Intervista a Furio Di Castri

Il contrabbassista milanese sarà in scena al Firenze Jazz Festival il 14 settembre con il suo progetto Zapping. Di seguito un breve estratto dell’intervista che sarà pubblicata prossimamente sulla rivista Musica Jazz.

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Iniziamo subito con la tua prossima esibizione a Firenze. Cosa porterai sul palco del Firenze Jazz Festival?
Zapping è un gioco di ruoli. Cosa avrebbe potuto scrivere Frank Zappa se gli avessero commissionato brevi spot su Thelonious Monk, con iniezioni di Soul, Rhytm and blues, Jimi Hendrix e Nouvelle Vague?
Un progetto di sintesi, un vero e proprio zapping tra un canale e l’altro, visto principalmente come tributo a uno dei più grandi geni della musica del Novecento ma anche come provocazione verso un mondo in cui tutto è uniformato secondo stili e linguaggi di genere e dove il senso del gioco in musica è ormai patrimonio di pochi visionari. E poi è una ricorrenza particolare: cinquant’anni fa, in questa stessa piazza, ho fatto il mio primo non-concerto di jazz.
Era il 1974 e Don Cherry, che per un caso fortuito era senza bassista, mi aveva invitato a raggiungerli a Firenze e suonare con loro così, sulla fiducia. Anche se non ero nessuno, suonavo il contrabbasso abbastanza bene per potere salmodiare dei mantra in Re minore per un paio d’ore o più. Mi doveva chiamare dopo il primo pezzo, ma non lo ha fatto: peccato che questo silenzio è durato tutto il concerto. E il mio contrabbasso è rimasto da solo sul palco, sdraiato su un bel tappeto e illuminato da deliziosi faretti rosa. Non se ne è nemmeno accorto… alla fine mi anche detto: «Sound good, man!». Potere delle sostanze psicotrope. Un ritorno, questo in Piazza del Carmine, che chiude un cerchio rimasto aperto molto a lungo.

Hai dedicato un progetto anche a Joe Henderson. Qual è stato il tuo rapporto con lui e quale la sua influenza sulla tua visione della musica?
Con Joe ho avuta la fortuna di suonare varie volte, sempre nel 1988. Prima in quintetto con Enrico Rava (c’erano Paul Motian e John Taylor) e poi in trio con Tony Oxley. Credo che il primo tour fosse a maggio e il secondo, in trio, a luglio. Joe era un appassionato di storia contemporanea. Passavamo ore a parlare della seconda guerra mondiale… La musica veniva da se, non c’erano prove, soltanto una lista di sette o otto pezzi che Joe amava suonare in trio, da Power to the People a Inner Urge o Good Morning Heartache. Il tributo che portiamo in giro oggi con Emanuele e Enzo ripercorre l’approccio libero e semplice che ho appreso in quegli anni: non importa cosa suoni, ma come lo fai. L’essenza del jazz.

Furio Di Castri
Foto di Toni Laminarca

Altro tuo importante progetto è Zapping: ce ne parleresti?
In un momento in cui tutto è standardizzato secondo «progetti» e i musicisti si ritrovano a dovere produrre musica come fossero ingegneri o geometri, Zapping torna alle origini della mia adolescenza, in cui la musica era solo bella o brutta. Se ti piaceva una melodia o un riff, questi ti restavano impressi e li cantavi per ore. Non facevamo alcuna distinzione tra pop, rock, jazz o soul: dischi come «Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band»,  «Filles de Kilimajaro» o «Electric Ladyland» erano tutti sullo stesso piano. Per questo ho preso Zappa come riferimento ipotetico… Perché in lui c’è tutta la musica del novecento – ironia, serietà e una organizzazione strumentale mostruosa.

Un altro tuo bel progetto è Furious Mingus. Quali sono gli aspetti della musica di Mingus che ti hanno maggiormente influenzato?
Nella storia del jazz Charles Mingus può essere considerato un outsider come Frank Zappa lo è stato nella storia del rock. In lui non c’è solo il contrabbasso, ma l’arte della composizione. Convivono Debussy e Duke Ellington, la musica dei mariachi e il blues, la narrazione musicale e il ragtime, il free jazz e il gusto della provocazione. Vederlo e toccargli la mano nel 1976 è stata una folgorazione. A quell’epoca pensavo solo a Mingus e Zappa: diavolo, me ne sto ricordando solo adesso. Erano i miei miti.

Quali sono state le tue collaborazioni che ti hanno maggiormente colpito?
Tutte quelle che hanno fatto un po’ di storia: da Massimo Urbani a Enrico Rava, Petrucciani, John Taylor, Konitz, Chet e PAF. E poi tutti gli incontri one shot come quelli con Michael Brecker, Freddie Hubbard o Jimmy Smith… roba da cardiopalma.
Alceste Ayroldi

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