«Delayed». Intervista a Giulio Bianco

Nuovo album per il polistrumentista salentino, componente del Canzoniere Grecanico Salentino. Ne parliamo con lui.

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Buongiorno Giulio. Cosa racconta «Delayed»?
Buongiorno! «Delayed» è un album di musica strumentale, prodotto grazie al sostegno di Puglia Sounds e con la produzione esecutiva del Canzoniere Grecanico Salentino. È un disco dalle mille anime scritto interamente durante il primo lockdown; potremmo definirlo di world/elettronica ma anche chill out o colonna sonora, addirittura neoclassica per alcune influenze. Nelle notti di marzo 2020 scrivere «Delayed»  è stata per me un’esigenza forte; la musica è arrivata all’improvviso, unica forma di evasione non solo dalla costrizione delle quattro mura, ma anche dal costante confronto con i brutti pensieri; tappeto volante per l’anima in un viaggio introspettivo che non è ancora terminato. Per me il disco è sia un esperimento musicale, in un territorio, quello della musica elettronica che non è il mio terreno abituale, ma anche un «esperimento sociale». Da sempre gli artisti hanno cercato l’isolamento in fase di scrittura; personalmente mi sono chiesto come potesse cambiare la produzione di un Artista nel momento in cui l’isolamento fosse imposto dall’esterno. Pur essendo un lavoro completamente privo di parole, «Delayed»  si fa portavoce del messaggio che la musica è lavoro!  Ogni brano ha il nome di una città in cui ho perso un concerto a causa della pandemia.

Sottolinei, quindi, la mancanza dei live in conseguenza della pandemia. Quanto è importante per te il rapporto fisico con il pubblico e quali forze genera?
Il rapporto con il pubblico è importantissimo. Vengo dalla «ronda» della musica tradizionale, il cerchio coreutico al cui interno si danza. La musica senza comunità è pura estetica, manca di forza perché non ha una finalità. Credo fortemente che la magia stessa di un live sia lo scambio di energia che si crea tra musicisti e pubblico, che è artefice dello spettacolo tanto quanto il musicista.

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La musica di «Delayed» si discosta da quella del Canzoniere Grecanico Salentino. Mi sbaglio?
Una tra le molte fortune di essere parte attiva di un progetto straordinario come il Canzoniere è quella di essere liberi di sperimentare nei propri progetti solistici. In Delayed» c’è tutto il mio vissuto musicale, e in questo c’è anche il Canzoniere ovviamente. Tuttavia, nonostante nel disco ci siano i bouzouki di Emanuele Licci e le percussioni di Mauro Durante, entrambi musicisti eccezionali, il suono non è quello del Canzoniere Grecanico Salentino. «Delayed»  ha un suo stile ed una sua direzione, che è il risultato della costante ricerca personale di nuovi linguaggi per i miei fiati popolari.

Sei un polistrumentista. In questo disco hai fatto tutto da solo? Quali strumenti hai suonato?
La scrittura di tutti gli arrangiamenti è avvenuta in completa autonomia e non potendo contare sul prezioso supporto di altri musicisti ho deciso di registrare preventivamente tutte le parti nel mio home studio, utilizzando oltre ai miei fiati, anche piano, chitarre, sintetizzatori, percussioni e alcuni campioni di suoni acustici del mio disco del 2018. Con la prima riapertura sono poi finalmente arrivate le collaborazioni esterne e grazie a queste il sound design dell’album è migliorato tantissimo. Le chitarre, molti synth basses, il pianoforte di Paris e gli archi sono stati ri-registrati da musicisti fortissimi, è  stato fatto molto lavoro di produzione anche sulle parti ritmiche.

Ci sono degli ospiti. Ce ne vorresti parlare?
Ne sarei felice! Ho la fortuna di collaborare spesso con Giacomo Greco degli Inude,  musicista e produttore di grande spessore, che nel disco ha curato lo sviluppo delle parti ritmiche e di tutti i synth basses che non venivano da parti di clarinetto. Luca Tarantino ha suonato le chitarre di Hamburg e Delhi, e per forza di cose, grazie al suo immenso talento, il mood di questi due brani è migliorato tantissimo. Maria Stella Buccolieri ha interpretato meravigliosamente il piano di Paris. Gli archi di Fernando Toma, Rosa Andriulli e Andrea Parisi hanno infine aggiunto verità e concretezza alle musiche; ricordo ancora l’emozione fortissima di quando in studio spegnemmo per la prima volta gli archi vst e ascoltammo i loro.

Belle le copertine: sia quella della prima, che quella della quarta pagina. Due foto che sono da collocarsi dove?
Molte volte ho definito «Delayed»  come «un viaggio immaginario al posto di viaggio musicale mai intrapreso». Una delle mie più grandi passioni dopo la musica è la fotografia, e questa insieme ai tour, mi ha permesso negli anni di calcificare ricordi e portare a casa, ad ogni ritorno, un piccolo pezzettino di mondo. I due scatti in particolare vengono da New York, una città che ho iniziato a considerare un po’ come una seconda casa. Ci sono stato per concerti moltissime volte, nel tempo ho imparato a conoscere la città che non dorme mai e lì, ho costruito amicizie e affetti.

Sei brani, sei città. Perché hai voluto dedicare la tua musica solo a queste sei città?
C’erano anche altri brani, altre città, che come spesso accade per questioni di fruibilità e narrazione musicale sono rimasti fuori dalla scaletta dell’album. Quello che posso dire è che purtroppo quelle sei città non sono state le uniche in cui ci stato cancellato un concerto, ma tra tutte, sono  sicuramente quelle che più evocavano in me sensazioni affini con i relativi brani.

Nella tua musica l’elettronica ha un ruolo piuttosto importante. Quanto ritieni incida nel tuo processo compositivo?
La tecnologia ha sempre influenzato la musica, in tutti i tempi e in tutti i generi musicali. David Byrne nel suo libro Come funziona la musica, racconta di come con l’arrivo dei primi registratori a cavallo tra fine 800 e primi del Novecento, e ancor di più con l’arrivo dei primi riproduttori musicali, il linguaggio di molti strumenti sia cambiato profondamente. Gli archi ad esempio hanno introdotto il vibrato per coprire i piccoli difetti di intonazione che con un ascolto unico e irripetibile (pre-registrazioni) sarebbero passati inosservati. L’elettronica è uno strumento potentissimo ma va usata con cura e equilibrio, deve essere un valore aggiunto. «Delayed»  senza elettronica non sarebbe nato, in fase creativa la musica arriva nella testa, e da li finisce direttamente suonata e registrata nel computer. Scrivere partiture in quella fase mi rallenterebbe moltissimo, mi piace sentire subito quello che ho registrato, smontarlo, cambiarlo, processarlo in tempo reale.

Così, anche gli strumenti della tradizione sono sempre oggetto della tua ricerca sonora. In tale ambito, intendo della ricerca, come ti muovi? Come ricerchi nuovi strumenti e nuove sonorità?
Nella prima parte del mio percorso musicale la ricerca di nuovi strumenti era tra le mie priorità, negli anni ho acquistato di tutto, ho fiati di tutti i tipi e provenienze; poi ho finito lo spazio ed ho iniziato a cercare nuove sonorità semplicemente cambiando approccio con gli strumenti che già possedevo. L’elettronica può essere di grande aiuto in questi percorsi ed è anch’essa strumento; la maggior parte dei synth basses del disco ad esempio vengono da parti acustiche di clarinetto e chalumeau opportunamente processate. Molte textures vengono dalle zampogne, anche se sfido chiunque a riconoscerle nel mix. In generale credo che il limite da superare non siano le possibilità degli strumenti tradizionali, ma l’approccio di chi li suona.

Una domanda corre l’obbligo farla. Ha inciso nella tua idea progettuale «Music for Airports» di Brian Eno?
Brian Eno
, in occasione dell’uscita di quel magnifico lavoro ha definito «musica da aeroporto» come un nuovo genere atto a musicare gli ambienti. Io ho sempre scritto per sonorizzare non ambienti, ma momenti. Per me musica da aeroporto è tutto quel filone di musica strumentale che sonorizza da sempre i miei viaggi.

Giulio, quali sono le tue riflessioni su quanto è accaduto durante e dopo la pandemia nel mondo dello spettacolo, dell’arte?
Credo che (estremizzando) la pandemia sia stata in qualche modo provvidenziale perché ha acceso un riflettore su un sistema che aveva bisogno di essere profondamente riformato già da prima della crisi. Finalmente si è recepito il carattere “discontinuo” di questo tipo di lavori e si sta lavorando nella giusta direzione per tutelare tutti i lavoratori visibili del settore. Per il resto sono stati mesi durissimi in cui molte persone si sono rese conto di quanto sia importante l’arte, perché è l’arte che ha accompagnato la loro singolare solitudine. Come sarebbe stato il lockdown senza la musica, i film, i libri? Ora il settore sta ripartendo, le capienze del teatri sono finalmente di nuovo al 100% e spero che a breve si possa ricominciare a danzare per godere del live nella sua totalità, e consentire anche a chi suona generi legati alla danza di riprendere a lavorare.

Quale posto occupa «Delayed»  nella tua discografia?
«Delayed»  è il mio secondo lavoro da solista, uscito tre anni dopo «Di zampogne, partenze e poesie», un disco di world music il cui focus era  la zampogna e che mi ha portato tantissima fortuna. Pochi mesi fa è uscito anche «Meridiana», del Canzoniere Grecanico Salentino, di cui ho firmato quattro brani. Se dovessi contare tutti i dischi a cui ho partecipato dal 2003 ad oggi, «Delayed»  è il mio ventiduesimo lavoro.

E’ un progetto che potremo ascoltare anche dal vivo?
In estate, in anteprima assoluta, suonando i brani di «Delayed»  per sonorizzare in tempo reale dei cortometraggi in occasione del Climate Space Festival di Ludovico Einaudi, mi sono reso conto di quanto siano evocativi e forti se associati a delle immagini. Tra le varie direzioni in cui sto producendo e lavorando c’è sicuramente quella delle sonorizzazioni, e poi sta partendo una nuova produzione che porterà in futuro il disco nei teatri, in spettacoli di danza contemporanea.

Giulio, qual è il tuo rapporto con i social network?
Non sono un tipo eccessivamente social, non ho mai installato TikTok ad esempio. Per me sono in primis strumento di lavoro e promozione. Li trovo utili per fare rete ma anche per restare in contatto e aggiornarsi su quello che succede in campo artistico nel resto del mondo.

Invece, sul fronte del Canzoniere Grecanico ci sono novità?
Stiamo pianificando il tour di Meridiana nei teatri e presto annunceremo le date, continuiamo a scrivere e ultimamente abbiamo registrato un brano bellissimo con Jovanotti. Con il CGS, pandemia permettendo, ci sarà un’estate ricca di musica.

Ritieni che tutto il battage pubblicitario intorno al “fenomeno” pizzica, Notte della Taranta, nuoce, o abbia nuociuto, all’ancestrale tradizione di questa musica?
La parola tradizione deriva dal verbo latino tradere, che vuol dire tramandare, consegnare a, ma è anche la radice di tradire. La musica tradizionale è fortemente legata alla funzione che esercita in un determinato contesto socio culturale. In passato si cantava d’amore, di sdegno, si cantava per scandire il tempo del lavoro e del dolore, si cantava per curare. Oggi è cambiato il contesto, e con esso anche la musica tradizionale. Gli stessi canti, portati su un palco, per forza di cose mutano di funzione. Oggi si canta per «estetica» e si canta ancora per la danza, il palco stesso è barriera e filtro. Il mio personale percorso di ricerca e proposta in questo campo può essere sintetizzato in una frase di Gustav Mahler che diceva che: «Musica tradizionale non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco»; con il CGS scriviamo nuovi brani, facciamo proposta, parliamo al presente e contemporaneamente trattiamo con molto rispetto il materiale che viene dal passato, portandolo in giro per il mondo e per quanto possibile, cercando di non snaturarne la funzione originaria. Per il resto, quando un genere musicale diventa di moda, come adesso lo è la pizzica, o quando diventa «fenomeno», come lo è la Notte della Taranta, si trascina dietro inevitabilmente questo tipo di dinamiche. Personalmente sono molto legato alla Notte della Taranta: ci sono entrato da giovanissimo e sono stato con loro per otto edizioni. Per me è stata una gran bella esperienza formativa, ho grande stima dell’Orchestra ma credo che non sia quello il palco adatto ai «puristi». La Notte della Taranta è nata come progetto di sperimentazione e contaminazione, negli anni ha contribuito fortemente al successo di tutto il movimento pugliese, inteso come trinomio musica, cultura e territorio.

Dicevamo che sei un polistrumentista. Qual è lo strumento al quale sei maggiormente legato?
Sicuramente le zampogne, uso il plurale perché ce ne sono moltissime. Suono questi strumenti dal 2004, in particolare la zampogna a chiave e la zoppa. Sono strumenti dal suono ancestrale, evocativo, atavico; complicati, a volte ancora instabili, ma a loro modo meravigliosi. Nessuno strumento mi fa emozionare di più di una zampogna suonata bene e perfettamente intonata.

Cosa è scritto nell’agenda di Giulio Bianco?
Ci sono i prossimi live, con il CGS e con il mio trio con cui porto in giro «Di zampogne» in versione acustica. La maggior parte di essi non posso ancora annunciarla, in quanto si tratta di festival che non hanno ancora reso pubbliche le line-up. A partire da fine febbraio sarò in tour con il Cg nelle maggiori città italiane e in primavera ci saranno anche diverse tappe europee. In estate probabilmente ci saranno anche dei concerti in spiaggia.
Alceste Ayroldi

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