Lonely Shadows. Intervista a Dominik Wania

Il giovane pianista polacco è una delle rivelazioni degli ultimi tempi, e il suo debutto da leader per ECM ne è la dimostrazione. Lo abbiamo incontrato per saperne di più.

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Dominik Wania Foto di Maria Jarzyna

Era arrivato il momento di un album in piano solo. Era qualcosa a cui avevi pensato già da tempo?
Era da tempo che pensavo di fare un album da solo e mi è venuto assolutamente naturale, perché Manfred Eicher, già qualche anno fa, sembrava parecchio interessato a voler fare qualcosa con me. In realtà, a me venne in mente di fare un nuovo disco in trio, con altri ragazzi e una musica completamente diversa rispetto a quella che avevo fino a ora fatto, più improvvisata. Ma quando incontrai Manfred nel suo ufficio di Monaco, prima di incontrare il suo staff, mi disse che non era interessato al trio. Preferiva, per il mio album di debutto con l’Ecm, voleva qualcosa di speciale e di differente rispetto al mio passato. La mia iniziale idea di trio si tramutò in quella di duo – piano e batteria, oppure due pianoforti – trovò Manfred ben disposto e mi disse che l’Ecm poteva cercare un buon partner per me. Ma, poi, l’attenzione si è focalizzata sull’album in solo e, quindi, ho cambiato la prospettiva musicale. Non voglio dire che Manfred Eicher abbia influenzato la mia idea primigenia, ma sicuramente mi ha aperto la strada verso una nuova interpretazione della stessa.

Perché tra gli undici brani in scaletta hai scelto proprio Lonely Shadows come titolo del tuo album?
Dopo aver suonato questo suonato questo brano, improvvisando, in sala di registrazione e tornai a casa, pensai al titolo da attribuirgli. Mi vennero in mente le immagini e le emozioni che avevo provato nel suonare questo brano e l’immagine che mi venne in mente era proprio quella di queste ombre solitarie. Ci sono persone che vivono una vita soddisfacente, mentre per altre non è così e vivono da sole. Ho immaginato, quindi, che queste ultime quando lasceranno questa terra, vivranno da sole e si muoveranno come delle ombre. E anche questo il motivo per cui ho ritenuto di dare lo stesso titolo all’album.

Undici brani, tutte improvvisazioni. Sei partito con un tema che avevi in mente?
Sì, sono tutte improvvisazioni. In realtà, non avevo in mente alcunché. Quando Manfred Eicher mi suggerì di registrare un disco in solo, accettai ma mi dissi: non voglio preparare nulla. Probabilmente avevo già in testa alcuni frammenti di melodia o qualche progressione armonica. Ma la mia idea era quella di andare in studio con la mente completamente in bianco, come un foglio di carta intonso. Avevo, però, ben chiara la situazione. L’unica perplessità era se partire con una melodia o un ritmo o un loop armonico, se essere più dissonante o astratto. Poi, mi sono seduto al pianoforte e tutto è venuto naturale.

Se l’inizio del disco è calmo e rilassato, poi troviamo il mainstream di New Life Experience e il lirismo sinfonico, quasi come una tempesta di Melting Spirit. Hai avuto uno «spirito guida» nella fase compositiva-esecutiva?
Non necessariamente. Anche per gli altri miei dischi, ho sempre tenuto a mente tutti i miei studi, i miei ascolti sia nel jazz che nella musica classica. Ma, in questa circostanza, non avevo alcun tipo di riferimento preciso. Con Manfred Eicher, poi, abbiamo scelto quali brani dovessero far parte del disco.

Melting Spirit ci fa capire subito che i tuoi studi si sono basati sulla musica classica. Quanto ha inciso questo aspetto nel tuo approccio al piano solo?
Ritengo che i miei studi classici siano stati – e lo sono tutt’ora – molto importanti. E hanno influenzato, completamente, il mio approccio al pianoforte. Anche nell’improvvisazione jazz sono fondamentali: per il tocco, per il suono, per il sentimento con cui mi connetto allo strumento. In realtà, a parte Melting Spirit, tutto l’album è influenzato dai miei studi classici, ai quali si ispira.

Relativity, d’altra parte, ci conduce nel mondo della musica classica contemporanea e dell’improvvisazione, probabilmente più che altri brani. Cosa o chi ti ha ispirato questo brano?
Inizialmente, mentre suonavo, mi era venuto in mente Prokof’ev, ma mi sono detto che dovevo fare qualcosa di più e, così, mi sono lasciato prendere completamente dall’onda dell’improvvisazione.

Ho apprezzato molto Liquid Fluid. Una sintesi di tutto il meglio del pianismo europeo e anche del jazz europeo. C’è qualcosa che ti lega al jazz di matrice statunitense?
Non c’è qualcosa in particolare che mi leghi al jazz statunitense. Certo, ho studiato lì per tre anni con Danilo Perez; circostanza che ha influenzato il mio modo di suonare il pianoforte e anche la mia visione della musica ma, a parte questo, non c’è altro che mi leghi al jazz americano. Quando ho iniziato a studiare e suonare jazz, ovviamente, mi sono dedicato anche agli standard, ma niente di più. Trovo la mia maggiore fonte di ispirazione nella musica classica europea e nella classica contemporanea.

Ci spiegheresti il significato di AG76?
E’ il titolo di un’opera del pittore polacco Zdzislaw Beksinski, nato a Sanok, la mia stessa città natale, e scomparso nel 2005. In realtà, fu ucciso dal figlio del suo maggiordomo con una serie di coltellate. La sua pittura è molto scura, tenebrosa e rispecchia la sua vita. In particolare, il dipinto AG76 è una visione di una notte buia e del mare, che è di un meraviglioso colore turchese. Quindi, seppur è un dipinto molto scuro, ha dei colori meravigliosi, compreso lo smeraldo della battigia e le onde risplendono nella notte. E’ come se questo quadro conservasse un segreto. Ho cercato di esprimere queste sensazioni e questi colori con il mio pianoforte.

A proposito di questo brano, possiamo sentire l’idea che spinse György Ligeti a ordire Musica Ricercata.
E’ un brano che conosco benissimo, ma in questo caso mi sono solo concentrato sulle emozioni che provo nel vedere il quadro di Beksinski.

Indifferent Attitude è un brano di sentita improvvisazione: un brano, si potrebbe dire, di free jazz, perché è differente rispetto agli altri brani. Come è venuto fuori?
Sì, è differente. E’ venuto fuori perché in quel momento volevo realizzare qualcosa di più astratto e, quindi, ho utilizzato degli intervalli più larghi. Ho provato a utilizzare anche una struttura polifonica.

Cosa ti affascina nel suonare da solo?
Da una parte è una grande sfida, naturalmente, perché hai tutte le responsabilità sulle tue spalle: creare la forma della musica, la melodia, il ritmo. Ma, dall’altra parte, il fatto di avere alle spalle studi e un passato nella classica, mi ha aiutato moltissimo, perché il piano è un’attività frequente nella musica classica, anche nell’approccio con lo strumento e nell’improvvisazione. Anche se per me non vi è differenza tra classica e jazz: in entrambi i casi, il mio modo di pensare alla musica e alla tecnica è lo stesso.

Qual è la parte che preferisci di questo tuo ultimo lavoro?
Sai, dipende anche dal mood del momento. Devo dire che tutto il lavoro mi soddisfa molto, perché ho avuto uno studio di registrazione eccezionale, quello della Rsi di Lugano, e ho avuto anche a disposizione il miglior pianoforte che potessi desiderare, che mi ha consentito di improvvisare al meglio.

Il trio con Mucha e Fortuna è ancora in attività?
Sì, è in attività anche se non stiamo suonando molto spesso, anche perché sono stato impegnato con il quartetto di Maciej Obara. Poi, ho voluto fare anche qualcosa di diverso e, quindi, il trio polacco è rimasto un po’ indietro. Quindi, il trio esiste ma al momento la mia attenzione è rivolta a qualcosa di diverso.

Perché hai voluto dedicare il tuo primo album a Maurice Ravel?
Sono sempre stato ispirato da questo grande compositore. Quando ero studente amavo suonare le sue composizioni, in particolare il Piano concerto in G Major. Ho sempre trovato che la musica di Maurice Ravel fosse vicina alla mia sensibilità. Così, ho voluto provare a interpretare la sua musica nello stile jazzistico e penso che la musica di Ravel sia un punto d’inizio per l’improvvisazione. La sua musica ha influenzato anche molti pianisti jazz e questo argomento è stato anche oggetto del mio dottorato.

Dominik Wania
Foto di Maria Jarzyna

La Polonia è la terra natia di Chopin ma, a parte questo, c’è un’incredibile vitalità jazzistica con molti talenti. Come te lo spieghi?
E’ vero, abbiamo molti musicisti di talento in Polonia. Penso che sia una questione legata alla tradizione, fin dagli anni Cinquanta abbiamo avuto molti grandi jazzisti e anche molti festival. E tutto ciò ha incrementato anche il numero degli studenti che si sono voluti dedicare al jazz. Penso che la Polonia abbia un ambiente favorevole al jazz, anche per i concorsi che ci sono per i giovani jazzisti. I dipartimenti di jazz nei conservatori lavorano bene.

So bene che è una domanda impossibile, ma proveresti a spiegarci il tuo processo creativo?
E’ molto difficile rispondere a questa domanda, perché ogni volta è differente. Una parte è influenzata dai miei studi, classici e jazzistici, un’altra dai miei compagni di viaggio musicali; un’altra parte è determinata dalla mia sensibilità. In buona parte è influenzata dalla grande musica classica, dai grandi compositori e adatto il mio linguaggio ogni volta che suono o compongo, soprattutto quando improvviso. Il processo creativo è determinato anche dalle condizione, dallo strumento che suono.

Se non avessi fatto il musicista, oggi cosa faresti?
Anche questo è difficile. Non penso che avrei fatto qualcosa di differente rispetto a occuparmi di musica. Forse mi sarei cimentato nella musica elettronica, ma certamente sarei rimasto ben legato sempre alla musica: non posso immaginare di riuscire a fare altro.

Se potessi cambiare qualcosa del sistema dell’industria musicale, cosa sarebbe?
Non saprei dirlo, perché non ho una tale esperienza per poter affrontare l’argomento. Sono il leader di un trio, ma è solo un episodio.

Qual è la tua esperienza con riguardo a ciò che sta accadendo per la pandemia causata dal Covid-19?
Penso che per tutti sia uno shock! Un giorno ci siamo svegliati e abbiamo trovato una situazione del tutto differente. Penso che nessuno possa sapere cosa succederà e dire, oggi, cosa si potrà fare in futuro. Ho approfittato – e approfitto – per imparare cose nuove e studiare, visto che non si possono fare concerti. E’ difficile scegliere anche il futuro e non credo che ci sia da fare previsioni ottimistiche. Per la musica è veramente difficile.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Dipende dalla situazione conseguente alla pandemia, ovviamente. Vorrei promuovere il mio album anche nei maggiori festival in Polonia e nel resto d’Europa. Ma dobbiamo fare i conti con quello che succederà. Non posso fare nessuna previsione.
Alceste Ayroldi