«Entronauta». Intervista a Bungaro

Un lavoro di introspezione che mette in chiaro, ancora una volta, le indubbie doti autoriali del cantautore pugliese.

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Tony, mi piace sempre partire dal titolo di un lavoro discografico. L’Entronauta. Scanziani ha inventato la parola entronauta per indicare un uomo o una donna che sceglie di orientare la propria vita intorno al suo principio essenziale o alla ricerca di questo principio. Qual è il tuo principio?
Sentirmi libero, essere fedele al mio sentire. Un po’ come un cane sciolto che scava con la fame, la sete e la vita negli occhi.

Dopo «Maredentro», «Entronauta»: un’altra introspezione, un altro viaggio nell’Io. In realtà, tutte le tue produzioni personali hanno un po’ questa matrice. C’è un motivo in particolare che ti spinge verso questa direzione?
Ogni volta che inizia un nuovo viaggio da percorrere, il mio cuore si apre a tutto senza riserve. È sempre così, cerco di sentire a che punto sono dentro di me e dove sto andando. È tutto molto stimolante e naturale. Interpello sempre l’ispirazione: non potrei mai costruire un progetto senza di lei. Ho imparato ad aspettarla e, poi, violentemente arriva con le sue parole, la sua musica e i suoi suoni. Magicamente inizia la costruzione del disco. Scrivo tanto e poi prendo le canzoni migliori.

In questo lavoro hai fatto ricorso anche alla dizione vernacolare brindisina. Quasi a rimarcare il tuo ritorno alle radici. Perché hai sentito questa esigenza?
Le mie radici, la mia provenienza, la mia terra di Puglia, sono state sempre complici della mia follia creativa. Nei miei concerti e nei miei dischi ho sempre cantato in dialetto brindisino. È meraviglioso cantare la gioia e il dolore del mio Sud, sentire il profumo della nostalgia e la potenza del mio Salento.

Parliamo dei musicisti che ti accompagnano.
Beh, i miei amici, una band fantastica. Musicisti straordinari, siamo una famiglia compatta e poi c’è tra di noi un sound perfetto. Antonio Fresa che da un po’ di anni produce ed arrangia con me. C’è un feeling pazzesco! Quando inizio a produrre con Antonio c’è un gioco continuo di emozioni, ci facciamo dei viaggi in giro per il mondo mentre arrangiamo e quando siamo in dirittura d’arrivo si va in studio con tutta la band che è complice già dalle prime note della pre-produzione. Si crea sempre condivisione. Arriviamo già con le idee chiare e le emozioni tra le mani. Marco Pacassoni con il suo vibrafono, marimba e percussioni e Antonio de Luise al contrabbasso, danno un tocco magico a tutto il progetto sonoro. Fresa con le trarne del pianoforte ed io con la mia chitarra, voliamo come dei missili. La regola è: divertirci ed emozionarci. Poi, alla fine arriva l’orchestra di archi a sposare le parole, la musica e gli arrangiamenti creati. È una sensazione unica.

E, quindi, degli ospiti. Perché hai scelto proprio Fiorella Mannoia, Saturnino, Carlo Di Francesco, le Faraualla, Raffaele Casarano, Ninon Valder e Pino Insegno?
Sono ospiti che ho scelto per stima, amicizia e perché li ho sentiti in sintonia con «Entronauta». Una scelta naturale. E sapevo che avrebbero contribuito alla grande. Così è stato.

Quando è nata l’idea di questo lavoro e, nel corso del tempo, ha rispetta l’idea primigenia?
L’idea è nata due anni fa. Da subito. Quando c’è urgenza e amore puro, la musica e le parole non dirottano mai, sanno sempre cosa dire e dove andare.

Cito da Anna siamo tutti quanti: «Abbiamo imparato a vivere veloce senza guardare mai indietro». Dal tenore delle tue parole, si evince che non sia una scelta giusta. Mi sbaglio?
0ggi tutto si consuma velocemente, non ci si ferma, l’attesa è seducente, ti sa aspettare. Se ti trova pronto velocizza lentamente il processo dell’andare verso le cose belle senza mai perderti.

A proposito: a chi è dedicato questo brano?
A mia madre Anna. Una donna coraggiosa, semplice, gentile e potente.

Invece, Amalia a chi è dedicato?
Ad Amalia Rodrigues, la regina del fado. Durante la scrittura di questo pezzo ho fatto fatica. Scrivevo e buttavo via. Nel testo non sentivo il fuoco sacro, è stato un parto. Per me onorarla era troppo importante. E una notte mentre ero in vacanza a Pisticci, arrivò prepotentemente. Avevo capito dopo che avrei dovuto scriverla in brindisino. La penna scorreva come fossero lacrime  d’inchiostro. In un’ora la scrissi, testo e musica. Finalmente Amalia potevo guardarla negli occhi ed ascoltarla con la sua voce lucente.

 

Tony, possiamo parlare di un concept-album?
Assolutamente sì. Ogni canzone ha bisogno dell’altra fino ad arrivare alla fine del disco senza mai abbandonarlo. È un viaggio che ha bisogno di un ascolto leggero e profondo senza interruzione come guardare un film o un tramonto.

Un disco sicuramente d’autore, di alto profilo. Però, ci sono parecchi riferimenti anche al jazz. Qual è la tua relazione con questo genere di musica?
Il jazz è un sentimento. È arte musicale allo stato puro. È conoscenza. Ho sempre amato il jazz. È vero, nei miei dischi c’è sempre questa bellissima forma musicale che si alchimizza con le mie canzoni e mi piace la mistura cinematografica che ne esce fuori.

Quando hai deciso che avresti fatto della musica la tua professione?
All’età di sette anni ero già sul palco «cu lu fuecu ntra li uecchi» (con il fuoco negli occhi) così mi descrisse Domenico Modugno quando lo incontrai a tanti anni di distanza. Mi disse: «Sei nato con il fuoco negli occhi». Non potrò mai dimenticare il grande genio. A dodici anni la mia prima chitarra. Non l’ho mai mollata. Ricordo il mio primo viaggio da Brindisi a Roma direzione Siae viale della Letteratura. Avevo 16 anni e feci l’esame. Mi sentivo il ragazzo più felice del mondo, finalmente autore e compositore non trascrittore.

Parliamo del tuo approccio al processo creativo. Da cosa parti nel momento in cui devi comporre un testo o un brano? Ci sono degli step che rispetti in tale processo?
Non c’è una regola. A volte parto da un titolo che mi colpisce e mi si aprono molte porte e tante possibilità. Ci sono delle volte che sento l’urgenza e l’ispirazione di raccontare una storia e mentre la scrivo nasce già nella mia testa la melodia. Mi è capitato ogni tanto e nei momenti più leggeri di suonare un inciso e scrivere contemporaneamente le parole. È successo in questo disco con Zen e Ti tau.

Quali sono le trappole da evitare per non cadere nella banalità?
È una faccenda molto delicata la scrittura delle canzoni. Specialmente in lingua italiana. Ci vuole un attenzione senza strategie. Se ti tieni lontano dalla retorica e dalla prevedibilità, è difficile cadere nella trappola della banalità. Il tuo sentire lo devi allenare a starne lontano. Scrivere è un gioco serio.

La canzone come messaggio sociale prende sempre più piede. Cosa ne pensi?
La canzone d’autore ha sempre uno sfondo sociale e sa dove andare. Viene sempre accolta da un pubblico pensante che la tiene in vita per sempre. Se pensiamo che La storia siamo noi di De Gregori, Povera patria di Battiato, Notte in Italia di Ivano Fossati e Futura di Lucio Dalla (tanto per citartene alcune) non moriranno mai. Restano nel cuore e nella memoria delle persone a vita.

A cosa può servire una canzone (d’autore) al tempo della dittatura pop e dell’assopimento generale dei cittadini-ascoltatori?
A fare la differenza. Chi ascolta la musica con la testa ed il cuore non lo fotti. Sono quelli educati ai concerti, alle mostre nei musei, alla lettura, al cinema, al buon cibo per la mente, alla natura. Quel pubblico esiste e tiene in piedi il mercato della musica d’autore e della cultura. Il resto sono chiacchiere e canzoni da tritare in tre mesi e poi svaniscono, spariscono nel nulla.

Un tempo il legame tra cantautori e impegno politico era quasi indissolubile e, in parte, imprescindibile. Tu, come hai vissuto quel periodo?
Vissuto male. Io ero a cavallo degli anni Novanta quando ho iniziato seriamente a fare questo splendido mestiere. Ero affamato e cercavo di seguire le orme e il modo di lavorare come si faceva a Roma al Cenacolo. Un vivaio di cantautori con le palle. Lì si collaborava e ci si scambiavano idee e canzoni. Sono nati artisti come Rino Gaetano, Riccardo Cocciante, Dalla, Venditti e tanti altri. Poi ho rinunciato a parte qualche episodio. Ricordo un Festival di Sanremo in tre sul palco. Io, Rosario di Bella e Marco Conidi. Quella canzone fu un successo. Purtroppo all’estero c’è una cultura e una forma mentis completamente diversa. Lì c’è uno scambio costante tra autori ed artisti.

Quali sono i tuoi riferimenti stilistici e, se ce ne sono, storici?
Pane e Modugno, Dalla, Tenco, Endrigo, Battiato, David Byrne, Elvis Costello, Sakamoto, Caetano Veloso e tanti altri.

Pensi che la creatività sia una dote innata o può essere anche insegnata, coltivata?
Credo sia una dote innata ma guidata da chi ha più esperienza di te diventa un valore aggiunto.

A tal proposito, tu svolgi anche attività didattica?
Sì, da circa quindici anni faccio masterclass sulla scrittura, l’interpretazione e la produzione artistica. È uno scambio che mi piace tanto, dare input a nuovi autori, cantautori e producer. Oggi se decidi di fare musica, produrla e scrivere canzoni, devi avere una mente apertissima e una conoscenza a 360 gradi.

Quali sono state, tra le tue tante collaborazioni quelle più significative?
Quasi tutte le mie collaborazioni, le ho desiderate e hanno avuto un senso. Forse le più emozionanti: Ivan Lins, Omar Sosa Miùsha Boarque de Hollanda, Paula Morelenbaum, Fiorella Mannoia e Ornella Vanoni.

La circostanza che i tuoi testi siano scritti in lingua italiana ha penalizzato la tua visibilità a livello internazionale?
Fortunatamente no. Avendo collaborato con molti artisti internazionali, i testi delle mie canzoni venivano sempre tradotti in portoghese o in francese e addirittura in gaelico. Ricordo una bellissima versione di una mia canzone tra me e Kay McCarthy che cantava in gaelico le mie parole o Youssou N’Dour che aveva tradotto in francese Guardastelle e poi quel Brasile prezioso della canzone d’autore che ha portato alla luce alcune mie canzoni. Ma Il miracolo più bello, è la contaminazione con la mia lingua e la loro, duettando insieme.

Quanto è importante la ricerca nel lavoro di un autore/cantautore?
Per me è totalizzante. Se non c’è curiosità, approfondimento e sperimentazione tra il linguaggio delle parole e la musica, rischi di ripeterti senza una vera evoluzione.

La biografia presente sul tuo sito menziona un aspetto che reputo molto interessante. Ti definisci un «artigiano della musica». Puoi spiegarci questo concetto?
È semplice. Mi piace costantemente scolpire ogni nota e ogni parola, rispettandole. Come quando vedi una casa arredata con dettagli particolari e degli elementi naturali: la pietra, il legno e il ferro. Io sono così.

Il deserto, Il mare immenso, Il prato, Guardastelle, ma anche nel testo di Nottambula, sembra che tu presti molta attenzione al paesaggio. Quanto il paesaggio è importante nella tua vita personale e in quella artistica?
È vitale. I miei occhi cercano sempre il panorama e spesso li faccio perdere in questi paesaggi. Non posso farne a meno dei tramonti e delle albe.

La tua carriera è costellata di grandi successi come autore, interprete, produttore, talent scout, ed è iniziata quando ancora i dischi si vendevano. Vista la tua esperienza, cosa pensi della crisi del mercato discografico?
Era inevitabile. Oggi puoi trovare tutto velocemente, scarichi gratuitamente. C’è tanta musica, di ogni tipo. Ma la cosa che mi diverte e che pochi sanno, è che ne trae vantaggio la musica di qualità perché gli artisti che lavorano su un livello più alto, non subiscono questa crisi, hanno un’attività concertistica costante, uno zoccolo duro, suonano, vendono i loro dischi dal vivo ed hanno un pubblico concreto e fedele.

Sempre in ragione della tua esperienza, il sistema Musica (da un punto di vista artistico, socio-economico, politico) funziona bene in Italia?
No. Ne abbiamo avuto esempio in questo periodo difficile dove la musica, la cultura e tutte le forme d’arte, sono state messe da parte senza alcun tipo di protezione e di sostegno. L’arte è un bene di tutti, non è soltanto intrattenimento, è cibo per la mente. In altri paesi come in Francia, i musicisti professionisti vengono tutelati.

Chi è il tuo mentore?
La fede.

Qual è il tuo disco preferito in assoluto?
Dammi la possibilità di dirtene quattro: Elvis Costello e Bacharach; Battiato «Come il cammello in una grondaia»; «Secret Story» di Pat Metheny; «La llorona» di Lhasa de Sela e poi ce ne sono tanti altri che ho amato e amerò per sempre.

E il libro?
Il piccolo selvaggio di Alexandre Jardin.

Cosa è scritto nell’agenda di Bungaro, quali impegni e obiettivi ci sono?
Concerti, masterclass, produzioni e ritorni sempre più costanti nella mia terra pugliese.
Alceste Ayroldi