«Baritune». Intervista a Filippo Cosentino

Il musicista piemontese ci parla del suo lavoro dedicato a uno strumento insolito come la chitarra baritona, che lo ha spinto a trovare nuove strade compositive ed esecutive e a restare sempre con la mente aperta tra modernità e tradizione.

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Filippo, inizierei con il parlare del tuo album «Baritune» e, in particolare, della tua passione per la chitarra baritona. Come è iniziata?
«Baritune» è per me un disco importante sia per la qualità delle musiche registrate che per l’etichetta prestigiosa per la quale è inciso e pubblicato, e ringrazio infinitamente Incipit/EgeaMusic per questa possibilità. È un album che arriva dopo tanti anni dedicati alla chitarra baritona, con lavori discografici ed editoriali fra i quali un metodo pubblicato da Volontè & Co., ma non mi ero mai avvicinato alla profondità di questo strumento come in «Baritune». Sono estremamente soddisfatto del risultato che ascolto, ho potuto lavorare sulle melodie in maniera approfondita, variare le tecniche esecutive, esprimere completamente la gamma sonora dello strumento. La passione per questo strumento è nata da un’esigenza: ho sentito la necessità di andare in profondità, di scavare dentro di me. Gli abissi nascondono ricchezze che non immaginiamo.

Visti i numeri che sta realizzando – sia negli ascolti, che nei download – è un successo. Te lo aspettavi, tenendo conto che si tratta di un lavoro in solo?
Sono felice che la mia musica abbia emozionato chi l’ha ascoltata e ha deciso di comprare il disco: il ringraziamento va al pubblico che mi segue e apprezza. Incidere per un’etichetta prestigiosa come Incipit/EgeaMusic è un privilegio, e mi ritengo fortunato ad aver avuto questa possibilità. È stato fatto un grandissimo lavoro comunicativo, quindi ringrazio anche il mio ufficio stampa. I risultati non si raggiungono mai da soli e la possibilità di sapere di essere appoggiati e supportati porta sicuramente a risultati positivi. Per me è stata una sorpresa scoprire il mio disco in classifiche insieme ai miei idoli. Riguardo lo stupore, direi di no e sarò sincero: per me non c’è differenza se un disco è in solo, in duo, trio, orchestra. Contano le emozioni e la capacità comunicativa, o se vogliamo evocativa, della musica. Si tratta di essere empatici con il proprio pubblico: dal vivo lo si capisce quando c’è totale silenzio in sala, con il pubblico attento ad ascoltare.

A tal proposito, quello di incidere da solo poteva essere un azzardo. Hai mai avuto ripensamenti in tal senso? Ti è mai venuto in mente che poteva essere un azzardo dal punto di vista commerciale?
No, nessun ripensamento. Ho agito con una visione di insieme ampia, mettendo al centro il suono della chitarra baritona e trovando il modo più adeguato di comporre o arrangiare i brani per questo strumento, per far si che trasparisse all’ascolto la varietà timbrica che avevo a disposizione.

Da chitarrista poliedrico quale sei, qual ritieni sia il valore aggiunto della chitarra baritona?
Con l’accordatura giusta, ha le frequenze migliori della chitarra tradizionale con l’aggiunta di bassi più profondi e performanti. Si discosta parecchio dalla tradizione liutistica dalla quale inevitabilmente deriva parte del repertorio della chitarra tradizionale e quindi le strade sono tutte aperte: serve pensare a trecentosessanta gradi, con mente aperta, e capire che cosa funziona e cosa no. La baritona coniuga i miei studi conservatoriali e di tanti anni sulla chitarra e la mia passione per il basso elettrico, strumento che suono da quando ho quattordici anni. Un buon modo per capire quanto dico qui è ascoltare Antes de decir adiós, brano di apertura del disco.

Tra i tuoi brani c’è un omaggio a Pat Metheny con One Quite Night. È stato lui la tua fonte di ispirazione per questo lavoro?
Come molti altri grandi, lui è l’ispirazione di molte cose. Conosci bene il mio percorso artistico essendoti occupato – e ti ringrazio molto – di recensire vari dei dischi precedenti, e come sai il suono acustico è sempre stato una delle mie caratteristiche principali sin dall’inizio. In questo senso, insieme ad altri grandi artisti e gruppi come gli Oregon, Metheny è stato fonte di ispirazione. Secondo me Rejoicing è uno dei suoi dischi più significativi da cui ho trascritto parecchie cose. Il mio approccio verso la sua musica è legato alla comprensione e sviluppo dei processi melodici e compositivi, anche del PMG insieme al grandissimo Lyle Mays: trovo che su questo fronte ci sia da studiare per anni.

Invece, parlando dei tuoi brani originali, sono stati composti utilizzando direttamente la chitarra baritona, oppure li hai successivamente arrangiati?
I brani originali sono stati scritti tutti direttamente su chitarra baritona. Non tutte le soluzioni adottate sulla chitarra standard suonano bene una volta trasposte sulla baritona, quindi preferisco direttamente pensare in maniera dedicata. Il modo in cui la uso ne fa uno strumento nuovo, diverso: uso le corde centrali accordate un’ottava sopra, quindi cambia anche la tecnica di esecuzione perché la melodia non è più sulle prime due corde bensì sulle centrali, e le precedenti servono per suonare l’armonia. È come suonare clarinetto e sassofono: anche se la famiglia è la stessa, la tecnica è diversa. Scrivere al pianoforte invece è abbastanza simile, anche dal punto di vista timbrico, così per sviluppare voicing e arrangiamenti spesso passo prima dal piano.

Ci sono due brani che ricordano sia le tue origini, che il tuo amore per l’Italia: Antes de decir adiós e Fields of wheat; un aspetto che non trascuri mai nei tuoi lavori discografici. Non sei uno di quei musicisti «americani» a tutti i costi, di quelli che ritengono che il jazz sia appannaggio solo degli statunitensi. In termini di visibilità commerciale, ritieni che questa tua peculiarità sia un vantaggio o uno svantaggio?
Si sente, vero? Come diciamo spesso, il jazz è un linguaggio universale, come lo era nel 1700 scrivere una sonata per pianoforte: c’era una grammatica precisa, lì si parla addirittura di cristallizzazione del processo compositivo. Il jazz ci insegna a esprimere in maniera universale le idee musicali in maniera che diventino fruibili ovunque: è un regalo immenso, un dono come lo sarebbe parlare tutti la stessa lingua nella vita quotidiana. Trovo giusto esprimere quello che è il mio retaggio culturale e lo faccio con un linguaggio attuale come quello del jazz, ma i contenuti che presento sono quelli della mia tradizione. Essere consapevoli del patrimonio culturale a cui si appartiene è sicuramente un vantaggio, perché la cultura della propria terra si appiccica alla pelle come un tatuaggio. Ammiro tantissimo il jazz dei musicisti jazz americani e al tempo stesso loro ammirano la cultura musicale italiana ed europea. Spesso c’è l’occasione di parlarci e scambiare opinioni: è giusto che ognuno possa esprimere al meglio la propria tradizione. Non sono mai stato bravo a fare imitazioni, devo fare quello che mi riesce meglio.

Tra i brani apocrifi, troviamo anche Lascia ch’io pianga di Händel. Cosa c’entra Händel con la chitarra baritona?
È una domanda curiosa ma estremamente pertinente e ti ringrazio per avermela posta. Trovo il suono della chitarra baritona accordata nella maniera in cui la utilizzo, molto simile al clavicembalo. Da qui nasce l’arrangiamento. Collegandomi alla domanda precedente, l’ho scritto adattando l’armonia al linguaggio jazz pur mantenendo intatto il tema e l’interpretazione che ho cercato di rendere il più pertinente possibile, nonostante che più di trecento anni separino questa incisione dalla composizione dell’Aria.

A distanza di pochissimo tempo è uscito anche un altro tuo lavoro: «Leave the thorn, take the rose». Non ti sembrano un po’ troppi due dischi pubblicati a stretto giro?
Negli anni Sessanta era normale pubblicare anche tre dischi in un anno. Sono dischi completamente diversi con repertori e linguaggi molto distanti fra loro. È piuttosto una casualità, frutto di un anno e mezzo di lavoro e ricerca per quanto riguarda questo specifico disco. Ringrazio particolarmente la DaVinci Publishing per avermi dato la possibilità di confrontarmi con un repertorio che adoro, quello barocco, e soprattutto per avermi dato fiducia perché è un terreno piuttosto difficile, si tratta di rimettere mano a opere d’arte.

Un disco che, apparentemente, è di tutt’altra pasta. Anche se, vista la track-list, traspare il tuo amore e interesse per la musica classica. Da dove nasce?
Dai miei studi di chitarra classica, da due lauree in musicologia e dall’ammirazione che ho per qualsiasi cosa bella, che sia Bach o Banksy. Il barocco poi è un periodo di estremo sviluppo della musica che grazie all’arte dei compositori dell’epoca è andata in diverse direzioni contemporaneamente. Prova ne è la grande varietà di composizioni dedicate ai più disparati ensemble e all’Opera anch’essa in un periodo di rivoluzioni e espansione espressiva; ad esempio Pergolesi si stava affermando come un grande compositore per l’Opera Buffa. Ovviamente questa ricchezza era anche frutto di una società dinamica: qui in Italia abbiamo vari esempi da nord a sud anche architettonici, letterari e figurativi dell’eredità del barocco. Siamo fortunati.

Qui, invece, troviamo una nutrita line-up. Ci vorresti parlare dei tuoi compagni e, anche, dei motivi per cui hai scelto proprio loro?
Spesso nel barocco i musicisti provenivano da una stessa area geografica, si valorizzava parecchio il tessuto culturale di un territorio e così ho deciso per questo disco di scegliere esclusivamente musicisti della provincia di Cuneo:  ho voluto rendere omaggio alla provincia nella quale ho deciso di abitare, stabilirmi e fare cultura anche con questa scelta. Il disco poi è stato registrato nel mio studio, il DragonflyStudio ad Alba, in provincia di Cuneo.

Perché rileggere dei brani di musica classica in chiave jazz e flamenco?
Ci sono molteplici modi di rispondere e ne scelgo due. Il primo è legato a una esigenza personale: passiamo moltissime ore a studiare, comporre, ascoltare musica, e volevo rendere omaggio con il mio linguaggio a uno dei periodi storici più interessanti; il secondo è la voglia di rendere attuale un repertorio che a volte può sembrare distante ai più giovani oggi. La cosa migliore che si può fare è ascoltare il mio disco e poi le versioni integrali: si scopre che ogni composizione originale è di una modernità incredibile e così è stato immediato pensare al flamenco una volta affrontata la Ciaccona in Fa minore di Pachelbel.

Come hai agito in fase di arrangiamento?
Prima di tutto ho cercato di selezionare i tratti salienti di una idea tematica dell’opera originale. La parte difficile è stata adattare il tutto ai miei colori, non mi volevo snaturare e volevo mantenere la mia identità nonostante mi confrontassi con opere d’arte. Ho poi assecondato i temi cercando di capire quali suoni e colori si adattassero meglio. E cosi ho capito che non aveva senso un adattamento diverso da quello che ho fatto per la BWV 552 di Bach a sua volta arrangiata da Schoenberg per orchestra: dovevo fare qualcosa di diverso, sia per rispetto ai Maestri che per trovare la mia versione. Nasce così un brano molto intimo, chitarra e tromba che ho scelto anche come apertura del disco perché è una porta per entrare in questo mondo, in punta di piedi, come ho fatto io.

C’è un brano, tra tutti, che reputi sia già particolarmente adatto all’arrangiamento che hai disegnato?
Calipso Bach è il mio preferito. Il tema è una elaborazione della Sarabanda BWV 995 che ho arrangiato per chitarra jazz sola e si ascolta prima del brano in questione. Non avevo mai scritto un calipso e ho trovato una grande affinità fra il tema originale della Sarabanda e questo ritmo, è stato naturale

Hai riservato uno spazio, in particolare, a Claudio Monteverdi. Perché proprio lui?
Monteverdi è un faro costante, un genio musicale che il mondo ci invidia. È stato capace di scrivere realmente nuova musica andando spesso controcorrente rispetto a quello che oggi definiremmo mainstream. Contemporaneo di altri grandissimi compositori come Peri, Caccini, Frescobaldi, trovo la sua musica sempre fresca, nuova, elegante, fonte di ispirazione. Era difficile comprimere il libro di madrigali che racchiude il Lamento di Arianna e così ho preferito arrangiarlo in due modi differenti: il primo in trio e il secondo mischiando i temi che si intrecciano lungo tutto i madrigali del Libro VI.

Quando componi hai dei riferimenti letterari in mente?
Dipende, molto spesso si e altre volte sono influenzato dall’ambiente nel quale vivo o di cui ho esperienza. A livello letterario sono attratto dai racconti o meglio resoconti storici di Erodoto, interessandomi parecchio il discorso legato alle origini e alla cultura del Mediterraneo ma guardo molto anche alla cultura d’oltreoceano o asiatica.

Filippo, chi è stato colui o colei che ti ha insegnato di più?
Vengo da una famiglia di lavoratori, il miglior insegnamento è stato vivere in una famiglia che ha avuto rispetto della cultura del lavoro. Questo mi ha reso una persona con i piedi ben saldi per terra, umile.

Tu svolgi anche attività didattica e sei anche il direttore artistico di alcune rassegne. Come hai affrontato il periodo di lockdown e quali sono le prospettive future?
Durante la fase di chiusura abbiamo mantenuto costanti i rapporti con i comuni con cui abbiamo delle collaborazioni per la produzione di eventi culturali e ho cercato di aggiornarli costantemente sugli sviluppi. Siamo stati così in grado di presentare un programma artistico già a fine maggio, continuando e migliorando la valorizzazione del tessuto culturale della nostra zona. Per quanto riguarda i concerti annullati, ci siamo impegnati laddove possibile a offrire date di recupero o in alternativa la certezza dell’inserimento nella programmazione 2021. Non sono abituato a guardarmi indietro e anche in questa occasione il primo pensiero è stato quello di rivolgere lo sguardo a una possibile fine della condizione che stavamo vivendo. Riguardo la didattica ha premiato sicuramente la scelta fatta in tempi non sospetti di offrire online i servizi che abbiamo offline, non è facile fare imprenditoria culturale ma non lo è qualsiasi attività imprenditoriale: serve programmazione, visione di insieme e capacità di adeguarsi alle esigenze del momento.

Dopo due dischi in rapida successione, cosa è scritto nell’agenda di Filippo Cosentino?
Recuperare i concerti posticipati al 2021, trovare ulteriori occasioni di promozione dal vivo dei miei lavori «Baritune» e «Leave the thorn, take the rose». Inoltre sarà pubblicato il mio nuovo libro per chitarra che ho scritto in questi mesi, e continuo l’attività di composizione di colonne sonore per produzioni sia italiane che statunitensi.
Alceste Ayroldi

Articolo pubblicato su Musica Jazz dicembre 2020