L’importanza di conoscere la tradizione: intervista a Bruno Castellucci

Il batterista italo-belga ha alle spalle una lunga collaborazione con Toots Thielemans, ma nella sua lunga carriera ha collaborato anche con i giganti del jazz: Chet Baker, Jaco Pastorius, Clark Terry, Freddie Hubbard, Coleman Hawkins, Phil Woods, Bobby McFerrin, Joe Pass.

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Bruno Castellucci

Bruno, le tue origini sono chiaramente italiane, anche se sei nato in Belgio. Qual è la tua storia in rapporto alle tue origini?
Sì, sono italiano anche se sono nato in Belgio, a Châtelet nel 1944. E il rapporto con le mie origini è appassionato, perché mi sento più italiano degli italiani che vivono in Italia! Quando torno a Urbino – città natale della mia famiglia – e sto lì tre o quattro giorni, mi sento meglio. I miei genitori sono entrambi di Urbino, anche se si sono conosciuti qui in Belgio. Quando sono in giro, anche in Belgio, mi chiedono se sono italiano e io rispondo di sì, anche se sono belga.

Nel corso del tempo, hai mantenuto rapporti con l’Italia anche artisticamente?Spesso sono in vacanza in Italia, anche per visitare i parenti. Dal punto di vista musicale, invece, i rapporti sono molto pochi. Poche anche le volte in cui ho suonato in Italia; a mia memoria sono stato nel 1966 alla Selva di Fasano con i Marena e Fausto Papetti e vi sono rimasto per l’intera stagione estiva, circa due o tre mesi; poi con Toots Thielemans. Ho conosciuto molti musicisti italiani in Germania e in Austria: un grande pianista di Udine, Glauco Venier, con cui ho suonato nella stessa orchestra tedesca per una decina di anni: facevamo dei tour con la Skoda e c’era anche Norma Winstone. Ho incontrato anche delle cantanti italiane, dal momento che prendevo parte a trasmissioni televisive quando suonavo con l’orchestra di Peter Herbolzheimer. Ho conosciuto Milva che, a essere sincero, dava un sacco di fastidio, e Ornella Vanoni, eccellente persona. Poi ho suonato diverse volte al festival che si teneva a Villa Celimontana con Claudio Roditi.

In the recording studio for the album Bim bim of the drummer Bruno Castellucci.
Riccardo Del Fra (double bass), Bruno Castellucci (drums), Toots Thielemans (harmonica),
Peter Tiehuis (guitar/NL) and Michel Herr (piano, keyboards).
Jet studio, Brussels, 1989. Photo © www.jackylepage.com

Hai accompagnato praticamente tutti i musicisti americani che venivano in Europa. Quando è iniziata la tua carriera di musicista e perché hai scelto questa professione?
Ho cominciato a dodici anni nella balera di mio padre. In verità ho studiato pianoforte qui in Belgio. Poi ho visto un film che mi ha folgorato: Benny Goodman’s Story, e il batterista mi colpì così tanto che decisi di studiare la batteria jazz e mi recai in una scuola di musica, ma mi buttarono fuori! Perché il jazz in quegli anni (più o meno intorno alla metà degli anni Cinquanta) non era visto di buon occhio. Così sfruttai la balera di mio padre: rompevo le balle a tutti i musicisti per poter suonare. Una sera un batterista dette forfait, così lo rimpiazzai io e finii per suonare ogni domenica. Il jazz, a parte il film su Benny Goodman, l’ho scoperto grazie a una trasmissione radiofonica francese che andava in onda ogni giorno dalle 22.30 a mezzanotte, condotta da Frank Ténot e Daniel Filipacchi.

Chi è il tuo batterista par excellence?
Quando andavo a scuola, passavo davanti a un barbiere che ascoltava sempre musica jazz, e io mi sedevo e ascoltavo. Una volta ascoltai Art Blakey e mi innamorai di lui. Comunque mi è difficile rispondere con precisione, perché ho iniziato con la musica leggera e e ho attraversato tante musiche. Poi con le trasmissioni radiofoniche ho scoperto i grandi batteristi jazz come anche Gene Krupa, Elvin Jones, Tony Williams e tanti altri. E’ difficile nominarne uno solo, perché sono tutti indispensabili.

Chi è stato il primo big della musica con cui hai suonato, e come andò?
Nel 1962 suonai al primo festival dedicato ad Adolphe Sax a Dinant e vinsi un premio; in verità eravamo un quartetto e lo vincemmo tutti e quattro. Poi, a Liegi, mi presentarono Bobby Jaspar e René Thomas: ero in paradiso, perché ormai facevo parte di quella musica che avevo sempre ascoltato per radio. Bobby Jaspar mi scrisse su una piccola busta una frase della quale non capivo il significato, perché all’epoca non conoscevo l’inglese: Keep going like that! Era il mese di giugno del 1962.

Hai collaborato con tantissimi musicisti, di alcuni dei quali parleremo tra poco. Potremmo partire con il tuo connazionale Toots Thielemans. Quali sono i tuoi ricordi?
In verità, Toots aveva un passaporto americano, pur essendo belga a tutti gli effetti. È stato un onore aver suonato con lui. La prima volta mi chiamarono verso le dieci del mattino per sapere se a mezzogiorno ero libero per suonare con Toots, perché il suo batterista aveva un impegno in tv e non poteva liberarsi. Accettai immediatamente e, dopo aver montato la batteria e un fugace saluto, suonammo il primo brano, al termine del quale lui mi disse: «Welcome on board». E così sono stato per quarantadue anni il suo principale batterista. Toots era un personaggio accattivante. Ho imparato tanto da lui, ma non solo per quanto riguarda la musica. Una sera, diversi anni fa, eravamo a casa sua; venne a trovarci un giovane e bravo musicista e Toots volle sentirlo. Il giovane faceva frasi brevi, intense, molto virtuose. Toots gli disse: «No, no. Fammi sentire come suoni la melodia, così posso vedere come suoni». E scoprimmo che, nonostante tanta tecnica, l’interpretazione del ragazzo era molto debole. Tutto questo mi fece riflettere anche sulla concentrazione: devi pensare solo a ciò che stai suonando, non ad altre cose.

Castellucci con Toots Thielemans

Hai collaborato anche con alcune prestigiose orchestre e big band, come quelle di Peter Herbolzheimer, Bob Mintzer, Francy Boland e la Count Basie Orchestra. Quali sono le differenze per un batterista nel suonare in una big band e suonare in altre formazioni più piccole?
Suonare in big band significa che devi suonare per l’orchestra e prestare molta attenzione; altrimenti non ci sono grandi differenze. E questo, secondo me, vale per tutti gli strumenti. Nella big band ci sono due motori, il contrabbasso e la batteria; e poi le prime parti delle sezioni, come la prima tromba, il primo alto, il primo tenore e così via, che danno immensità all’orchestra. Per il resto, è come declamare un testo in due differenti modi. Per suonare in orchestra devi essere mentalmente agile.

Tra le tue collaborazioni spiccano anche Chet Baker, Jaco Pastorius, Clark Terry e Freddie Hubbard, Coleman Hawkins, Phil Woods, Bobby McFerrin, Joe Pass, solo per citarne alcuni. Quali sono i tuoi ricordi su questi grandi musicisti con cui hai collaborato?
Chet era un gigante, uno dei più importanti musicisti al mondo: quando lo senti improvvisare non ha frasi preparate, è sempre spontaneo. Così come Toots, che riusciva ogni volta – nonostante suonassimo insieme da tanti anni – a sorprendermi per tutte le nuove cose che gli sentivo fare. Jaco era un genio, una bomba: ha bruciato la candela da entrambe le parti, come si dice. Poteva fare qualsiasi cosa, era un grande arrangiatore e cantava benissimo. La prima volta che l’ho sentito io suonavo con lui ed eravamo a Berlino, alla Philharmonie; e lì fu buttato letteralmente fuori. Il pubblico di Berlino fa paura, soprattutto quello della Philharmonie. Dopo due brani, Jaco fu costretto a uscire quasi tra le lacrime, perché il pubblico non accettava la sua musica. In seguito suonai con la big band e al trombettista non fecero neanche finire l’assolo: fischi, urla, richieste di andar via. Un comportamento non molto comprensibile. Comunque il pubblico di Berlino ha sempre avuto la reputazione di essere molto difficile. Clark Terry è stato un immenso trombettista, è il padre di tutti i trombettisti moderni. Freddie Hubbard, invece, era uno a cui piaceva stupire: arrivava e, senza riscaldarsi, partiva come un treno. E gli altri trombettisti dicevano: «Ma è pazzo! Così si rovina». E si è rovinato per davvero. Era speciale, si riteneva nato con la tromba e non aveva nulla da imparare. Devo dire che sono stato molto fortunato a poter suonare con tutti questi giganti e da ognuno ho potuto imparare tanto.

Con Coleman Hawkins

A proposito: tra i tanti grandi con i quali hai collaborato, qual è stata l’esperienza che giudichi più positiva e quella più negativa?
Di momenti bui, nel senso letterale del termine, non ne ricordo. Perché ritengo che ogni esperienza abbia la sua validità, indipendentemente da come si è evoluta e da quale sia stata la sua riuscita. Tra i migliori, tantissimi. Per esempio quando ho suonato con Chaka Khan, con la quale entrai in perfetta sintonia fin da subito. Lavoravamo in uno studio di registrazione in Germania e ci siamo intesi all’istante. Lei è una bravissima cantante jazz, tra l’altro. Un’altra che mi ha colpito è stata Dianne Reeves: ha dentro di sé il jazz, l’Africa e anche il Brasile e può mescolare tutto quanto a meraviglia, come solo lei sa fare.

Quando è nato il tuo primo gruppo da leader?
Partiamo dal fatto che non ho, o non mi sento, di avere l’anima da leader. Ho comunque organizzato alcuni gruppi, alcune orchestre. Un giorno un produttore tedesco mi disse: «Registra un disco, che te lo produco e te lo distribuisco io». Alla fine mi dissi: e ora? Pensai a questo disco, «Bim Bim», come a un viaggio musicale, dall’Africa all’America, al Brasile. Poi ne ho fatto un secondo con un quartetto d’archi e un terzo con John Taylor al pianoforte, nonostante a un festival mi avessero chiesto degli americani: ma io preferisco gli europei. Nel gruppo c’era anche Stan Sulzmann e, visto che il concerto andò alla grande, il produttore mi convinse ad andare in studio e registrare.

Tu hai suonato con tantissimi grandi musicisti statunitensi, ma hai anche contribuito in modo consistente alla formazione di quello che viene chiamato “jazz europeo”. La prima domanda è quali sono gli elementi che caratterizzano il jazz europeo e, a tuo avviso, chi sono stati i “pionieri” del jazz europeo?
Uno dei primi, veri e propri movimenti del jazz europeo proviene dai paesi del Nord: Norvegia, Svezia, Danimarca, che avevano melodie molto aperte; poi la Germania e la Polonia con il free jazz e, ancor prima, la Francia con la musica manouche di Django. L’Inghilterra e l’Olanda, invece, sono sempre state più tradizionaliste. In Belgio c’è sempre stata una grande rivalità tra i vari musicisti. Però non esistono degli elementi che marcano effettivamente il jazz europeo.

Castellucci e Toots Thielemans

Attualmente come giudichi la scena jazzistica in generale (sia europea che statunitense)?
Non benissimo, perché mi sembra che la nuova generazione europea non tenga conto a sufficienza della tradizione. Non pretendo che i nuovi musicisti debbano suonare come i grandi del passato, ma che almeno ne siano a conoscenza. Molti giovani rifiutano di suonare gli standard, mentre questi sono la chiave di tutto lo sviluppo, sono utili per andare avanti. E questi giovani non conoscono il passato. Quando tengo dei workshop, spesso, mi sento dire: «Io suono solo musica moderna». Il che, in teoria, significa che conosci perfettamente tutto il passato. Ma poi si scopre che non è vero. E comunque, come si fa a dire se una musica è vecchia o moderna? Negli Stati Uniti, invece, la tradizione è tenuta in grande considerazione. Spero che i giovani riescano effettivamente scoprire e conoscere cosa sia e come sia andata l’evoluzione del jazz. Anche Jaco Pastorius, nella sua follia compositiva, conosceva perfettamente la musica del passato, che risuonava nelle sue composizioni. Oggigiorno i giovani hanno la possibilità di assumere informazioni in brevissimo tempo: alla fine conoscono il risultato, però non sanno come si ci si è arrivati.

Svolgi anche un’intensa attività didattica e hai fondato la Drums High School. Vorresti parlarcene?
Quando andai in pensione dal conservatorio di Bruxelles, un mio amico mi disse: «Apriamo una scuola di batteria?». Io uscivo da trent’anni di insegnamento e non ero proprio entusiasta della proposta. Alla fine lui mi ha convinto e ho aperto, con due amici, questa scuola di batteria che è aperta a tutti: abbiamo allievi anche di settantotto anni! Vengono musicisti che vogliono prepararsi bene per poi entrare al conservatorio. La scuola è aperta cinque giorni alla settimana e si insegna tutto ciò che è legato alla batteria, solo alla batteria. Nel 2001 fui invitato alla Berklee per un confronto tra docenti statunitensi e docenti europei. Io insegnavo ai miei studenti la batteria chiedendo loro di cantare il brano accompagnandosi con le spazzole. L’esecuzione era totalmente diversa rispetto alla sola esecuzione sulla batteria. Li costringevo a imparare decine e decine di brani a memoria (intendo anche i testi); pertanto, uscendo dal conservatorio, conoscevano almeno un centinaio di standard. Questo metodo è ora stato acquisito anche dalla Berklee.

Tu hai sempre suonato senza porti tanti problemi sullo stile e sulla tecnica da adottare. Oggi, invece, il jazz si è andato specializzando e dividendosi in segmenti. Giudichi questo atteggiamento positivo o negativo?
I segmenti ci sono sempre stati, ma collegati alla tradizione. Oggi si cercano nuove ispirazioni, anche forzate. Per me la musica deve essere armonia e bellezza. Sento spesso elaborazioni ardite, ma credo che abbiano senso solo se sono composte per la funzionalità del brano, altrimenti servono esclusivamente per mettere in mostra la tecnica e, in questo caso, non è un aspetto positivo. Ci sono musicisti che sono falsi musicisti. Purtroppo, poi, ci sono persone che vanno ai concerti solo perché è di moda, anche se non capiscono un granché: e queste sottocategorie alimentano tali comportamenti.

Con,John Taylor,Dieter Ilg,Stan
Sultzman,Uli Beckerhof

Qual è la situazione del jazz in Belgio?
Il jazz si difende abbastanza bene, anche se i club non sono tantissimi. Il livello dei musicisti è alto. I giovani sono molto bravi, ma pur di suonare applicano la politica di abbassare il prezzo, finendo così per svalutare sé stessi e tutto il settore.

Attualmente a quali progetti musicali stai lavorando?
Ho suonato tanti anni con Toots Thielemans e molti altri con svariate big band. Ora la situazione è cambiata, non si può essere molto fedeli e, quindi, suono con quattro-cinque gruppi legati ad altrettanti progetti musicali. Dunque, suono ancora molto: dal trio al quintetto, dall’accompagnamento di cantanti alla musica brasiliana. Mi godo la vita, mi godo la musica.

Nel 2016 hai festeggiato cinquant’anni di carriera. Vorresti fare un bilancio?
Anche se, avendo iniziato a dodici anni, oggi sarebbero sessantaquattro da musicista! Ho invitato mia figlia a eseguire un brano: lei canta benissimo! Un bilancio? Se dovessi rifare la mia vita, la rifarei così com’è! Ho avuto il piacere di suonare con tantissimi grandi musicisti e ho avuto modo di conoscere la musica da dentro, ho imparato l’armonia, la melodia.
Un giorno suonavo con Toots e, ospite del quartetto, c’era il sassofonista Nathan Davis. Si era deciso di suonare Giant Steps in una certa tonalità ma, non appena iniziò il brano, Davis cambiò la tonalità. Tutti ci guardammo sconcertati, ma Toots rimase impassibile e riportò il brano alla sua tonalità originaria. Distrusse letteralmente Nathan Davis che, uscito di scena, non rientrò più. Una lezione di vita.

Quando potremo ascoltarti in Italia?
Mi piacerebbe moltissimo tornare in Italia da musicista, quindi spero presto!
Alceste Ayroldi