«Arabesque». Intervista a Elisabetta Guido

Nuovo album per la vocalist e compositrice salentina. Ne parliamo con lei.

20821
Elisabetta Guido © Roberto Cifarelli

Buongiorno Elisabetta, piacere di rivederti. Parliamo subito del tuo ultimo lavoro «Arabesque». Innanzitutto, perché hai voluto dare questo titolo? Anche a fronte del fatto che non vi è un brano eponimo.
Buongiorno Alceste, il piacere è mio. Arabesque perché è il nome di una delle più note figure della danza classica, molto femminile, come al femminile sono le storie che scrivo, i testi dei miei brani, sin dal mio precedente album. Descrizioni di particolari indoli femminili o descrizione delle loro storie, d’amore e non. Solo una traccia si distingue nel disco, perché parla della storia di mio padre e della chitarra che costruì’ con dei fiammiferi.

Possiamo dire, senza dubbio, che questo è il tuo disco, visto che hai firmato praticamente ogni composizione e testo, fatta eccezione per La chitarra di fiammiferi A Wish. Non solo, ma sei anche la produttrice. E’ la prima volta che agisci da “cantautrice”?
In realtà mi sono cimentata per la prima volta come autrice nel mio precedente album, «The Good Storyteller». Ed ho scoperto che è la mia dimensione ideale. I momenti in cui scrivo sono fra i più belli della mia vita, non esagero. Riesco ad esprimere me stessa ed allo stesso tempo lenisce i miei dolori, mi prende d’istinto, mi guarisce. Ad esempio in pandemia la composizione ha avuto una funzione in molti casi catartica. Oltre a tenermi impegnata in qualcosa di fortemente stimolante, mi portava con la mente verso atmosfere più leggere e serene. Non a caso ho prediletto le tonalità maggiori ed i ritmi come il samba. O testi allegri come quello che ho aggiunto alla composizione del nostro sassofonista Mirko Fait Sempre per te vivrò.

Qual è stata la genesi di «Arabesque» ?
Ho iniziato a scrivere per «Arabesque»  nel 2019 e devo dire che lo stimolo è stato il mio trio con Mirko Fait e Martino Vercesi e la voglia di “suggellare” con un disco lo splendido feeling umano e professionale che abbiamo fra noi. Mi stimolava poi molto il sound nuovo per me del voce e chitarra, con la voce scopertissima e dunque con un risultato anche emozionale che sapevo sarebbe stato perfetto per le mie composizioni, in cui tento sempre di trasmettere le mie sensazioni attraverso l’uso di armonizzazioni particolari, modulazioni o tensioni negli accordi o del ritmo, che è anch’esso, secondo me, espressione di un sentimento.

In buona parte dei nove brani presenti nel disco il testo è in lingua italiana. Non pensi che ciò possa essere un limite per la divulgazione anche all’estero del tuo lavoro?
Io sono abbastanza convinta che se un brano piace, arriva alla persona a cui piace indipendentemente dalla lingua. Ad esempio la mia prima composizione edita in assoluto, Sueno, dal mio album «Let your voice dance», è stata scelta da  un etichetta dance di New York per essere remixata. Ed era in lingua italiano. In più resta il fatto che nei miei brani il testo è sempre “al servizio” delle musiche, deve “scivolare” musicalmente sempre bene, senza intoppi. Deve essere musicale, per questo non considero la lingua un ostacolo, in generale

Parliamo dei tuoi sodali. In particolare, di Mirko Fait e Martino Vercesi. Come è nato il vostro rapporto?
Chiesi qualche anno fa, tramite una ragazza che si occupava del mio booking, a Mirko se potesse fissarmi qualche data nei jazz club milanesi, poiché è direttore artistico di diversi locali che fanno jazz. Lui fu molto gentile e mi fissò due date. Come si fa di solito, gli dissi che se avesse voluto suonare con me e con il mio pianista di allora, Danilo Tarso, ci avrebbe fatto piacere. Lui mi rispose che non amava suonare per accompagnare cantanti e il discorso finì lì. Poi mi ascoltò suonare ed eccoci qui in trio oggi con Martino. E spesso gli ricordo, ridendo, quello che aveva detto.  Martino è venuto dopo, perché Mirko mi ha inserito nell’ambiente musicale milanese ed ho suonato con diverse persone. Quando però abbiamo suonato noi tre insieme abbiamo avvertito da subito un forte feeling musicale e poi ci divertiamo moltissimo a scherzare fra noi e ad interagire in interplay sul palco mentre improvvisiamo. Abbiamo in comune un modo di intendere il jazz molto allegro, all’americana, più che all’europea. Insomma siamo molto compatibili, sotto diversi aspetti. Infatti, oltre a questo disco prodotto da Alfa Music, abbiamo pubblicato diversi singoli per l’etichetta milanese Smart Life Records, per le Edizioni Italian Way Music di John Toso. E poi in generale sono due musicisti bravissimi, Martino è anche l’arrangiatore dei nostri brani.

Era da qualche anno che non affrontavi il mercato discografico. Cosa è successo in questo periodo di tempo?
In realtà avevo messo circa tre anni di distanza anche fra il primo e il secondo disco che avevo inciso con la Dodicilune, anche se nel 2015 era capitata la mia partecipazione ad «Hunger and Love», un disco omaggio a Billie Holiday da parte di 24 jazziste italiane. Quindi l’idea era di uscire a fine  2019. I pezzi erano pronti infatti già in  quel periodo. E’ capitato poi che aspettassi l’inizio del 2020 per vari motivi, ma è subentrata la pandemia, le difficoltà negli spostamenti e di raggiungere spesso Milano dalla mia terra, il Salento, e poi Udine, dove volevo registrare con Stefano Amerio. E così si è protratta al 2022, mio malgrado.

Un disco che non vede nessuna cover, nessuno standard “old style”, che è quasi un must per molti jazzisti. E’ una scelta voluta o casuale?
In realtà anche nel precedente lavoro da autrice ho preferito agli standard dei brani moderni come Crystal Silence di Chick Corea e A Wish di Fred Hersch in questo album. Mi sembravano più coerenti con il mio tipo di composizioni. Però non escludo in prossimi dischi di inserire degli standards.

Comunque, se ci fosse stato uno standard o una cover, quale avresti inserito in questo disco?
Prelude To A Kiss, perché adoro i passaggi cromatici di questo brano ed in generale adoro Ellington. E poi il testo può sottintendere una tipica storia d’amore al femminile, tanto che fu interpretata da grandi come Billie ed Ella sin dall’uscita, quindi in linea con i brani del mio disco.

Elisabetta Guido con Mirko Fait e Martino Vercesi © Roberto Cifarelli

I tuoi testi hanno una forma molto poetica: la narrativa è incidentale. Da cosa traggono ispirazione?
Da descrizioni di tipi di donne o delle loro storie, con un testo però sempre al servizio delle musiche, anche perché nel mio modo di scrivere nascono prima le musiche, poi cerco di capire cosa quelle musiche mi ispirino, cioè quale storia, quale descrizione, e successivamente scrivo il testo, cercando il più possibile di renderlo musicale. Solo nel caso dei due brani Risveglio e Non ritornerò mai più mi sono ispirata alle storie realmente accadute di alcune donne che si erano rivolte all’associazione salentina La Girandola, che si occupa di donne e minori abusati. Ma anche lì sono nate prima le musiche, poi il testo.

Elisabetta, quale è il tuo background artistico?
Vengo dalla classica, sia come pianista che come cantante. Ma parliamo di titoli didattici. In realtà sin da bambina ho ascoltato molti generi musicali, perché mio papà era un ascoltatore attento ed innamorato di tutta la musica. Principalmente però in casa mia si ascoltava blues e jazz. Quindi io, fuori dal Conservatorio, suonavo e cantavo per gli amici musica pop, poi mi sono appassionata al jazz, in particolare da quando ho seguito le Clinics di Umbria jazz e poi l’ho studiato con Paolo Di Sabatino in Conservatorio. Successivamente sono venuti i corsi annuali di Siena Jazz. Ho praticato anche il gospel grazie a Cheryl Porter ed infatti prima ho fatto parte di un quartetto gospel/jazz con tre ragazze Toscane, fra cui Maria Laura Bigliazzi, che era accompagnato da bravissimi musicisti come Fabrizio Bosso, Marco Della Gatta, Ares Tavolazzi e Francesco Petreni, e poi ho messo su in Conservatorio a Lecce il mio attuale Coro gospel A.M. Family, un’esperienza che mi ha aiutato moltissimo con il pubblico.

Sei un’esperta di tecnica vocale, una didatta. Quali sono gli accorgimenti più importanti che consigli?
Sì, adoro esplorare il mondo della tecnica vocale. Seguo come un’ombra le scoperte del dott. Franco Fussi. Ho cantato persino per 15 anni come solista in un coro lirico. Io ho elaborato un mio metodo vocale, il Resonances (RSN) che permette di liberare le cavità ossee da contrazioni muscolari inutili che impediscono loro di risuonare o consuonare. Perché le ossa sono il nostro conduttore di suono. Le contraiamo per tenere a bada l’ansia che il cantare ci procura, quindi decontrarre da un grosso risultato anche a livello espressivo. Il mio consiglio? Trovare un insegnante che permetta di valorizzare la particolare voce che ognuno ha di base, senza stravolgerla od omologarla ad altre. Perché oggi ci sono training vocali che permettono nel canto moderno di cantare quasi come si vuole senza stancarsi. In pratica si studia molta tecnica affinché non sembri che si è studiata tecnica, ma allo stesso tempo non ci si stanchi e non ci si faccia male

In Italia il jazz non è musica per i giovani. Sei d’accordo con questa affermazione?
In Italia, perdonate la franchezza, si dovrebbe alzare il livello di qualità della musica anche pop di parecchio. Attualmente mi sembra sia in corso un miglioramento. A livello internazionale comunque ci sono dei giovani che cantano cose bellissime con voci molto curate e sono molto popolari e seguiti dagli altri giovani. Io lo so bene, perché curo la Community Instagram @Art_of_Singing_Ita, dove pubblico musica pop e soul internazionale, oltre che jazz vocale. Forse gli insegnanti di Educazione Musicale nelle scuole dovrebbero far fare un po’ più di ascolto di generi come la classica, il jazz, il blues, l’R&B e il soul d’autore. Solo così pian piano con l’ascolto i giovani si avvicinerebbero di più anche al jazz.

Elisabetta Guido © Roberto Cifarelli

Quali sono i tuoi prossimi impegni?
Per il momento un Galà in cui si esibiranno gli artisti italiani della Community Instagram di cui parlavo sopra, a Milano il 29 giugno al Cinema Teatro Trieste, e poi abbiamo già due appuntamenti fissati con il mio trio al JazzMi Festival di ottobre a Milano. Stiamo lavorando su altre date, ma ancora nulla di definito. La ripresa è un po’ lenta, ci sono molti problemi economici, soprattutto al Sud, il jazz ne soffre. Però ci daremo, come sempre, da fare.

Cosa è scritto nell’agenda dei prossimi lavori di Elisabetta Guido?
Con il mio trio lavoreremo ad alcuni singoli da pubblicare di tanto in tanto per l’Etichetta milanese, che sono per lo più degli standard riarrangiati in una versione soul/jazz, come sta andando molto ora a livello internazionale. A livello compositivo invece sto pensando ad un disco in cui vorrei gli archi. Da quest’estate inizierò a lavorarci ed ho già parlato con chi potrebbe aiutarmi negli arrangiamenti e con Alfa Music. Non svelo altro, ma sarà un’altra avventura musicale… in fondo noi jazzisti viviamo di questo, di sperimentazione musicale ed emozionale.
Alceste Ayroldi