Intervista ad Annie Ross

di Enzo Capua

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La vocalist britannica, componente del trio Lambert, Hendricks & Ross, è scomparsa il 21 luglio all’età di novant’anni. Per ricordarla proponiamo l’intervista realizzata per il numero di Musica Jazz di dicembre 2015.

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La scozzese Annie Ross, una delle poche superstiti dell’epoca d’oro del vocalese, continua ancora oggi a sorprendere per vivacità, estro e arguto senso dell’umorismo con il suo canto asprigno e allo stesso tempo dotato di una segreta sensibilità. Alla bella età di ottantacinque anni si permette il lusso di esibirsi ogni martedì in un piccolo ma accogliente club di Manhattan, la Metropolitan Room. La cantante vive in un bell’appartamento nell’Upper East Side di Manhattan, circondata da ricordi, foto, opere d’arte. Troviamo all’ingresso, ben incorniciata, anche una citazione dello scrittore Kurt Vonnegut: «I comici e i jazzisti sono stati per me più di conforto e illuminanti dei predicatori o dei filosofi, poeti, pittori, romanzieri dei miei tempi. A mio parere, gli storici del futuro si congratuleranno con noi per i nostri clown e per il jazz».

Lei ha avuto una vita particolarmente movimentata tra Europa e Stati Uniti, tra jazz, cinema, teatro e altro. Come e dove si è sviluppata la sua dedizione al canto?
Sono nata a Londra da genitori scozzesi, attori di vaudeville. Già a cinque anni vinsi una gara di canto e un primo contratto con la MGM. I miei si erano trasferiti a New York ma io seguii mia zia Ella Logan, nota cantante di Broadway, che mi portò con sé a Los Angeles.

Fu quindi la zia a spingerla verso il canto già a quell’età?
No: mia zia non desiderava che diventassi una cantante ma io ero praticamente nata sulle tavole del palcoscenico e i miei mi avevano fatto cantare fin da quando avevo cominciato a camminare! Ce l’avevo nel sangue. Nacqui subito dopo una matinée dei miei genitori. Avevano già quattro figli – tre maschi e una femmina – e neanche un soldo in tasca; quindi andavano continuamente in giro a esibirsi. Sono nata in tour!

E com’è che da New York finì per andare a Los Angeles così piccola?
Fu tutto così irreale ma fantastico. Dunque, avevo vinto quel concorso cantando una canzone scritta da mio padre: Old My Mamie McKay. Me la ricordo benissimo. Così mi recai in California con mia zia, che conosceva tutti: Duke Ellington, Count Basie, Erroll Garner. Io andavo a scuola ma mi abituai a frequentare con lei tutti quei jazzisti che erano dentro la musica e avevano orecchio, come già lo avevo io: volevo entrare a far parte di quel mondo. Poi, verso i diciassette anni, tornai in Scozia per rivedere i miei genitori e i miei fratelli. Fino ad allora ero rimasta negli Stati Uniti con una badante ma desideravo tornare in Europa per loro. Ero ancora arrabbiata con mio padre e mia madre che mi avevano abbandonata.

Ma perché l’avevano fatto?
Perché pensavano che in quel modo sarei diventata una star! La mia vera paura da piccola era quella di essere venduta.

Venduta?
Proprio così, perché esistevano degli speculatori che, se vedevano un talento, lo compravano per poterlo sfruttare. Pensavo che mia madre mi avesse venduto per farmi raggiungere fama e successo. Rimasi in Scozia un paio di settimane e poi andai a Londra per cantare in un club. Ero sola ma felice, perché ero libera! Non sopportavo la mia vita negli Stati Uniti, mentre amavo quella in Europa. A Londra lavoravo in un locale dove non potevo sedermi tra il pubblico nei momenti di pausa o quand’era in scena un’altra band. Dovevo stare in camerino. Ah, gli inglesi! Ma imparai molte cose e mi feci notare: diciamo che lì ebbe inizio la mia vera carriera di cantante professionista. In seguito raggiunsi a Parigi Hugh Martin, l’autore di Have Yourself A Merry Little Christmas, The Boy Next Door, The Trolley Song e di tante altre canzoni famose. Con lui e un suo amico formammo un trio vocale. Insieme lavoravamo sul serio e molto bene. Poi Hugh ricevette un’offerta da New York per scrivere le musiche delle nuove Ziegfeld Follies a Broadway e quindi lasciò Parigi (anche il contratto non andò a buon fine) ma prima riuscì a trovare un lavoro per me con una band francese. Dunque Parigi era davvero diventata la mia nuova casa, anche se con quella band feci molti tour in Europa e Nord Africa. Eravamo alla fine degli anni Quaranta e avevo già un figlio con un musicista piuttosto noto: Kenny Clarke, che avevo conosciuto a Parigi.

Annie Ross
foto di Enzo Capua

Fu un amore molto forte?
Non lo definirei proprio amore. Diciamo una passione, e tra noi c’era anche un legame musicale. Poi a Kenny fu proposto di andare a suonare la batteria con Dizzy Gillespie e lui lasciò Parigi con nostro figlio. Non avevamo abbastanza soldi, quindi io rimasi in Francia e un anno dopo tornai negli Stati Uniti, a Pittsburgh. Forse non era proprio il massimo. Per fortuna, tempo dopo, un produttore discografico di New York mi chiese se fossi disposta a scrivere canzoni, o almeno aggiungere testi a musiche già esistenti. Dissi subito di sì senza sapere come: ma si trattava di restare in ballo! Così finii per scrivere Twisted, che poi divenne un pezzo famoso.

Twisted è tuttora uno standard molto noto, che trae origine da un assolo di Wardell Gray. Qual è l’interpretazione di altri musicisti che le è più cara?Quella di Joni Mitchell, senz’altro. Joni è bravissima. Un po’ matta, forse, ma del resto lo sono le persone più interessanti.

Certamente. La sua carriera, comunque, cominciò a diventare più brillante da quel momento in poi, no?
Sicuro! Vinsi alcuni premi e accettai ogni tipo di ingaggio come cantante. Ero pronta a tuffarmi nella mischia! Ritornai a Londra e sposai un attore, Sean Lynch. Il matrimonio durò dodici anni; poi divorziammo e in seguito lui morì in un incidente stradale. Con lui fu vero amore, almeno agli inizi. A Londra conobbi molta gente nel mondo dello spettacolo: diventai amica di Tony Richardson, il famoso regista, con il quale lavorai anche in una bellissima versione dell’Opera da tre soldi assieme a Vanessa Redgrave.

Così avviò una parallela carriera teatrale?
Accettavo di tutto. Anche nel cinema. Doppiai persino Ingrid Thulin in Salon Kitty di Tinto Brass!

Jon Hendricks Annie Ross, Dave Lambert. © Riccardo Schwamenthal

Veniamo al punto cruciale del suo percorso artistico: come nacque il trio Lambert, Hendricks & Ross?
Andai a trovare un mio caro amico, famoso produttore, che abitava con la moglie al Greenwich Village. Mi disse che voleva farmi conoscere due persone che stavano formando un gruppo vocale. C’era già l’idea di lavorare sulle partiture di Count Basie. Così Dave Lambert e Jon Hendricks arrivarono in quella casa con un po’ di dischi di Basie: ascoltavamo i brani e intanto loro li cantavano, e anche molto bene. Non capivo ancora perché avessero bisogno di me e così me ne tornai a casa. Ma una settimana dopo Dave e Jon mi chiamarono: «Abbiamo provato sei cantanti di sezione: prendono bene le note ma non hanno swing. Puoi venire in studio a insegnarglielo?». «Insegnare?» pensai. Boh! Comunque andai lo stesso. In effetti le cantanti erano precise ma non si può insegnare lo swing a una persona che non ce l’ha! O l’hai già nel sangue o non c’è niente da fare. Si era in una situazione di stallo e il produttore era già molto nervoso perché non veniva fuori nulla. Fu Dave ad avere l’idea: «Perché non facciamo tutto noi tre e poi ci sovraincidiamo sopra quante volte vogliamo?». Il risultato fu una delle sensazioni più incredibili che abbia mai provato: stare davanti agli altoparlanti e riascoltare ogni volta le nostre voci, con le quali cantare poi nuovamente assieme! Il disco, «Sing A Song Of Basie» (ABC, 1957), ebbe un successo clamoroso. E fu solo l’inizio della splendida avventura di Lambert, Hendricks & Ross.

Qual è il più bel ricordo degli anni passati assieme a Hendricks  e Lambert?
Quello di essere accettati e riveriti da persone che adoravo: Count Basie, Duke Ellington, i musicisti delle loro orchestre. Non c’è niente di più incredibile che cantare di fronte alla big band di Basie! E assieme a Joe Williams!

Jon Hendricks Annie Ross, Dave Lambert. © Riccardo Schwamenthal

Tutti i dischi del vostro trio sono pietre miliari nella storia del canto jazz, studiati e imitati ancor oggi. Perché a un certo punto lasciò il gruppo?
Purtroppo avevo un enorme problema: ero diventata eroinomane. Mi ricordo che avevamo un concerto a Londra con la band di Basie, una cosa bellissima: ma a quel tempo in Inghilterra era facile trovare eroina o cocaina. Quando la presi, l’effetto fu incredibile. Ovvio che non ne potessi più fare a meno. Fu il mio fratello maggiore, cui ho sempre voluto bene, a dirmi: «Troverò il modo di liberarti dall’assuefazione. Ti terrò lontana da tutto finché non smetterai». E così fu. Sarò sempre grata a mio fratello, che riuscì a impedire la mia fine, anche se non fu certo facile per lui. Ero confinata in una villa che mi aveva preso in affitto ma avevo trovato una dottoressa che mi procurava la roba di nascosto. Lui però se ne accorse e un giorno mi portò in giardino: «Non ce la faccio più», diceva. «Davvero non ce la faccio! Adesso devi cavartela da sola. Io ho da vivere la mia vita». Penso che fu la sensazione di ritrovarmi da sola, senza il suo sostegno, a spingermi definitivamente lontana dalla droga.

E dopo?
Dopo fu tutto difficile. Ricominciare dopo anni di assuefazione… Comunque me ne ero liberata e tornai a cantare: andai in Canada e poi di nuovo a Londra per uno spettacolo con la BBC ma fu terrorizzante esibirmi sulla scena senza più Dave e Jon. Ci riuscii ma non era più la stessa cosa, anche se pian piano ricominciarono ad arrivare le offerte di lavoro. Aprii un mio jazz club a Londra, la Annie’s Room, e poi ci fu il cinema.

Jon Hendricks, Annie Ross, Dave Lambert. © Courtesy of GRP/ Impulse

È sempre vivo il ricordo della sua partecipazione a uno dei film più belli di Robert Altman, America oggi, del 1993. Lì interpretava in pratica se stessa: una cantante di jazz.
Lavorare con Bob Altman fu un sogno! Era davvero una grande persona e un grande regista. La cosa iniziò in maniera strana: io ero molto amica di sua moglie Katherine, che insistette per farmelo conoscere. Mi portò all’ufficio di Bob, qui a Park Avenue: lui era seduto alla sua scrivania e io e Katherine chiacchieravamo tra noi. A un certo punto Bob disse: «Annie Ross, ho una parte per te! Se questo progetto va avanti bene, ti farò recitare!». Io rimasi di stucco. In seguito mi chiamò: «Puoi venire qui? Ti aspetto!». Partii subito e mi ritrovai a Los Angeles nel mezzo del set dei Protagonisti (1992). Dovunque mi girassi c’era una stella del cinema! Ricordo che Julia Roberts fu particolarmente dura e scontrosa con me. Davvero odiosa! Ma talvolta a Hollywood funziona così. Con Bob poi feci America oggi: un’esperienza splendida, della quale conservo tante immagini. Da lì la mia carriera in musica riprese bene e da qualche anno ormai ho il mio show settimanale alla Metropolitan Room, che mi riempie di gioia. Posso fare ciò che voglio, cantare le canzoni che amo. Tra i miei dischi sono particolarmente legata a «To Lady With Love», che ho dedicato alla mia amica Billie Holiday, il mio idolo. Ho sempre ammirato anche Dinah Washington e Sarah Vaughan, dee del canto! Mi ricordo che Sarah, una volta che lavoravamo assieme all’Apollo Theater, mi disse: «Insegnami a cantare Doodlin’!». Sarah Vaughan che chiedeva a me di insegnarle a cantare un brano!

Tra queste cantanti, con chi ha avuto un’amicizia speciale?
Proprio con Sarah. Passavamo molto tempo assieme. A lei piaceva cucire, fare vestiti: ne fece uno anche per me. Cucinavamo assieme; ci divertivamo un sacco! Tra quelle di oggi mi piace molto Karrin Allyson: è una grande cantante.
Enzo Capua

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