Fabio Delvò è un sassofonista sì legato alla tradizione, ma con uno sguardo molto più ampio che lo porta verso coordinate d’avanguardia e sperimentali. Il suo ultimo disco si intitola «The Crocodile Embalsers» ed è stato inciso in quartetto. Lo abbiamo intervistato per saperne di più.
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In una tua foto recente in cui compari assieme al sassofonista Steve Coleman. È uno dei tuoi ispiratori, oppure un semplice riferimento tra i tanti?
È uno di quei mostri sacri che parecchi anni fa hanno cambiato il mio punto di vista rispetto allo swing classico. Poi, nel frattempo, ho avuto anche altre influenze, ma è stato Coleman con il suo M-Base a portarmi verso la modernità. Parliamo oramai dei primi anni Novanta.
Hai cominciato giovanissimo a suonare il sassofono. È stato il tuo primo strumento?
Pensa che c’è chi dice che ho cominciato tardi! La prima volta che ho imbracciato il sassofono è stata a diciannove anni, quindi abbastanza avanti. Lo strumento era un regalo di mia madre. In verità ho iniziato a suonare alle elementari, perché frequentavo una scuola privata e nel pomeriggio studiavo il flauto. Il mio insegnante di allora suonava anche il sax tenore, e credo che mi venga da lui il cosiddetto imprinting. A dodici anni ho dato un esame al liceo musicale di Varese e, su indicazione di un maestro di allora, finii controvoglia a studiare l’oboe. Dopo diverse vicissitudini lasciai perdere e passai al sax regalato da mia madre.
Come hai proseguito gli studi? Da autodidatta o sei andato a lezione?
Mi considero completamente autodidatta. All’inizio comprai un manuale e imparai tutto da solo, facendo anche tutti gli errori del caso, come quello dell’imboccatura. Poi una sera mi capitò di recarmi in un locale ad ascoltare un gruppo il cui genere musicale non saprei definire, ma che aveva un sassofonista. Scambiai qualche opinione con quest’ultimo, e in seguito frequentai per due mesi una scuola fuori Varese per capire se le mie posizioni allo strumento erano giuste. Finita questa esperienza – avevo diciannove anni – sono andato avanti da solo per parecchio tempo ascoltando dischi, parlando con i musicisti e comprando metodi didattici. Poi ho incontrato un sassofonista che mi ha consigliato di ascoltare Wayne Shorter e il suo «Adam’s Apple»: è stata una vera folgorazione. Così ho continuato a studiare da solo, tranne per un breve intervallo presso la scuola CEMM di Milano, dove mi sono anche diplomato. Lì ho incontrato il sassofonista Biagio Coppa, che è stato per alcuni anni il mio insegnante e che per un breve periodo mi ha anche ospitato nella sua orchestra, la Flight Band. Nel corso del tempo ho fatto uno stage con Steve Lacy e un corso Berklee a Umbria Jazz nel 1995.
La tua evoluzione musicale è partita dal jazz tradizionale per poi giungere ad un jazz più libero ai limiti del free.
Si, la mia evoluzione è andata così, da Charlie Parker a Phil Woods, anche se quello che faccio adesso non so se sia proprio free. Quello che suono adesso è un jazz molto codificato ritmicamente, anche se c’è un buon margine di libertà nelle progressioni armoniche. Il centro tonale c’è quasi sempre. A conferma di quanto detto, nel mio ultimo disco «The Crocodile Embalsers», ho scritto tutte le parti degli strumenti. Poi succede che, mentre il basso legge quello che ho scritto, la batteria conserva un suo autonomo margine creativo. Comunque ho anche un gruppo Swing, nel senso che faccio delle serate in cui suono standard e mainstream. Suono il contralto, il soprano e ultimamente anche il tenore. I primi anni in realtà non amavo particolarmente il sax alto e cercavo di suonarlo come un tenore. Mi ostinavo a fare così perché mi piaceva trovare una soluzione a quello che vedevo come un problema. Adesso invece, che l’ho scoperto in tutta la sua estensione, mi piace suonarlo più di prima. I miei ascolti musicali vanno da Kid Ory all’inossidabile Miles Davis, e arrivano al jazz di oggi.
Hai ancora in piedi il tuo quartetto nella Repubblica Ceca?
Il quartetto esiste ancora, ed è un’occasione più cameristica. Con questo gruppo ho registrato il disco «Roots». Suono da tanti anni con il polistrumentista Radim Hanousek. Poi ci sono Edgar Mojdl che suona il theremin e una violoncellista russa che vive nella Repubblica Ceca, Dina Kadysheva. Ho in cantiere un secondo disco con loro, ma devo decidere quando registrarlo. Vorrei aggiungere un percussionista e farlo un po’ meno cameristico e un po’ più jazz. Ho anche un altro gruppo, l’ARKÈ Trio, con cui facciamo un jazz più semplice e «ascoltabile», diciamo così.
Hai pubblicato cinque dischi da leader, giusto?
Sì, esatto. Il mio esordio da leader è stato «DNA». È stato registrato nel 2009 e pubblicato nel 2012 con il mio primo quartetto, in cui c’era anche Biagio Coppa. Il secondo lavoro, «Rastplatz», era una sorta di evoluzione del precedente. Poi è venuto «Con gli occhi di mia madre», un disco personale che non ha avuto pubblicazione. Ho regalato le copie solo alle persone care. «Roots» è il quarto progetto, quello di cui ho parlato poco prima, mentre «The Crocodile Embalsers», con il gruppo Fellows, è il mio ultimo lavoro. È una nuova formazione. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda, condividiamo le stesse idee sia sulla musica scritta che su quella improvvisata. Questo è confermato dal fatto che abbiamo registrato il disco dopo soltanto un paio di prove e un live. I Fellows sono Giancarlo Tossani al pianoforte, Stefano Dallaporta al contrabbasso e Andrea Grillini alla batteria.
Gli otto brani di «The Crocodile Embalsers» sono tutti scritti da te?
Sì, sono tutte mie composizioni. Exotic Circus e The Crocodile nascono da un’unica improvvisazione che è stata divisa in due pezzi diversi.
E si tratta di un album autoprodotto?
La DF Records è un’etichetta che ho messo in piedi tempo fa. Anche altri colleghi fanno autoproduzione, e io sono d’accordo. A gestirla siamo un piccolo collettivo, e ci piacerebbe pubblicare anche lavori di altri musicisti, chiaramente scelti e curati come si deve. Mi piacerebbe farla funzionare al meglio, ovviamente mantenendone l’indipendenza.
Flavio Caprera