Ciao Elena, benvenuta a Musica Jazz. Parliamo subito di «Anatomy of The Sun». Perché hai scelto questo titolo e come nasce l’idea, il progetto?
É stata una vera e propria illuminazione, come portare alla luce alcune parti della mia personalità. Una anatomia delle emozioni, che a loro volta parlano di qualcosa che non appartiene solo ed esclusivamente a me, ma che sento appartenere anche agli altri, un Sole che possiamo ritrovare in ognuno di noi. A rafforzare questa scelta, le Quattro storie del Sole, le stelle e le galassie, nelle Cosmicomiche di Calvino. Il protagonista dice: “Stiamo navigando nel Sole, all’interno dell’esplosione solare dove non contano né le bussole né i radar”, così imprevedibile e allo stesso tempo potente è il viaggio che si può fare per conoscersi e per avvicinarsi a noi stessi. Mi piace molto e rende esattamente la dimensione e la portata che ha per me la scelta di esprimermi attraverso la musica. In ultimo, l’etimologia del nome “Elena”, deriva dal greco Ἥλιος”, Hḕlios, divinità il cui compito è quello di far risplendere il Sole. Il titolo racchiude il progetto in questo senso.
Quali sono stati i riferimenti artistici, musicali che hai preso in considerazione per la realizzazione di questo disco?
Sono di varia natura e hanno diverse provenienze, dal jazz più tradizionale, alle nuove forme di canzone, più contemporanee, con sonorità più aperte e meno convenzionali. Numi tutelari sono Becca Stevens, Joni Mitchell, Jean Lee, ma anche tanta musica strumentale che appartiene alla scena contemporanea newyorkese. Ascolto tanta musica ma quando scrivo gli elementi tornano alle mie orecchie senza etichette. Mi appassiona (molto) anche la scena musicale romana, che ho la fortuna di vivere, e che vanta numerosissimi musicisti che compongono brani originali. Questo mi permette di toccare con mano nuove idee e mi emoziona molto.
Anche in «Anatomy of The Sun» torna il tema della danza, che per te è molto importante. Ce ne vorresti parlare?
Da sempre la danza è stata per me una compagna di ispirazione, come se avesse formato la mia espressione musicale. Mi ha fatto vivere la musica attraverso sfumature molto profonde, legate appunto a percezioni corporee. Questa lettura della musica ha sempre per me una forte componente evocativa; in termini di immaginazione, è una risorsa alla quale attingo, mi aiuta a raccontare, a dare forma alle idee. Cantare, inoltre, dona la possibilità di avere un rapporto speciale con il proprio corpo, e così, sia la danza che il canto viaggiano insieme nella mia esperienza. Ho studiato e lavorato con la danza ed ho tenuto per tre anni un Laboratorio di Musica e Movimento, presso l’Accademia Nazionale di Danza di Roma. Ho ideato assieme a una mia amica coreografa, Mariagiovanna Esposito, una rassegna di eventi dal nome Fatti d’arte, con l’idea di creare appuntamenti di improvvisazione tra la danza contemporanea e la musica improvvisata.
Nel disco ci sono vari momenti in cui la danza entra direttamente nella mia scrittura. Per esempio, in My first dance with You ho voluto costruire uno sviluppo musicale che richiamasse direttamente un andamento corporeo. Il brano racconta di un particolare stato d’animo in cui la relazione con un ideale altro risiede ancora in noi stessi, in potenza. Inizia come un respiro profondo, un momento di centratura, su una ballad dai ritmi fermi ed ipnotici. Il dialogo è introspettivo e prepara la seconda parte, dove si rompono tutti gli equilibri ritmici e melodici. Il corpo si libera, e così la mente, e danza accogliendo in sé relazione e separazione. I movimenti sono carichi, alterati, scaricano l’energia all’esterno. L’accettazione diventa lo strumento per lasciarsi andare, e godersi il momento presente, senza preoccuparsi di cosa sarà.
C’è un collegamento tra il tuo modo di intendere la danza e quello di intendere la musica?
Certo! Il collegamento esiste nella percezione delle energie che spostano l’aria, come le onde. Nella musica, siamo spesso aperti ad ascoltare l’altro in uno spazio tensivo che si modifica attraverso la relazione che nasce nel momento in cui suoniamo assieme. Allo stesso modo intendo la danza, come una emanazione di energia che mi modifica nel suo ascolto, nella mia percezione dello spazio in cui mi muovo, nella mia relazione con l’altro. Ho realizzato un video su Unreal Lands, brano che apre Anatomy of the Sun, assieme a Emilia De Leonardis (videomaker) ed Erica Bravini (dance performer). Abbiamo lavorato su elementi come la luce, la messa a fuoco e la polarità, intesa come elemento di attrazione e distrazione dal reale, in linea con il brano.
Ci vorresti parlare dei musicisti che ti accompagnano in questo disco?
Sono cari amici e fidati compagni di musica. Il pianista Domenico Sanna ed il chitarrista Francesco Poeti mi hanno accompagnato anche nella realizzazione del mio primo album, «Inner Nature», e sono per me davvero dei fari nella notte, musicisti di altissimo livello, capaci di dimostrarsi sempre al servizio della musica, qualsiasi cosa accada, sempre pronti a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Il contrabbassista Giuseppe Romagnoli ed il batterista Matteo Bultrini, consolidatissima ritmica romana, sono altrettanto un saldo punto di riferimento, che mi sostiene in ogni mia idea, sempre estremamente accoglienti e propositivi. In Labile c’è un cameo di Francesco Fratini alla tromba, che ha regalato al brano un tocco di freschezza. Questo rende tutti estremamente speciali per me e la resa della musica.
Elena, mi sembra – se non ho commesso errori di valutazione – che questo disco arriva dopo otto anni dal precedente. Cosa è successo in questo lungo arco di tempo?
Nel frattempo, ho partecipato al Vocal ensemble Burnogualà, diretto da Maria Pia de Vito, con il quale abbiamo registrato un meraviglioso album dal titolo «Moresche ed altre Invenzioni». Ho lavorato spesso con la danza, per ricerche in site specific, con numerosi lavori in spazi urbani e museali. Ho scritto alcuni brani, che spero di registrare presto, sui testi del poeta pugliese Vittorio Tinelli, nel mio dialetto d’origine, mi sono dedicata all’attività di insegnamento: sono docente di Canto Jazz in conservatorio da diversi anni, oltre all’attività di docenza presso l’Accademia Nazionale di Danza.
Fatta eccezione per Labile, l’unico brano in lingua italiana e The Best is Yet to Come, hai prediletto i tempi slow. Lo hai fatto volutamente oppure è una scelta casuale?
Credo sia una mia naturale inclinazione. Per quanto in ognuna di loro ci siano sfumature e diversi cambi dinamici che le definiscono e le diversificano dalle altre. Spesso i tempi vengono dimezzati o raddoppiati, come in My first dance with you e Where Flamingos Fly. Mi piace molto giocarci.
Invece, gli standard come li hai selezionati?
Per quanto attiene gli standard, The Best is Yet to Come è arrivata al successo grazie alla bellissima versione di Frank Sinatra con Count Basie, Where Flamingos Fly è uno standard non molto comune, di cui mi sono innamorata dopo aver ascoltato la versione di Jean Lee e Ran Blake, in The Newest Sound Around. Who am I? è un brano di Leonard Bernstein, dal musical Peter Pan, e l’ho conosciuto tramite una emozionante versione di Nina Simone, nell’album “Nina Simone and Piano!”. Questo brano mi ha tenuto compagnia durante un periodo in cui ho vissuto a New York, mi ha cullato. Ognuna di queste è stata poi riarrangiata per avere un colore più simile al disco. E poi, dulcis in fundo, c’è Let’s Face the Music and Dance, di I. Berlin. Avevamo registrato già tutto in un giorno e mezzo e avevamo altro tempo. Così abbiamo aggiunto questo ultimo brano. É una versione più ariosa, con delle aperture ritmiche diverse rispetto ai brani precedenti.
Elena, vorresti parlarci del tuo background artistico e culturale?
Sono nata e cresciuta a Noci, in Puglia, e a 18 anni mi sono trasferita a Roma, dove vivo tutt’ora. Da sempre sono stata un animale più che sociale ed estroverso. Per questo e soprattutto per via dei mille interessi che coltivavo, non ero quasi mai a casa, ma quando c’ero i miei fratelli ascoltavano Pino Daniele, i Pink Floyd ed i Metallica. A Roma, dopo una triennale in Economia, sono riuscita a frequentare una scuola privata dove ho studiato canto e danza e poi sono entrata in Conservatorio. Ho una grande passione per la poesia, soprattutto moderna e contemporanea. Mi piace ascoltare i dischi della tradizione del jazz e ho la fortuna di vivere in questa città che pullula di splendidi musicisti; quindi, spesso la sera sono in giro ad ascoltare e curiosare.
Da dove nasce per te l’impulso a creare qualcosa? Che ruolo hanno le fonti di ispirazione spesso citate, come i sogni, le altre forme d’arte, le relazioni personali, la politica, eccetera?
L’impulso nasce in risposta ad una frenesia. Scrivo perché mi sembra di sospendere il tempo, di mettere una lente d’ingrandimento sul mio sentire e sull’ascolto. É un modo per respirare. Le relazioni sono sicuramente uno dei motori più potenti per far nascere delle riflessioni, per come queste impattano su di me e nella relazione con l’altro. Per quanto alcune volte, la riflessione non è solo di carattere emotivo ma anche solo formale. Come nella composizione, così nella danza, lo spazio e le distanze possono essere giocate anche in termini formali e da questo possono nascere anche ottimi stimoli.
Dicevamo che fai parte del gruppo vocale Burnogualà. Quanto ha inciso sulla tua crescita professionale questa tua partecipazione?
Questa è stata una esperienza bellissima. Burnogualà è nato durante gli anni del Conservatorio, sotto la guida di Maria Pia De Vito, si è strutturato ed ha preso forma sulla bellissima isola di Ventotene, testimone di un buon numero di prove e concerti, innumerevoli tuffi, e cospicue albe con strimpellate annesse. É stato fortificante lavorare in un così denso e variegato ensemble di voci, mi ha permesso di approfondire sicuramente la pratica corale, ma anche di toccare con mano il concetto di collettività, negli aspetti pratici, dove appunto si collabora per creare una intenzione, ricca di sfumature, che viaggiano nella stessa direzione. Tra gli altri concerti, ho dei ricordi meravigliosi del festival di Ravello e della nostra partecipazione ai Suoni delle Dolomiti. Maria Pia ci ha dato l’opportunità di lavorare non solo a «Moresche ed altre invenzioni», sulla musica di Orlando di Lasso, ma anche al suo meraviglioso lavoro «Core/Coraçao» sulla musica di Chico Buarque, e per questo le sono estremamente grata. É stato bellissimo!
Elena, ma ancora oggi nel 2024, è difficile essere donna nel sistema dell’industria musicale italiana?
Ancora oggi è difficile essere donna. Nell’industria musicale mi sembra che le cose stiano andando meglio, vedo sempre più nomi femminili nei cartelloni, interessanti collaborazioni e uno sviluppo sempre maggiore di nuovi progetti che contengono strumentiste. Questo però non mi sembra supportato dal sistema attuale politico e culturale italiano. Mi sembra che stiamo andando incontro ad una retrocessione dei nostri diritti e che con estrema difficoltà si stiano difendendo obiettivi raggiunti, e che ormai sembrano in pericolo. Essere una donna musicista ti mette davanti ad un sistema complicato, che spesso tutela poco e questa mancanza genera una mancanza di libertà nelle scelte che si possono compiere. Voglio essere fiduciosa e spero che finalmente un giorno non avremo bisogno di sottolineare la presenza o meno di “quote rosa”, appellativo già di per sé discriminante, ma che queste siano parte integrante e fondante del sistema. Per arrivare a quel giorno, però, manca ancora un po’ strada.
Cosa è scritto nell’agenda di Elena Paparusso?
Vado in Romania per qualche concerto nella regione di Cluj-Napoca. Grazie al progetto AIR di M.I.D.J., ho vinto una residenza di quattro settimane che sarà anticipata da questa prima parte. A breve terrò una masterclass e alcuni concerti a Cluj, Bistrita e Oradea, ospite del pianista Dima Belinski. Poi in estate ci saranno le date di presentazione di «Anatomy of the Sun», e in autunno un nuovo progetto con la danza contemporanea che debutterà a Roma e Napoli. In estate ci sarà anche un concerto con un nuovo trio, Last Land Band, con Paolo Damiani e Antonio Jasevoli, e la rifinitura dei brani scritti sui testi di Vittorio Tinelli.
Alceste Ayroldi