Buongiorno Claudio, benvenuto a Musica Jazz. C’è un momento nella vita di un musicista di affrontare in solitario approccio il proprio strumento. Forse, per i pianisti è quasi un atto dovuto. Come e perché hai scelto proprio questo momento per realizzare «Piano Solo Live»?
Il piano solo mi affascina da sempre. Offre una grande libertà e permette di creare una gamma infinita di colori, variegati e contrastanti. «Piano Solo Live» è un disco creato dall’unione di diverse esecuzioni fatte negli ultimi anni. Ho deciso di realizzarlo in questo momento perché dopo tanti anni di studio e concerti dal vivo, sentivo l’esigenza di avere qualcosa che rappresentasse in sintesi il mio percorso musicale ed emotivo.
Immagino che di registrazioni di tuoi live tu ne abbia diverse. Perché hai scelto proprio questa di Vevey?
Sono molto legato a questo luogo. Un po’ di anni fa, vinsi un premio al concorso internazionale di Montreux, da quel momento iniziai un tour in piano solo in Europa, che fu per me una bellissima esperienza. Uno dei concerti fu proprio a Vevey con la collaborazione del Montreux Jazz Festival. Una serata di musica dedicata interamente al pianoforte, nella quale mi trovai sul palco con quattro pianisti jazz e quattro pianisti classici straordinari, selezionati in tutto il mondo. Un’esperienza unica.
La circostanza che tu abbia scelto di produrre il tuo primo disco in solo con un live, mi lascia presumere che tu preferisca l’approccio istintivo rispetto a quello più ovattato dello studio. Mi sbaglio?
Sì, mi piace molto il live. In questo disco, volevo mettere al centro di tutto l’istintività, il momento, l’emozione e l’ispirazione che mutano in relazione al luogo in cui si suona. Devo dire che amo anche l’ambiente dello studio, mi piace molto passare le giornate a registrare, riascoltare e creare musica. Per questo mio esordio in piano solo però, sono felice di aver fatto questa scelta del live perché volevo un disco appunto più istintivo.
A tal proposito, qual è il tuo approccio alla composizione? Come nasce un tuo brano?
Il mio approccio alla composizione è spesso diverso. A volte le idee arrivano così all’improvviso e l’elaborazione scorre veloce, altre volte invece occorre più tempo per manipolare il materiale sonoro. Non c’è una formula fissa o prestabilita, spesso mi baso sull’istinto e l’ispirazione del momento. In generale cerco di partire da una cellula che può essere una melodia, un giro di accordi o più in generale, un’idea. Quando sento che questo elemento musicale di partenza funziona, sviluppo di tutto il resto. Traggo ispirazione da forme musicali molto diverse come il jazz, la musica classica oppure quella tradizionale, l’avanguardia e l’elettronica.
Seppur fugace, tra Charlie Parker e Bernard Herrmann troviamo Bach. Qual è il tuo rapporto con la musica classica?
La musica classica mi ha accompagnato da sempre. Per un breve periodo ho pensato di dedicarmi quasi totalmente alla classica, ma alla fine il jazz ha vinto! Mi piace mescolare queste due forme che mi hanno influenzato e fin dall’inizio, sono stato alla ricerca di un mio stile personale che potesse essere anche una fusione tra jazz e classica. A volte quando improvviso, mi diverto a inserire dei colori provenienti dalla musica di Bach, Chopin, Ravel oppure Rachmaninoff. Nel mio percorso inoltre, ho avuto anche la fortuna di studiare improvvisazione barocca con un organista straordinario che è Fausto Caporali. Questa pratica mi ha aperto la mente verso un modo totalmente diverso di improvvisare rispetto a quello del jazz. Come esercizio stilistico, infine, mi diverto spesso a improvvisare in diversi stili classici tra cui: Bach, Chopin, Debussy.
Invece, con la tradizione jazzistica?
Il jazz è la forma d’arte che più mi appartiene. Ho iniziato molti anni fa grazie ad un disco di Michel Petrucciani. Nel corso degli anni ho esplorato diversi stili, dal più tradizionale a quello più moderno. Come pianisti adoro Art Tatum, Phineas Newborn Jr., Earl Hines, Erroll Garner, Bill Evans, Thelonious Monk, McCoy Tyner, Chick Corea e tanti altri. Ho affrontato lo studio di questi giganti del pianoforte uno per volta, nel mio percorso musicale. Ho avuto momenti in cui mi immergevo totalmente nella musica di uno di questi straordinari artisti e poi magari in un periodo successivo passavo a un altro. Ad esempio, un anno fui preso dalla musica di Bill Evans e ascoltai soltanto i suoi dischi, cercai di andare il più a fondo possibile nello studio della sua arte, approfondendo il suo stile e il suo tocco sul pianoforte. L’anno successivo, cambiai radicalmente e feci una “full immersion” nella discografia di McCoy Tyner.Per quello che riguarda il jazz moderno, sono molto attratto dalla musica di Craig Taborn, Tigran Hamasyan e infine Nikolaj Kapustin che credo abbia creato una sintesi straordinaria tra jazz e musica classica.
Ritieni che la tradizione sia fatta per essere superata o emulata?
Penso che la tradizione sia molto importante per ogni musicista perché offre una base solida per affrontare qualsiasi tipo di repertorio jazz e non solo. È inoltre fondamentale avere una conoscenza approfondita della storia e dei diversi interpreti del piano jazz. Una volta che le fondamenta musicali sono solide, è altrettanto importante trovare un proprio suono, una propria identità musicale. Da quest’ultimo principio si può poi arrivare a evolvere la tradizione e cercare di creare qualcosa di nuovo e personale. Il jazz, infatti, è sempre stato un genere in continua evoluzione, aperto alle più diverse influenze, questa è una delle caratteristiche che lo rendono una forma musicale così straordinaria e fantasiosa. La tradizione può quindi diventare il terreno sul quale costruire la propria personalità.
Quali ritieni essere, fino ad ora, i passaggi fondamentali nella tua vita artistica?
Sicuramente lo studio della musica classica con Bertoncelli, Ciampi, Venturi e l’incontro con la straordinaria pianista classica Wonmi Kim che ha letteralmente cambiato il mio approccio tecnico sullo strumento. Oltre a questo, il mio primo approccio da autodidatta all’improvvisazione da bambino è stato molto importante. Infatti, anche adesso quando improvviso, spesso mi ritrovo a pensare in quel modo molto semplice e istintivo che adottavo quando iniziai da piccolo. Infine le collaborazioni e la pratica “sul campo” con i vari artisti di jazz straordinari che ho avuto la fortuna di incontrare negli anni. Ognuno di loro mi ha dato spunti e ispirazione. Tra i vari artisti cito in questo caso Joe Locke e Tiger Okoshi che hanno anche scritto le note di copertina del mio disco.
Claudio, il sistema dell’industria musicale italiana ha bisogno di un cambiamento?
Penso che in Italia ci siano tantissimi artisti che meriterebbero tanto. Sicuramente il momento storico non è dei più felici, sarebbe bello agevolare di più i musicisti italiani giovani che fanno dischi di jazz aiutandoli nella produzione e nella distribuzione per creare fermento e musica nuova.
Quando scegli uno standard jazz, lo fai pensando al tuo strumento?
Lo scelgo in base alle emozioni che mi da quel brano e a quello che voglio esprimere in quel determinato momento o contesto. Non penso tanto al mio strumento, ma più a un fattore emotivo. Mi piacciono molto le classiche canzoni jazz del repertorio di Porter, Gershwin, Kern, Berlin, Van Heusen, Duke. Oltre a questo, sono un grande appassionato delle composizioni di Monk, Coltrane, Evans, Davis, Shorter.
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi a medio tempo?
Pubblicare i miei cd che ho in cantiere da molto tempo, tra cui un album che vede la collaborazione di Gretchen Parlato, un singolo con Dave Weckl e tanti altri progetti.
Invece, quali sono i tuoi prossimi impegni?
Ho diversi concerti in piano solo e altri in trio a mio nome da luglio a ottobre in Italia. Poi dalla prossima primavera probabilmente sarò in tour in Europa e Giappone. Nei prossimi tre mesi oltre ai miei progetti in trio e solo, lavorerò in Italia con diverse formazioni tra cui: il quartetto di Eleonora Strino con De Rossi e Corini, il gruppo Pericopes con Vernizzi e Bellavia, il trio con Frattini ed Evangelista, la formazione con Hiorth e Principato, quella con Frank Martino e l’organizzazione di Art World, Alto Reno Jazz Festival con Pizzuti in collaborazione con Bologna City of Music e Ascom.
Vorrei infine ringraziare Encore Music per la produzione del disco, Danilo Bazzucchi per l’ufficio stampa e Musica Jazz per questa bellissima intervista.
Alceste Ayroldi