Intervista a Daniele Pitteri

Dopo quattro anni intensi e di successi, giunge la fine del mandato dell’amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma. Con lui parliamo della stagione estiva della Casa del Jazz di Roma e di altro.

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Dottor Pitteri, parliamo dei risultati oltremodo lusinghieri della Casa del Jazz: 23.000 spettatori per 41 concerti, con alcuni di questi che hanno superato i 1000 spettatori, come quello di Dee Dee Bridgewater e del quartetto Porter-Mehldau-Patitucci-Blake. Mi sembra che la Casa del Jazz abbia incrementato il suo parterre. Tale incremento di pubblico corrisponde anche dal punto di vista economico?
Sì, quest’anno, ad esempio, per la prima volta abbiamo superato, con il festival estivo, i 500 mila euro di incasso. E questi due anni a regime, diciamo così, il 2023-24. Già nel 2022 avevamo raggiunto risultati molto importanti, che hanno confermato una tendenza in crescita della Casa del Jazz e del gradimento del pubblico, perché appunto l’anno scorso abbiamo fatto il record di presenze; quest’anno l’abbiamo sostanzialmente eguagliato, anche se abbiamo avuto 89 spettatori in meno dell’anno scorso, ma anche con un concerto in meno; quindi sostanzialmente – e in media – possiamo dire di aver avuto un maggior numero di spettatori quest’anno. A mio avviso, questo significa che c’è un’affezione del pubblico, però c’è anche un’affezione del mondo del jazz italiano e ultimamente internazionale verso la Casa del Jazz, perché una delle tendenze che noi rileviamo, anche dai dati di acquisto dei biglietti, è che sono fortemente in crescita gli acquisti che vengono fatti fuori Roma, da persone che vengono da altre città o addirittura da fuori Italia.

Quali altri concerti sono stati tra i più gettonati?
Sono diversi i concerti che sono andati particolarmente bene, come quelli di Paolo Fresu e Rita Marcotulli, e ancora Fresu con Uri Caine, di Christone Kingfish, il leggendario batterista Billy Cobham e il tributo al compositore Ryuichi Sakamoto di Danilo Rea. Ma anche Matteo Mancuso: tutti concerti che hanno superato i 700 spettatori; in alcuni casi anche 900. Sempre intorno al sold out, insomma. Abbiamo avuto Abdullah Ibrahim e la nostra Auditorium Band con l’omaggio a Pino Daniele, riarrangiato e riletto il patrimonio musicale di Pino Daniele da Gigi De Rienzo, che hanno raggiunto un gran numero di spettatori, veramente tanti. E questi sono dati interessanti perché Abdullah Ibrahim noi lo conosciamo ma non è, oggi, un nome del grande pubblico; sicuramente lo stesso principio vale per la nostra Auditorium Band e Gigi De Rienzo. Un altro dato interessante è i 600 spettatori che abbiamo avuto in occasione dell’esibizione della nostra Orchestra dei Bambini, la Jazz Campus Orchestra, con tre solisti d’eccezione che erano Gegè Telesforo, Fabrizio Bosso e Stefano Di Battista. Certo, una parte del pubblico è fatta dai genitori, amici e parenti dei giovani musicisti, ma parliamo di 150 persone volendo esagerare. Il resto è venuto lì e, quindi, questo è significativo perché è una proposta della Casa del Jazz: anche laddove non è un grande nome, viene eletta sempre come una proposta interessante e culturalmente valida. Noi quest’anno non siamo andati quasi mai sotto i 400 spettatori. Soprattutto visti a livello nazionale, anche in corrispondenza con gli altri festival, ritengo siano dei risultati veramente straordinari.

Daniele Pitteri

La rassegna estiva si protrae anche in periodi, come dire, di vacanze per il pubblico romano. Però, non vi è stata flessione: tutt’altro. Da chi è composto il pubblico della Casa del Jazz?
Quello sicuramente sì, sicuramente. Alla Casa del Jazz, lavoriamo differentemente rispetto a quanto accade all’Auditorium, soprattutto per la stagione estiva, dove le prevendite sono sempre molto forti e quindi noi già a maggio abbiamo un’indicazione molto forte dei risultati attesi.
La programmazione della Casa del Jazz ha una base di prevendita che corrisponde mediamente al 25 per cento della capienza finale del concerto. Dopodiché, negli ultimi giorni abbiamo un incremento forte che in alcuni casi appunto ci porta a fare i sold out. Riteniamo che una parte sia anche determinata da pubblico di passaggio a Roma, che però ha una certa sensibilità con il jazz. Perché ci sono dei nomi che sono conosciuti anche dagli spettatori casuali, diciamo non espressamente amanti del jazz, ma lo zoccolo duro è fatto da coloro i quali seguono il jazz e la nostra programmazione.
Però io penso che ci sia un elemento forte che è la fidelizzazione; il lavoro di fidelizzazione che noi abbiamo fatto negli anni e che abbiamo incrementato moltissimo da dopo il lockdown, di attività che la Casa del Jazz fa costantemente. Giovedì, venerdì, sabato e domenica durante tutto l’anno ci sono concerti; le domeniche mattine ci sono le lezioni di jazz, incontri formativi, divulgativi con vari esperti del settore e, quindi, anche questo ovviamente favorisce molto la fidelizzazione e anche questi incontri hanno sempre riempito la saletta  da 140 posti. Tutto ciò è indicativo del fatto che c’è un pubblico che è interessato a sentire delle storie che riguardano il jazz o altre proposte culturali. Poi, un altro elemento sicuramente importante penso che sia stato il fatto che da quando grazie al FUS si sono costituiti i centri di produzione musicale, la Casa del Jazz è diventata il punto di incontro e coordinamento di tutti e cinque i centri di produzione musicale jazz, finanziati dal ministero. In più siamo diventati anche la sede ufficiale dell’associazione I-Jazz,  e questo ovviamente nell’ambiente ha aumentato l’attenzione nei confronti della Casa del Jazz e della nostra attività. Queste relazioni, in realtà, servono anche perché con l’Auditorium ci promuoviamo un po’ a vicenda e, ovviamente, grazie anche all’aiuto di altri centri di produzione, di altre associazioni, di altri fattori, c’è un passaparola e comunque una divulgazione che va nei canali dedicati al jazz in modo più incisivo rispetto al passato.
Poi, c’è un elemento di fascino che è il luogo dove ha sede la Casa del Jazz. Musicisti che, solitamente, sono parchi di parole e complimenti, come Brad Mehldau o Abdullah Ibrahim che sono rimasti affascinati e ci hanno tenuto a scrivercelo, a dircelo. Anche Darcy James che non era mai venuto; Dave Holland che viene abbastanza spesso e dice che per lui uno dei luoghi più piacevoli dove suonare e se potesse ci vorrebbe venire sempre.
Un altro elemento che secondo me è interessante è anche il lavoro che noi facciamo di scambio e di anche mettere insieme un pubblico diverso. Perché noi già dall’anno scorso, all’interno della rassegna estiva, mettiamo un po’ di jazz più elettronico, più questa serie che noi chiamiamo New Wave anche con i DJ set e altre proposte dirette a un pubblico differente, più giovane, rispetto a quello consueto del jazz. E durante l’anno però all’Auditorium organizziamo dei concerti, come quello di Brad Mehldau, che abbiamo avuto in solo in prima assoluta all’ Auditorium, poi è venuto in trio alla Casa del Jazz e poi è venuto in quartetto. Però questo stimola anche un pubblico diverso. L’anno scorso abbiamo avuto un grande successo con Marcus Miller che ha superato l’anno scorso i 1600 spettatori: più di tanti non potevamo farne entrare per legge! Questo scambio di pubblico lo facciamo spesso.
Una rassegna che si è un po’ spostata temporalmente come Strisce di Terra Feconda diretta da Paolo Damiani, che tradizionalmente si faceva alla Casa del Jazz in estate. Dall’anno scorso noi l’abbiamo spostata in autunno-inverno, in parte alla Casa del Jazz e in parte in Auditorium, e quindi ovviamente questo consente di attingere anche del pubblico diverso che viene in Auditorium per altre manifestazioni e si trova anche una programmazione con il jazz.

Dott. Pitteri, mi viene spontaneo dire: adesso che lei ha terminato il mandato si spera che tutto questo che avete realizzato in questi quattro anni non venga buttato al vento. Sa, spesso quando arriva una nuova compagine, politica o no, tende a spazzare tutto quello che è stato compiuto da chi ha preceduto. Secondo lei si corre questo rischio?
Sinceramente non penso che ci sia questo rischio. E questo lo dico avendo avuto modo di conoscere, perché ci siamo incontrati ovviamente per cominciare a scambiare un po’ di informazioni, il prossimo amministratore delegato Raffaele Ranucci che appunto fra qualche giorno si insedierà con il nuovo consiglio d’amministrazione. Abbiamo avuto modo di confrontarci molto. Lui non è, per sua stessa ammissione, un manager culturale, ma è un uomo di cultura, grande lettore, grandissimo appassionato in jazz e fruitore di jazz: dato molto interessante. E’ sicuramente un manager di gran valore e ha capito bene tutto il lavoro che in questi quattro anni noi abbiamo fatto per solidificare la fondazione e per renderla un modello di fondazione culturale, di impresa culturale italiana, sostenibile, forte, in grado, progressivamente,  se non di raggiungere la piena autonomia da un punto di vista economico-finanziario, quantomeno di avvicinarsi il più possibile a questa autonomia.
Noi l’ultimo anno abbiamo acquisito il 71% di autofinanziamento; cioè, su 33 milioni di fatturato che abbiamo realizzato, di ricavi che abbiamo conseguito, 23 milioni li abbiamo realizzati sul mercato (con le vendite). Quindi questo è un dato abbastanza significativo e lo si può conseguire se hai un’organizzazione molto solida che ha una visione molto chiara sia sul modello gestionale, ma anche sulle finalità che sono quelle di trasformare l’utile economico in investimento culturale e sociale. Penso, anzi sono sicuro, che il prossimo amministratore delegato se ne sia accorto e che gli interventi che farà potranno essere migliorativi ma nel solco che noi abbiamo tracciato in questi anni. Questo è molto importante.

La prestigiosa rivista Down Beat ha definito la Casa del Jazz: «un’esperienza rara non solo per il pubblico ma anche per i musicisti che vengono a suonare». Rispetto a un passato più remoto, che aveva visto una decisa flessione di pubblico, con la gestione della Fondazione Musica per Roma cosa è cambiato?
In realtà abbiamo innanzitutto cominciato a ragionare sulla Casa del Jazz come un luogo dove noi dovevamo lavorare quotidianamente.  Prima dell’amministrazione di cui sono stato l’amministratore delegato, mi sembra che la Casa del Jazz fosse stata già affidata – da una o due stagioni, se non sbaglio – alla fondazione. Però, venivano svolte delle attività, ma non avevamo lì un gruppo di persone, i tecnici, il giusto personale insediato lì.  Quindi, innanzitutto abbiamo fatto questo e ciò è fondamentale. Inoltre, abbiamo fatto anche gli investimenti sia per recuperare parti dell’immobile,  operato dei ristauri e altri interventi di tipo strutturale, ma anche per recuperare lo studio di registrazione che era chiuso da un po’ di tempo e rimetterlo in carreggiata; così anche la foresteria che per lo studio di registrazione è un punto d’appoggio importante. Ci siamo detti che, come fondazione, abbiamo due sedi stabili: l’Auditorium e la Casa del Jazz che vanno trattate esattamente alla stessa maniera. Ritengo che questo sia stato un primo elemento abbastanza importante. Oggi abbiamo un nucleo di persone che quotidianamente va al lavoro per la fondazione presso la sede Casa del Jazz. Poi, ovviamente, abbiamo guardato alla Casa del Jazz all’interno di una modalità complessiva. E’ stato uno degli obiettivi e noi ci siamo posti, quello di farlo diventare uno dei punti di riferimento nazionale eccetera.

Quali sono le maggiori difficoltà che ha incontrato nella gestione di questo sito?
Da un punto di vista strettamente operativo nessuna perché abbiamo avuto poca attenzione sia in positivo che in negativo da parte degli enti  nostri soci, quantomeno nei confronti della Casa del Jazz. Quindi, tutto sommato, abbiamo potuto lavorare in piena libertà, in piena autonomia, riuscendo ad andare avanti con un sistema di questo genere creando ciò che ho detto prima.
Questa mancanza di attenzione, diciamo questo basso livello di attenzione, però, ha creato un po’ degli equivoci con alcuni ai nostri soci e la difficoltà è stata soprattutto questa. Perché il jazz è un settore molto particolare. Faccio sempre questo paragone: se si chiamasse Casa della Musica Contemporanea avremmo esattamente lo stesso livello di difficoltà che abbiamo a far capire a un non esperto che cos’è il jazz e che cos’è la musica contemporanea, no? Allora molto spesso la politica o i rappresentanti della politica o degli enti non hanno una piena comprensione di cosa sia il jazz, quindi guardano il programma e dicono: Ma io qua non vedo nessun nome che conosco! Perché purtroppo è questo uno dei problemi che si crea. Quindi si viene accusati di fare una programmazione di basso livello e tu devi fare un grande sforzo per riuscire a far capire che non è una programmazione di basso livello, innanzitutto perché i numeri dicono il contrario. Per esempio, Darcy James quest’anno ha fatto due concerti in Europa e ci siamo dovuti associare agli altri due organizzatori per farlo venire a Roma. Certo se ci fosse stato il nome, per esempio, di Achille Lauro, con tutto il rispetto per quest’ultimo, nessuno avrebbe avuto nulla da dire.
Le difficoltà ci sono e purtroppo si sono poi concretizzate in una situazione nella quale abbiamo operato nell’ultimo periodo perché noi anche per poter programmare avevamo chiesto di avere una prospettiva temporale più lunga di affidamento della Casa del Jazz. Invece, sostanzialmente, il contratto ce lo rinnovano di anno in anno e questo è abbastanza complicato perché i tempi della politica non sono mai velocissimi. Se ti rinnovano l’incarico lo fanno alla fine dell’anno e già si dovrebbe avere una programmazione. Ecco, questo è un aspetto complicato.
Però, nonostante questo siamo riusciti, almeno credo, a gestire abbastanza bene queste difficoltà rischiando, altrimenti non vai avanti e non riesci a costruire la credibilità di un luogo e di una fondazione culturale che è quello di garantire una continuità di programmazione delle attività: purtroppo i tempi e la politica non corrispondono ai tempi della gestione delle attività culturali.

Oltre al CDA cambierà anche la direzione artistica della Casa del Jazz?Penso di no. Innanzitutto perché Luciano Linzi è una delle poche figure in Italia ad avere una grandissima esperienza e una preparazione profonda in ambito jazzistico e non solo. Poi, mi pare che ci sia una visione, sicuramente in una prima fase, di continuità sia da un punto di vista gestionale che da un punto di vista di programmazione anche perché ovviamente buona parte della programmazione di settembre (e non solo) è già fatta.
Sono convinto che ci sia un margine di miglioramento nella fondazione rispetto a quello che si è fatto negli anni e quindi di garantire ancora un livello anche qualitativo superiore a quello che siamo riusciti a fare noi in questi anni o quantomeno mantenerlo adeguato allo stesso livello.

Dottor Pitteri, vorrebbe fare un breve consuntivo di questi quattro anni?
Questa esperienza la giudico sicuramente molto positiva costellata da una serie di elementi importanti, anche a livello personale; la giudico positiva per un insieme di cose innanzitutto perché ho avuto qui la fortuna di trovare e di condividere questa esperienza con consiglio di amministrazione molto attento, molto partecipe, molto presente con cui abbiamo condiviso, sin dall’inizio, tutte quante le scelte. E questo, ovviamente, è molto importante perché solidifica moltissimo e, soprattutto, fluidifica i rapporti; secondo elemento che, ovviamente, è fratello se non figlio del primo, è che noi abbiamo subito fatto un piano industriale a quattro anni dove abbiamo fissato una serie di obiettivi di natura organizzativa gestionale culturale economica con i business plan che venivano aggiornati di anno in anno, con gli obiettivi. Questo è stato importante, perché ci ha creato una rotta e d’altra parte ci ha portato a dire c’eravamo posti questi obiettivi li abbiamo raggiunti tutti alcuni addirittura ampiamente superati. Penso ai ricavi che avevamo previsto alla fine del 2024: 28 milioni; ricavi che alla fine del 2023 avevano superato il 32 milioni.
Non dimentichiamo anche il periodo in cui si è insediato il CDA: 2020, in piena pandemia. Con il rischio di avere una Ferrari e doverla tenere ferma ai box e spendere, almeno, 10 milioni di euro all’anno senza produrre alcunché, viste le profonde restrizioni, che tutti ricordiamo, imposte – giustamente -dal governo.
Fortunatamente è andata bene. Da ogni punto di vista.
Alceste Ayroldi
* Musa Foto

 

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