«Departures». Intervista a Danilo Blaiotta

Primo disco da leader per il giovane pianista e compositore calabrese. Ne parliamo con lui.

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Danilo Blaiotta foto di Federica Di Benedetto

Danilo, possiamo dire che, a tutti gli effetti, questo è il tuo primo disco da leader. Quando è inizia la genesi di questo disco?
L’idea di un disco a mio nome è iniziata a maturare qualche anno fa, raccogliendo alcune composizioni scritte per altre formazioni e riadattandole per il trio. La spinta propulsiva che mi ha portato allo sviluppo di questo obiettivo è stata generata anche dal mio trasferimento nella capitale e dalla conoscenza di molti musicisti attivi già da tempo nel jazz romano.

Nelle tue composizioni e nella tua tecnica si può sentire che hai anche studi classici alle spalle. Quanta importanza ha questo aspetto nel tuo modo di concepire la musica?
Ho iniziato a studiare la musica classica molto presto, da bambino. Ho partecipato e vinto numerosi concorsi pianistici, e successivamente mi sono laureato in conservatorio. Tutto ciò mi ha portato a considerare la carriera concertistica in quella direzione. Frequentai la Scuola di Fiesole studiando con Andrea Lucchesini, e soprattutto ebbi la fortuna di conoscere e di studiare per degli anni con Aldo Ciccolini, faro illuminante per sviluppare al massimo e poi chiudere un ciclo importantissimo della mia vita artistica. Da quel punto di vista, pur essendo io stato un pianista completo (avendo un repertorio che andava da Bach a Stravinsky), negli anni mi accorsi di rimanere maggiormente affascinato dalla musica del primo novecento, e particolarmente da quella francese e russa. Fatta questa premessa, l’importanza di questo repertorio è fondamentale nelle mie composizioni, poiché cerco di non limitarmi ad un’idea di scrittura -mainstream- ma di utilizzare stilemi, armonie e concetti che ritrovo in molta musica sinfonica o cameristica.

E il jazz, invece, quando è arrivato nella tua vita?
Durante la mia infanzia la musica era di casa. Mio padre era un assiduo ascoltatore, anche di jazz. Ricordo un disco del Keith Jarrett Trio («At the Blue Note- vol.5») che risuonava per le stanze, ma ricordo anche di non riuscirne ad apprezzare la bellezza. La svolta fu l’ascolto di un concerto in piano trio ai giardini Estensi di Varese, avevo dodici anni. Rimasi folgorato. Dal giorno dopo i miei ascolti si concentrarono in modo ossessivo sulle audiocassette di jazz contenute nella libreria di mio padre. Tra i tanti, A love supreme – live (Antibes 1965) fu una rivelazione. Non so quante decine di volte ascoltavo il solo di McCoy Tyner nei miei viaggi per raggiungere il liceo.

Danilo Blaiotta
foto di Federica Di Benedetto

Le tue composizioni sono la giusta misura tra jazz made in Europa e Stati Uniti. A quale delle due «scuole» senti di appartenere di più?
Non è una questione semplice. Personalmente credo che in parte la risposta stia già nella domanda. La giusta misura ovviamente non esiste, ma si prova a creare una coesistenza tra più anime: ciò da cui proveniamo e ciò che vorremmo essere. La mia famiglia proviene da un piccolo paese di etnia arbëreshë della Calabria al confine con la Basilicata. Sono cresciuto parlando l’albanese antico e ascoltando antichi canti che i miei cantavano e suonavano in famiglia. Il rapporto di commistione è quindi ancora più arduo, poiché la mediazione del mio Dna avviene già con il mondo latino, figuriamoci con quello anglosassone o afroamericano. Per fortuna suoniamo un genere musicale che è aperto a mille incursioni e che fonda le sue radici su commistioni antropologiche quanto artistiche.

I brani sono, per lo più, a tua firma, fatta eccezione per tre composizioni, tra cui Gioco d’azzardo di Paolo Conte. C’è un legame in particolare tra te e questa canzone?
Per rispondere a questa domanda farò un accostamento arduo. L’idea di Paolo Conte ricorda, concettualmente, quella wagneriana. Conte scrive arrangiamenti, testi e musica. All’interno dei testi possiamo inoltre ritrovare il teatro, il cinema e la grande poesia. E la sua pittura, spesso, viene utilizzata per le copertine dei dischi. Wagner fu il primo a sdoganare l’idea dell’opera d’arte totale. L’accostamento crolla però quando si pensa all’ermetismo di Conte, in contrapposizione alla maestosità palesata del genio tedesco. E anche in questo Conte si avvicina al mio gusto, perché abbraccia così alcuni stilemi del simbolismo francese, importante fonte di ispirazione per la mia vita artistica. L’omaggio è quindi ad un artista per me immenso, Gioco d’azzardo è semplicemente una delle canzoni che preferisco, forse anche per qualcosa di autobiografico. Il ritmo è quello di una beguine, tipica danza di coppia che mi piace immaginare tra i due protagonisti della storia che si incontrano un’ultima volta prima di lasciarsi per sempre. Struggente.

Troviamo anche Solar di Miles Davis. Come hai agito in fase di arrangiamento e adattamento al tuo trio?
Rispondo molto brevemente: non ho agito. Solar è un brano che amiamo suonare e creare in base alle sensazioni di quell’ esecuzione. La take contenuta nel disco è semplicemente suonata, creata al momento, ogni volta che la proponiamo può essere diversa. Rispetto alle altre track del disco, che hanno un corpo strutturato e arrangiato curato nei dettagli, Solar è libera e spontanea. E’ un omaggio alla creatività davisiana, pensando forse al quintetto degli anni Sessanta.

A proposito del trio, ci parleresti dei tuoi compagni di viaggio?
Jacopo Ferrazza e Valerio Vantaggio sono due musicisti straordinari e, appunto, due affezionati compagni di viaggio. Con loro ho un rapporto continuo di confronto umano e artistico. Li ho scelti per molte ragioni: in primis la loro formazione classica, che li aiuta a capire da subito le mie composizioni; in secondo luogo, poiché formano insieme una ritmica affiatata da molto tempo. Molte volte ho quindi la sensazione di dovermi «incollare» ad un unico musicista. Questo rende tutto più semplice: posso volare pilotato da un solo tappeto.

Il titolo, «Departures» (e anche il brano) ti rappresenta?
Nel ventennio tra il 2000 e il 2020 la mia vita personale è stata contrassegnata da quattordici traslochi in diverse regioni d’Italia. I biglietti di partenza solo-andata sono stati abbastanza per pensare di dedicare il titolo del mio primo disco a questa parola. Una scelta rafforzata anche dal fatto che i brani che lo compongono non sono legati tra loro concettualmente, essendo stati concepiti in periodi e luoghi diversi. Il brano omonimo è invece una composizione che scrissi di ritorno da un concerto a Bruxelles; le prime note del tema sono scaturite in un momento di riflessione all’aeroporto di Fiumicino, guardando il cartellone delle partenze.

Mi sembra che tu sia di casa con l’improvvisazione. Mi sbaglio? Quale posto occupa nella tua personale gerarchia musicale?
Il fatto che si percepisca la mia appartenenza naturale all’improvvisazione mi lusinga e mi fa sorridere. Generalmente ogni musicista jazz che si rispetti inizia ad improvvisare per natura, molto prima di conoscere scale modali o accordi tensivi. Da ragazzino improvvisavo sui dischi di Ray Charles e B.B.King, o più in generale su brani di rhythm and blues che passavano nello stereo del salotto. Nella maggior parte di questi brani sei di casa sdoganando una semplice pentatonica. Non facile è però la combinazione di quelle 5 note per farle funzionare al meglio. Tuttavia un bambino si preoccupa solo di giocarci con quelle note, di creare dei mondi familiari e divertirsi. L’improvvisazione occupa quindi per me un posto primario da sempre, anche al di là della sua connotazione jazzistica. L’improvvisazione estemporanea è sempre stata parte di ogni genere musicale del passato, popolare o colto che sia. Non dimentichiamoci che Bach e Mozart improvvisavano, cosa spesso ignorata nei dipartimenti di classica dei conservatori italiani.

Sei parecchio richiesto e attivo (prima dell’attuale blocco causato dalla pandemia) in Germania. Come mai?
Sì, ho suonato molto in Germania negli anni tra il 2013 e il 2016. Erano i primi anni in cui mi approcciavo ad un pubblico partendo non dalla musica classica. Questa cosa fu una vera e propria sorpresa per alcuni festival tedeschi in cui suonavo Beethoven, Liszt o Debussy. Venni cosi invitato a sviluppare dei piano solo partendo dall’improvvisazione su temi classici, a cui abbinavo poi brani miei, standards ecc. E’ stata un’ottima palestra per cercare di sviluppare il mio linguaggio personale, nel contesto più affascinante e arduo per un pianista jazz, che è appunto il concerto in solo. Negli ultimissimi anni invece il mio rapporto con i concerti in Germania è in pausa, ma mi è capitato di suonare nell’est Europa (Lettonia e Russia), in Francia, in Belgio e negli Stati Uniti.

Ti occupi di musica anche per il teatro. Immagino ci sia una bella differenza tra il comporre liberamente e a soggetto, anzi come diceva Ennio Morricone: «applicata». E’ così?
Vi è una differenza enorme. Comporre per te stesso significa metterti di fronte allo specchio. In qualche modo il soggetto sei tu. Comporre per il teatro, il cinema o anche la televisione ti mette in relazione con immagini, dialoghi, scenografie costruite da altri, con cui devi cercare di entrare in relazione artistica senza perdere la tua identità. Devo dire che tutti gli spettacoli che richiedevano il mio lavoro come compositore (oltre che come esecutore) sposavano poetiche a me affini; non ho fatto quindi fatica e, anzi, ho prodotto delle cose che mi piacerebbe riproporre in alcuni dischi a mio nome in futuro. Parlando di scrittura a soggetto in senso più ampio, mi ritengo molto fortunato ad aver potuto scrivere musica per i dischi in cui ho militato da sideman. E’ chiaramente un gesto di fiducia da parte del leader nei miei confronti, ma anche un invito alla scrittura a soggetto! Devi cucire brani per formazioni e solisti che non scegli tu personalmente e che hanno linguaggi musicali magari diversi dal tuo. In questa direzione mi è capitato anche di scrivere musica per alcune cantautrici, sulla quale è stato poi scritto un testo. Anche questo è scrivere a soggetto. E’ un lavoro affascinante e molto gratificante.

Il tuo disco esce in un periodo in cui, ob torto collo, non è possibile fare presentazioni, concerti e altro. Come pensi di recuperare?
Purtroppo è saltato per ben due volte il tour di presentazione del disco, in primavera e in autunno 2020. Tra ottobre e dicembre avevamo in programma sei date in quattro regioni italiane. E’ stata una grandissima delusione dover annullare tutto per la seconda volta (ad eccezione della prima data al 67 jazz club di Varese). Oltretutto il 30 ottobre (proprio pochi giorni dopo della chiusura dei teatri) saremmo stati in concerto alla Casa del Jazz di Roma, data a cui tenevo tantissimo; fa male pensare che in quei giorni ancora era consentito l’ingresso alle sale bingo ma non ai teatri. Guardando il bicchiere mezzo pieno, siamo già stati fortunati a suonare in tre date estive e in quella varesina del 23 ottobre scorso. Penso – spero – di recuperare nella primavera 2021, augurandomi che il periodo cambi e che migliori la situazione sanitaria italiana.

Danilo Blaiotta, Jacopo Ferrazza, Valerio Vantaggio
Foto di Federica Di Benedetto

Danilo, prima di concludere: dove sei nato e dove vivi?
Come dicevo prima, le partenze sono state molte. Sono nato in Calabria per caso, poiché la mia famiglia viveva da molti anni sul Lago Maggiore. La mia infanzia si è svolta quindi sul Verbano fino ai tredici anni. Dopodiché ho vissuto tra Lombardia e Calabria, un periodo a Napoli, un anno a Firenze e da 5 anni a questa parte a Roma.

A proposito di questo periodo, pensi che la percezione dell’arte da parte delle persone, dopo che sarà finito tutto, sarà la stessa che aveva in precedenza?
Difficile dirlo. Molti miei amici artisti si sbilanciano. C’è chi dice che andrà tutto meglio, chi peggio. Più che una previsione mi posso lanciare in un auspicio. Volendo essere positivi, quando sarà tutto finito la voglia di riappropriarsi degli spazi culturali da parte delle persone può tornare più di prima, vista la costrizione a doversene privare per molto tempo. Lo abbiamo già potuto notare durante la riapertura estiva: i pochi festival che sono riusciti a creare un cartellone sono stati frequentati, direi né più né meno di com’era in precedenza. Il popolo italiano spesso è un popolo senza memoria, e ciò è sicuramente negativo, ma questa volta può tornarci utile per una rapida ripartenza. Non posso esimermi però dal dire che i problemi che avremo saranno gli stessi di prima, peggiorati da una situazione economica che non aiuta. La percezione dell’arte in questo paese è bistrattata da troppo tempo, e si è radicato nella maggior parte delle persone il pensiero che sia superflua e non indispensabile. Noi artisti continuiamo a godere di un pubblico-nicchia che è sempre più grande di età, musicisti a parte. Mi piacerebbe che la ripartenza fosse più generale, non soltanto dal virus ma da tutti i difetti di fabbrica che sono un cancro da molto prima nel nostro settore. Si dovrebbe capire che lo si deve fare per il miglioramento della vita degli uomini, niente di più semplice. In questo senso chi ha un grosso séguito, politicamente e non, dovrebbe dare l’esempio, fosse anche con dei messaggi che incentivino a coltivare la bellezza. Se ne sentirà il bisogno come non mai.

Pensi che i numerosi concerti in streaming rischino di impigrire – fisicamente e mentalmente – il potenziale pubblico?
Onestamente no, i concerti in streaming sono stati un mezzo non sostitutivo ma emergenziale. Poi dipende dall’uso che noi artisti faremo di questo meccanismo in futuro. Io auspico un ritorno totale alla musica dal vivo e ai contatti umani, senza dei quali un individuo è già morto. Ripeto poi ciò che ho già detto prima: molto pubblico potenziale andrebbe smosso dal proprio divano da molto prima della pandemia.

Qual è l’ultimo libro che hai letto?
Gli indifferenti di Moravia

Qual è l’ultimo disco che hai acquistato?
«Miles Ahead», in vinile

Cosa è scritto nell’agenda di Danilo Blaiotta?
Innanzitutto recuperare le date annullate. Ho poi in programma la registrazione di un secondo disco in trio, sempre con Jacopo e Valerio e probabilmente con la presenza di qualche ospite. Questa volta si tratterà di un concept album ispirato al romanzo Le notti bianche di Dostoevsky: trattasi di una suite in più movimenti che scrissi qualche tempo fa e che sto revisionando in questo periodo. E all’orizzonte mi piacerebbe vedere anche un disco in solo…
Alceste Ayroldi