«Ageless». Intervista a Gabriele Baldocci

Nuovo album per il pianista livornese, naturalizzato britannico. Ne parliamo con lui.

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Buongiorno Gabriele, benvenuto a Musica Jazz. Parliamo subito di «Ageless» e, in particolare, mi incuriosisce il titolo. Potresti spiegarcelo?
Buongiorno Alceste, sono felicissimo di questa tua intervista per i lettori di Musica Jazz. «Ageless», che dà anche il titolo alla traccia principale dell’album, nasce dall’idea di percezione del tempo e dalla sua relativa distorsione. La nostra esperienza del tempo varia notevolmente a seconda del contesto in cui ci troviamo e dell’età che attraversiamo; per esempio, per un bambino il tempo può sembrare scorrere molto velocemente, mentre per un adulto può apparire significativamente più lento. Inoltre, il tempo, che è la dimensione in cui si sviluppa la musica stessa, assume una prospettiva diversa anche in base al legame che abbiamo con determinati ricordi. L’intero album si sviluppa attorno a questi concetti: l’assenza di tempo, la cristallizzazione dei momenti e il fluire del tempo, esplorando le diverse sfaccettature di come il tempo stesso viene percepito e vissuto.

Un album che hai dedicato ad amici o altre figure che sono state per te importanti. Chi sono queste persone e in che modo hanno avuto un ruolo così importante nella tua vita personale o artistica?
«Ageless» è un album che racchiude ritratti musicali, vere e proprie fotografie in musica di persone e luoghi che hanno un significato profondo per me. Ogni brano è un ricordo, un momento, un’affezione trasformati in suono. Tra questi, vi sono omaggi a figure chiave della mia vita: Barbara Luccini, soprano livornese e una delle mie più care amiche, a cui ho dedicato Time and Words, un brano che riflette sulla percezione mutabile del tempo influenzata dai nostri ricordi. Reflections of Rose è invece dedicato alla mia amica, la poetessa e cantante Serena Rose Zerri, mentre Nobleza Gaucha celebra Paolo Virzì, regista che ha segnato l’adolescenza di molti livornesi con il suo film Ovosodo e che sono orgoglioso di considerare un amico. Un brano molto intimo è dedicato a mia moglie Nagore, espressione dei miei sentimenti più profondi. La title track Ageless è un omaggio a Ezio Bosso, esplorando l’idea di come, nonostante il passare del tempo, l’eredità artistica e umana di una persona come Ezio resti immortale e giovane nei nostri ricordi. Inoltre, l’album contiene brani dedicati a Livorno attraverso alcune parafrasi su opere di Pietro Mascagni, e una rielaborazione di Close to Home di Lyle Mays, uno dei miei musicisti preferiti, sottolineando il mio legame con le radici e le influenze musicali che mi hanno formato.

Il piano solo è una sfida, un’opportunità oppure una necessità?
Per me, il piano solo rappresenta una necessità fondamentale, quasi un’estensione di me stesso. È il mezzo attraverso il quale riesco a comunicare le mie emozioni più intime e profonde, il mio modo preferito di interagire e esprimere ciò che sento. Trovo che sia diventato una parte intrinseca di chi sono, avendo dedicato alla musica gran parte della mia vita fin da bambino. La mia connessione con il piano è talmente radicata da sentirlo come un’estensione fisica di me stesso, una relazione che raggiunge il suo apice nelle esibizioni dal vivo, dove mi sento pienamente realizzato e in completo accordo con lo strumento.

Che ruolo ricopre questo lavoro nella tua discografia e nel tuo sviluppo artistico?Questo album rappresenta un punto di svolta significativo nel mio percorso artistico, segnando una riscoperta della gioia e dell’importanza fondamentale della comunicazione attraverso la musica. Ho avuto l’opportunità di esprimere sensazioni che credo siano universali, utilizzando il linguaggio musicale come il mezzo più diretto, onesto e genuino per connettermi con il pubblico. In questo senso, considero “Ageless” come il culmine di un viaggio artistico lungo e appassionato, un’opera che sintetizza l’essenza stessa della mia espressione estetica e riafferma il mio impegno nel condividere esperienze e emozioni profonde attraverso la musica.

Parliamo di te. Qual è il tuo background culturale?
Sono nato a Livorno, una città affacciata sul mare, di dimensioni provinciali, che però ha avuto il merito di creare in me un positivo senso di irrequietezza che mi ha spinto a guardare sempre più in là. Da bambino, ho trovato in casa un vecchio pianoforte e, sebbene non provenissi da una famiglia di musicisti ma piuttosto da un ambiente operaio, sono stato esposto a una vasta gamma di generi musicali grazie alla collezione di dischi di mio padre. Questa collezione, che spaziava dal jazz al rock progressivo fino alle sinfonie di Beethoven, ha plasmato in me un approccio alla musica di larghe vedute. Negli anni della mia infanzia sono stato costretto in casa per molti anni da una malattia autoimmune. L’isolamento forzato, in un’epoca in cui le distrazioni erano molte meno di quelle dei nostri giorni, mi portò a leggere moltissimi libri che, per la noia, prendevo dalla biblioteca di mia mamma. Ho sempre, inoltre, coltivato un grande interesse per le filosofie orientali, il cui approccio basato sulla consapevolezza e sulla fusione tra ciò che è umano e ciò che è divino ha plasmato moltissimo la mia concezione del mondo. Inoltre, da grande appassionato di cinema d’autore, mi interfaccio con la musica in maniera fortemente visionaria, sia in senso astratto che sensoriale.

Hai inciso in duo con una grande personalità del mondo della musica classica: Martha Argerich. Vorresti dirci come è andata?
La mia collaborazione con Martha Argerich ha rappresentato un vero e proprio punto di partenza nella mia carriera; lei è una figura di riferimento ed un’amica imprescindibile, a cui devo molto di ciò che sono oggi come artista e come persona. Circa vent’anni fa, mi presentai al concorso che organizzava a Buenos Aires come studente, solo per stringerle la mano, senza immaginare l’impatto che quell’incontro avrebbe avuto sulla mia vita. Martha fu la prima personalità del mondo della musica classica a credere in me, onorandomi con una tournée in Argentina, che poi aprì la strada a moltissime altre esecuzioni insieme, e ad una grande amicizia che va avanti da allora. Suonare al fianco di una leggenda del pianoforte come lei è stato un sogno realizzato. Da Martha ho imparato l’importanza di essere liberi dai preconcetti e ho assorbito il suo insegnamento sul valore della generosità, non solo come virtù personale ma come elemento fondamentale nel mettere la propria arte a disposizione di altri artisti meno fortunati e della società in generale. È stata proprio Martha a incoraggiarmi a improvvisare dal vivo e a condividere le mie composizioni, insegnamenti che hanno segnato profondamente il mio percorso artistico. Le sono profondamente grato per tutto ciò.

Invece, ci vorresti parlare della genesi dell’album «Sheer Piano Attack», che ha avuto un eccellente successo?
L’album «Sheer Piano Attack» è nato da un’idea quasi giocosa: mi sono chiesto cosa sarebbe accaduto se Franz Liszt, invece di ispirarsi ai suoi contemporanei come Wagner o Verdi per le sue virtuosistiche trascrizioni, avesse avuto a disposizione la musica dei Queen. Questa riflessione mi ha spinto a creare una serie di parafrasi in stile quasi tardo romantico di brani dei Queen, seguendo l’esempio di Liszt. Il progetto si è poi arricchito di collaborazioni con compositori contemporanei di stili anche molto diversi tra loro, ai quali ho commissionato altri brani basate su pezzi dei Queen. L’album ha riscosso un grande successo, specialmente nelle sue esibizioni dal vivo, ed è stato emozionante osservare come sia il pubblico classico che gli appassionati di musica rock abbiano apprezzato e compreso il valore culturale di questa operazione, che ha ricevuto anche il plauso e la promozione degli stessi membri della band.

Come è nata la tua collaborazione con Anthony Phillips?
La mia collaborazione con Anthony Phillips è nata grazie ai miei legami con il mondo del rock progressivo, in particolare attraverso la mia esperienza con la band The Gift a Londra. Tra me e Ant si è subito creata una forte sintonia, che ha dato vita a una grande amicizia. In quel periodo, ero impegnato in una tournée con Martha Argerich e ho proposto ad Ant di collaborare alla composizione di un brano da eseguire in duo con Martha. Il pezzo, scritto da Ant, e da me trascritto per due pianoforti, si intitola Gemini ed è stato presentato in prima mondiale durante il nostro tour in Spagna nel 2018. Spero vivamente di poter collaborare nuovamente con Anthony, che considero non solo un musicista di infinito talento, ma anche un caro amico.

Qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
L’improvvisazione occupa un posto centrale nella mia vita musicale e rappresenta una vera e propria passione. Fin da bambino, l’improvvisazione è stata per me una sorta di seconda natura, un modo spontaneo di esprimere la mia creatività. Tuttavia, l’approccio all’improvvisazione pubblica è qualcosa a cui mi sono dedicato più intensamente solo negli ultimi anni, in parte grazie anche all’incoraggiamento di Martha Argerich, che mi ha esortato a condividere con gli altri quello che per decenni era per me un «vizio segreto». Il mio stile di improvvisazione è profondamente personale, arricchito dalle influenze dei numerosi generi musicali che ho esplorato nel corso degli anni. Nella mia improvvisazione, si intrecciano elementi di musica classica, sfumature di jazz, e tocchi di pop, creando un linguaggio molto personale e facilmente identificabile. Credo fermamente che l’improvvisazione sia un momento in cui riesco a dare il meglio di me, specialmente quando sono in contatto diretto con il pubblico. È proprio in queste occasioni che si genera un’energia invisibile, un dialogo non verbale tra me e gli ascoltatori, che trovo sia uno degli aspetti più affascinanti e gratificanti della performance dal vivo. L’improvvisazione, guidata dal pubblico stesso, è diventata una componente essenziale dei miei concerti. Non è raro che mi cimenti in ritratti musicali improvvisati di volontari del pubblico in sala, una forma di performance creativa che mi gratifica moltissimo e che mi permette di rafforzare il contatto con gli ascoltatori.

Mi sembra che tu abbia un legame profondo con le tue radici, con Livorno. Mi sbaglio?
No, non ti sbagli affatto: Livorno ha rappresentato per me una città di grande importanza, con cui ho intrattenuto un rapporto complesso di amore e odio per molti anni. Questo perché, soprattutto all’inizio della mia carriera, quando già mi esibivo in tutto il mondo, sentivo di non ricevere il riconoscimento desiderato nella mia città natale, come se fossi in qualche modo trascurato, e ciò mi produceva grande sofferenza. Da quasi dodici anni mi sono trasferito a Londra, e con il tempo ho riscoperto un legame profondo con Livorno. Oggi posso dire di aver fatto pace con la mia terra e, anzi, amo ritornarci. La mia identità livornese, lo spirito genuino e smaliziato della città, è ancora vivido dentro di me: il cuore impregnato di salmastro continua a battere forte. Dunque, il mio amore per Livorno è ormai un sentimento profondo e radicato.

Qual è il tuo rapporto con il sistema dell’industria musicale? Cosa ritieni che sia sbagliato?
Il mio rapporto con l’industria musicale è piuttosto complesso. Se da un lato, la mia linfa vitale viene dall’esibizione sui palcoscenici e dal contatto con il pubblico, dall’altra negli ultimi anni ho scelto di collaborare esclusivamente con persone che arricchiscono la mia vita. Questo mi ha portato a circondarmi quasi esclusivamente di amici, sia all’interno dello staff che lavora con me sia nella sfera professionale più estesa. Questa strategia si è rivelata la via ottimale per navigare in un ambiente che, senza le giuste precauzioni, può diventare tossico e sfiancante. L’industria musicale è popolata sia da personaggi incredibilmente stimolanti, che da figure con cui spesso non è piacevole interagire. Credo che sia sbagliato, soprattutto per i musicisti emergenti, sentirsi costretti a scendere a compromessi troppo onerosi specialmente dal punto di vista psicologico, o a rincorrere costantemente il potente di turno. Per me, ciò che conta veramente sono i valori che una persona incarna, sia in termini di qualità umana che musicale. Sono convinto che privilegiando questi aspetti, sia possibile fare la differenza e portare un po’ di luce in un mondo che, in certi ambiti, rischia di esser talvolta caratterizzato da una forte competitività e da una certa ferocia.

E quello con le tecnologie?
Il mio rapporto con la tecnologia è decisamente orientato verso il futuro. Sono affascinato dalla scoperta di nuove tecnologie, in particolare dall’intelligenza artificiale e dal suo potenziale impatto sui processi creativi. Ritengo che la tecnologia non debba e non possa sostituire la creatività umana; tuttavia, apprezzo ogni strumento che possa amplificare la nostra capacità espressiva. Accolgo quindi con entusiasmo le tecnologie che ci consentono di esprimere al meglio il nostro potenziale e di contribuire a migliorare il mondo. D’altro canto, sono critico nei confronti delle tecnologie che inducono alla pigrizia, che ci rendono dipendenti e che appiattiscono la nostra individualità.

Quali sono i tuoi prossimi impegni e quali obiettivi ti sei prefisso?
 miei prossimi impegni includono la finalizzazione di un nuovo album, che è già in fase avanzata, con brani interamente dedicati al tema dell’infanzia. Sono molto entusiasta all’idea di condividerlo con il pubblico. Inoltre, ho in programma un tour italiano, che sarà annunciato prossimamente, durante il quale presenterò “Ageless” su diversi palcoscenici. I miei obiettivi rimangono quelli di promuovere una musica che trascenda i generi, credendo fermamente nella fluidità e nella trasversalità della bellezza musicale. Essere fedele a me stesso e scrivere ciò che naturalmente scaturisce dal mio sentire, anziché seguire necessariamente logiche commerciali o di mercato, è per me fondamentale, e finché il pubblico continuerà a dimostrarmi il suo affetto, io continuerò a contraccambiarlo con il mio umile contributo.
Alceste Ayroldi

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