Intervista a Giorgio Li Calzi: seconda parte

Il trombettista, compositore e direttore artistico torinese, di recente, ha pubblicato un album con i Prank. Ripercorriamo con lui le sue numerose attività e produzioni. Questa è la seconda e ultima parte dell’intervista.

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Mi piacerebbe anche che tu ci parli del disco con la poetessa Chandra Livia Candiani. Quali tematiche vengono affrontate? Hai lavorato sulle parole o la poetessa ha lavorato sulle musiche?
Chandra è una grandissima poetessa e traduttrice di testi buddisti. Ha scritto nel 2018 il saggio Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, che è diventato una guida importante per moltissimi lettori in un momento difficile come la pandemia. Le sue poesie sono complesse e sfaccettate, legate al rapporto che l’umano ha con la propria anima, e con l’anima di un pianeta che lo ospita. La sua voce naturale enfatizza la potenza dei suoi versi. Le 8 poesie contenute nelle tracce sono già uscite nelle sue raccolte edite da Einaudi. Chandra ha semplicemente scelto quali poesie lèggere, e io ho cercato di dar loro una veste sonora. Il lavoro è incominciato nel 2020 è finito nel 2023, ed è poi uscito lo scorso aprile per Haze-Auditorium Edizioni di Claudio Chianura. Il lavoro è in parte elettronico e in parte acustico: a un certo punto, quando ho capito che Chandra si trovava più a suo agio con suoni non troppo sintetici, allora ho scritto gli ultimi 3 pezzi per trio/quartetto d’archi, piano elettromeccanico (Wurlitzer) e harmonium. Con Edoardo De Angelis e Raul Roa ai violini e Manuel Zigante al violoncello. È stato fondamentale il dialogo con Chandra per arrivare al suono finale, sono molto soddisfatto del risultato.

Hai scritto anche le musiche per la serie TV Art Crimes. In questo caso, hai lavorato dopo aver visto tutta la serie, oppure sul copione? Quanto hai interagito con il regista per creare il giusto tessuto sonoro?
Ho lavorato sul pre-montaggio solamente di due episodi di Art Crimes, serie prodotta da Arte e Sky, docufilm dedicati ai furti d’arte degli ultimi decenni, con protagonisti gli stessi ladri delle opere d’arte. Avendo avuto molta libertà dal regista Stefano Strocchi, ho usato tutte le carte che avevo a disposizione: i musicisti con cui spesso lavoro, le voci di Hayley Alker e Maria Valentina Chirico e i quartetti d’archi, oltre alla mia elettronica e tromba. Anche se a un certo punto ho capito che la produzione esecutiva preferiva all’ambient, che prediligo, un suono più crime, più filmico e di suspense/azione, e allora ho cercato di fondere le due cose. Anche questo diventerà nei prossimi mesi un album, ho scelto e sistemato le tracce perché possano funzionare in autonomia sonora.

Andando a ritroso, nel 2021 troviamo Enjoy The Silence con Arto Lindsay. Innanzitutto, come è iniziato la collaborazione con Arto Lindsay?
Uno dei dischi che più mi colpì nel 1981, avevo 16 anni, fu quello dei Longue Lizards, un album di jazz con attitudine noir, più da gangster movie che da filologia jazzistica, un jazz molto particolare specialmente quando arrivavano gli assoli della chitarra di Arto Lindsay che sembravano uscire da un altro pianeta. Questa cifra di Arto Lindsay che ha poi sviluppato nei lavori successivi, e cioè assoli di chitarra distorti stile No-Wave newyorkese (stile peraltro inventato in parte da Arto stesso), insieme alla sua voce inversamente proporzionale al suono della sua chitarra, all’interno di una musica molto strutturata, è stato per me un importante imprinting e quando uso le pedaliere con effetti da chitarra nei gruppi con ritmiche rock (Prank oppure Frankie hi-nrg & Aljazzeera), cerco di suonare la tromba come Lindsay suona la chitarra.
L’ho contattato durante la pandemia e gli ho sottoposto il brano. Lui era bloccato a NY e io a Torino: questo stop in tutto il pianeta è stato un ottimo momento per produrre musica.

Poi, come è nata l’idea di dare vita al brano e perché un solo brano?
Qualche anno prima avevo sentito la cover trasfigurata di Enjoy the Silence della cantante norvegese Susanna Wallumrød. È il tipo di cover che piace a me, un po’ come Satisfaction fatta da Residents, una totale rilettura dell’artista che mette mano a una cover. Sono partito da lì, e poi è nata totalmente un’altra cosa. Per il resto ci sono molti musicisti con cui ho lavorato solo a un brano, Lenine, Thomas Feiner, Wolgang Flür, Margoo, Marconi Union, Thomas Leer, Retina.it… Tornando al singolo Enjoy the silence, uscito durante la pandemia, è corredato da un video molto potente, prodotto dall’artista visivo e scenografo Massimo Violato, che ha elaborato le foto di Alessandro Albert di una Torino vuota e in bianco e nero durante l’isolamento. Immagini che si trasformano in una progressiva deformazione e distruzione della città. Il video finisce con la stessa foto da cui era partito, segno che la storia si ripete, ma viene vista alla fine dagli occhi di un bambino, proprio come la vita che si ripresenta alla fine di una guerra.

Giorgio, guardando i tuoi progetti e la tua discografia, non si può non notare quanto tu sia naturalmente portato a fondere le arti, anche quelle letterarie, la danza (per esempio il tuo progetto Medea). Come hai alimentato questa tendenza e quali sono le tue fonti di ricerca?
Medea è una delle poche regie che ho realizzato, commissionata da Andrea Maggiora per il Balletto Teatro di Torino di Viola Scaglione. È una Medea ispirata a un film giovanile di Von Trier, in cui l’eroina uccide i figli con la loro stessa complicità, non per vendicarsi di Giasone come nel testo di Euripide, ma semplicemente per totale disperazione. Se Medea tradisce e abbandona la sua terra di origine per seguire il marito Giasone che poi si metterà con un’altra donna per diventare re, e viene cacciata via insieme ai suoi figli perché non servono più a nulla, allora Medea, madre disperata che non vede un futuro per i propri figli in una terra che non li accoglie più, in preda a una totale disperazione li uccide. Proprio qualche mese prima che mi dedicassi alla scrittura di questo lavoro, una donna straniera in un carcere italiano ha cercato di uccidere i suoi figli con le stesse motivazioni e l’impossibilità di immaginare un futuro per loro.  Sono quindi partito dalla scena in cui i bambini si suicidavano puntandosi una pistola alla tempia accompagnati dalla mano della madre. Ho temuto a un certo punto che la situazione fosse troppo gravosa per i due bambini scelti, tenendo conto che avrebbero dovuto fingere di essere morti per terra per 20 minuti, poi gli sarebbe stato versato del sangue finto addosso, che poi un cane (ammaestrato) avrebbe leccato dai loro corpi. Ma i bambini rappresentano il nostro futuro migliore, e in questo caso, i due bravissimi piccoli performer hanno affrontato la finzione con tanta leggerezza. La mia Medea si chiude con un balletto finale ispirato all’ultima scena di Salò di Pasolini: anche dopo la tragedia, la vita va avanti.

Mi sembra che tu abbia un buon rapporto con le tecnologie applicate alla musica. Molti puristi, soprattutto del jazz, aborrono tali implicazioni. Cosa ne pensi al riguardo?
La tua è una domanda complessa: intanto si apre già il dibattito quando si parla di ascolto musicale, analogico o digitale? L’ascoltatore spesso e giustamente rivendica un ritorno all’analogico. Io stesso quando ascolto i miei vecchi mix da multitraccia a Revox, li trovo certamente migliori rispetto ai mix successivi digitali. Ma alla fine credo di avere un orecchio più da consumer che da professionista. Ho sempre sfruttato i mezzi a disposizione: se ad esempio il sistema impone 2 facciate da 20’ ciascuna, mi adatterò a comunicare la mia musica usando questa modalità. Perché per me la cosa più importante è il contenuto, penso semplicemente alla bellezza della musica, sia quando sento un concerto con un ottimo impianto, sia ascoltando anche un solo pezzo sul cellulare. La musica per me resta musica, non penso se la ascolterei meglio su un sistema analogico: mi interessa la musica. Per quanto riguarda il discorso sui puristi di genere, posso dirti che tutti noi abbiamo bisogno di rassicurazioni, specie nella vita, ma forse i più ortodossi hanno bisogno di avere certezze anche nell’arte. Io in generale ho poche certezze, e spesso i film che mi hanno lasciato più un segno sono quelli che mi sorprendono quando vado al cinema senza sapere nulla del film, oppure quando sbaglio film, quando scopro che un film comico si rivela alla fine un film drammatico o viceversa.
Io non ho certo bisogno di avere continue sorprese nella vita, non sono un punk, ma quando vado a vedere una mostra che mi spiazza, o una performance anche difficile da digerire, anche provocatoria, allora il mio neurone si attiva e inizia a elaborare. L’arte ha il compito di lasciare segni importanti su di noi.  Parlo di noi che viviamo in una parte di mondo fortunato, anche se ormai noi occidentali o italiani, rappresentiamo la decadenza di un impero. In merito alla mia passione per l’elettronica, ogni tanto acquisto macchine nuove per alimentare l’esigenza di far crescere la mia ricerca. Da qualche mese ad esempio sto usando il Beat FM, un sintetizzatore che ha al suo interno una radio (FM, AM, SW), invece delle consuete forme d’onda.  È stato ideato e costruito da Charles Bisaillon, ingegnere elettronico canadese in collaborazione con Alphalab Audio (Torino). Sono il primo musicista che lo suona professionalmente dal vivo, e posso assicurarti che l’uso della radio lo rende filosoficamente molto jazz. Anni fa è stato importante iniziare a usare il Buchla, che è stato il primo sintetizzatore portatile, creato nel 1963 da Don Buchla. Macchina analogica complessa, espandibile e diversa dai classici sintetizzatori di Bob Moog o Dave Smith (l’inventore del Prophet 5 – il primo polifonico con la possibilità di memorizzare i suoni – e del MIDI, l’interfaccia che dal 1983 viene usata per far dialogare le macchine). Comunque possiedo alcuni sintetizzatori analogici di Dave Smith, e quando faccio i mix digitali, pieni di suoni digitali, gli analogici anche a bassissimo volume bucano il mix. Se ascolti l’album che ho prodotto insieme a Frank Bretschneider, uno dei padri della glitch music, i synth analogici si percepiscono perfettamente.
C’è un’altra cosa per me molto importante quando uso strumenti elettronici dal vivo: cerco sempre una intellegibilità, una divulgazione del gesto, perché si percepisca quello che sto facendo. Spesso quando vado a un concerto di elettronica e vedo un musicista immobile dietro al computer oppure che smanetta chissà quale dei suoi tanti strumenti, non ho la percezione di un gesto che conosco da sempre, come quello del batterista che percuote la batteria oppure la pennata di Pete Townshend. Quindi, nel mio caso, quando uso l’elettronica, cerco di far capire quello che sto facendo, magari con un gesto teatrale, oppure cercando di svuotare, per concentrare l’attenzione sullo strumento che viene usato in quel momento. Non è certo una regola, ma un’idea di partenza.

Qualche giorno fa è nata la prima casa discografica che produce esclusivamente musiche create dall’Intelligenza Artificiale. Stiamo facendo un passo in avanti oppure all’indietro?
L’uso creativo dell’intelligenza artificiale, come del nostro cervello, dovrebbe essere il punto di partenza: ma non voglio scolpire frasi tombali: l’AI è semplicemente uno strumento in più. Sicuramente da regolamentare come ogni cosa che ci si può ritorcere contro.
Io uso alcuni programmi in studio sviluppati con AI che sono molto stimolanti per il mio lavoro. Sto realizzando un album insieme al mitologico musicista inglese Mike Cooper, classe 1942, che ha iniziato la sua carriera a fine anni Sessanta come cantautore e chitarrista di folk-blues, diventando progressivamente per via della sua attitudine musicale e di vita, un globetrotter dell’avanguardia, della musica free e improvvisata, attraverso le molteplici collaborazioni e una sterminata discografia. Dopo aver prodotto un pezzo costruendolo sopra la sua voce, Mike mi ha sottoposto un suo album di chitarra e voce da cui estrarre alcuni frammenti, e ho continuato a lavorare sulla sua voce estraendola con un programma di intelligenza artificiale e rivoltando l’intenzione musicale iniziale. L’album uscirà a marzo 2025.

Qual è il tuo giudizio, quali sono i tuoi suggerimenti per migliorare il sistema dell’industria musicale italiana?
Se parliamo di industria musicale, penso subito alla discografia, e la discografia mondiale è in rovina da oltre un decennio, prima per il passaggio dal pezzo fisico all’mp3, e ora il colpo di grazia arriva dal monopolio dello streaming e dall’unica major rimasta. Nonostante ci si adatti al sistema, ci sono alcuni svantaggi rispetto a prima. Intanto, non essendoci più i dischi fisici, le royalties, cioè in questo caso le percentuali sugli ascolti, sono mostruosamente irrisorie. Poi è cambiato anche il mondo della produzione discografica: siccome non si vendono più dischi, non ha più senso investire molto nella loro produzione. A naso album come Thriller o I am degli EW&F sarebbero inattuali per via dei costi. Inoltre non esistono più dischi “di studio” (parlo molto in generale), dischi come quelli di Brian Eno o Tubular Bells. Esistono generalmente album che fotografano fedelmente il suono del gruppo dal vivo. Il che va benissimo, ma sicuramente nella discografia l’approccio musicale si è uniformato e i gruppi producono una quantità esagerata di album da vendere ai concerti (anche se i lettori CD ormai scarseggiano) che poi vengono riversati nel mare di Spotify. Se invece parliamo di un miglioramento delle condizioni di un sistema musicale (tutto è comunque strettamente legato), dei concerti e dei festival, è un altro discorso davvero complesso.
Siccome le istituzioni sanno poco della musica e fanno confusione tra turismo e cultura, o intrattenimento e musica di ascolto, direi che non avremmo bisogno di direttori artistici schiavi della politica, ma di tecnici  che conoscono il territorio in cui operano e che si assumono il rischio delle loro scelte, che siano non solo musicisti e che abbiano un’ampia visione culturale, in grado di connettere tutti i vari stakeholder del territorio e anche di connettersi con realtà extra territoriali per aumentare il tiro, capaci  di spiegare ai politici che esiste il rischio culturale nei progetti culturali, e che non è sempre importante usare il termine sold out quando si parla di progetto in grado di far crescere una comunità.
Durante i miei cinque anni al Torino Jazz Festival, ho cercato di esplorare musiche più a contatto con un pubblico giovane, musiche fuori dal sistema (perché anche il jazz è un sistema che alimenta l’ortodossia di organizzatori, pubblico e musicisti), e di supportare per buona parte dell’anno il territorio. Quando siamo arrivati al TJF, allora era un festival che costava più di 1 milione di euro, faceva il botto per 10 gg e poi i musicisti del territorio continuavano a fare i jazzisti per tutto l’anno. I concerti più piccoli erano piazzati nei bar del centro che non avevano nessun interesse per la musica. Noi abbiamo portato i club torinesi, dove si suona per tutto il resto dell’anno, per la prima volta all’interno del festival. E abbiamo inventato un festival che si estendesse anche nella nostra regione, il Torino Jazz Festival Piemonte. Era il minimo che potessimo fare, abitando a Torino ed essendo musicisti: chi meglio di noi può avere una conoscenza sul campo della problematica della musica? Però per me la cosa più importante resta il contenuto, un contenuto creativo e impattante per pubblico e musicisti, con una grande attenzione rivolta a primi concerti italiani e produzioni originali.
E anche un occhio per tutto ciò che sta fuori dalla musica, per non essere una cattedrale autoreferenziale nel deserto.

Giorgio Li Calzi
Foto di Alessandro Albert

Dicevamo che sei il direttore artistico del festival CHAMOISic Come è nata l’idea di creare un festival in delle zone, per così dire, impervie?
Ho una casa a Chamois e l’idea del festival è partita dall’ex sindaco di Chamois, Remo Ducly, con l’appoggio di molti amici del posto, tra cui l’attuale sindaco Mario Pucci. Chamois, 1800 m, si trova nella valle del Cervino, ed è l’unico Comune italiano raggiungibile da funivia in cui le macchine non possono circolare. A luglio dovremmo arrivare alla XVI edizione, ma è molto faticoso, perché organizzare festival quando il contenuto non è mainstream, equivale a una corsa a ostacoli. Ho tenuto duro perché ho un team di colleghe e colleghi fantastici.
Nel 2019 Chamois ha ricevuto la Bandiera Verde da Legambiente, per avere lavorato su ambiente e cultura, e nella descrizione viene citato come motivatore il festival CHAMOISic.

Il programma del Chamoisi(c) sicuramente si distingue dalle altre programmazioni. Quali sono i criteri con cui selezioni i progetti musicali che ne fanno parte?
CHAMOISic è un piccolo festival, riesco a malapena a programmare i pochissimi concerti da cui partiamo ogni anno, e purtroppo mi dispiace non riuscire a rispondere alle tante proposte che mi arrivano via mail ogni giorno. Quello che mi piace è cercare sempre di spiazzare il pubblico e di percorrere nuove strade, fuori dai generi e spesso fuori dalla musica. D’altronde non serve fare un festival uguale a tanti altri festival intorno a noi. O almeno, forse servirebbe a me se fosse il mio unico lavoro.

Qual è la risposta del pubblico di fronte a delle proposte non sempre mainstream o popolari?
Il pubblico è meno pigro di quanto si possa immaginare. Prendo spesso in prestito la frase di Oscar Wilde come riferimento: «L’arte non può mai cercare di essere popolare». E’ il pubblico che deve cercare di diventare artistico. Per avere un pubblico artistico ci devi arrivare, devi stimolarlo e alimentarlo, e non violentarlo. Ho sempre cercato di mischiare concerti di natura opposta per creare dialogo.

Vorresti darci qualche anticipazione sulla prossima edizione?
Il piacere di condividere una passione con un pubblico di cui io stesso faccio parte insieme al mio fantastico team è sempre più offuscato dal disinteresse istituzionale.
È abbastanza inutile che mi scervelli per fare un concerto per cani e umani (nell’edizione 2023 con Ramon Moro e Emanuele Maniscalco insieme ai loro cani) o che porti un ensemble pigmeo da una foresta della Repubblica del Congo per l’unico concerto italiano, quando la politica regionale non sembra interessata a un progetto di crescita culturale.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi?
Non so quali possano essere i miei prossimi obiettivi, se non quello di continuare a progettare musica e di seguire la mia famiglia e le mie passioni: ti proporrei di incontrarci fra qualche tempo per fare un punto sulla musica, sulla condizione di chi ci lavora come noi, e su Musica Jazz, che è una rivista che ha saputo evolversi negli anni con intelligenza. Ciao, grazie!
Alceste Ayroldi

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