste Ayroldi