Epitaphs From The Hill. Intervista ad Anna Bignami e Laura Veltri – I parte

Due italiane in Danimarca. Le due musiciste e compositrici hanno ordito un ensemble che porta il loro nome e hanno licenziato un Ep che evidenzia una scrittura che evita i cliché, con un’elaborazione pronta sempre a stupire, mai artificiosa. Questa è prima parte dell’intervista.

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Buongiorno e benvenute a Musica Jazz. Parliamo subito di voi: due giovani  musiciste italiane che si trovano a frequentare la scena danese. Come mai vi trovate in Danimarca? E’ qui che vi siete conosciute?
L.V.: Buongiorno e grazie a voi! Si, ci siamo conosciute ad Aarhus, Danimarca nell’autunno 2020. Qui Anna si era trasferita per studiare composizione al biennio di The Royal Academy of Music. Io all’epoca vivevo, invece, ad Aalborg, un’ora di strada più a nord, dove ho fatto uno scambio al conservatorio durante il mio triennio in chitarra jazz presso il Saint Louis di Roma. L’anno seguente mi sono iscritta allo stesso corso che frequentava Anna. Da lì è nata prima un’amicizia e successivamente la nostra collaborazione professionale.

Detto ciò, mi piacerebbe che vi presentiate al pubblico di Musica Jazz: qual è il vostro – rispettivo – background culturale?
A.B.: Nata e vissuta a Brescia, più precisamente a Gussago nella provincia, iniziai a strimpellare la chitarra classica quando avevo 10 anni, ma, si sa, quando si è così piccoli è difficile metterci il necessario grado di impegno e disciplina. Iniziai a studiare lo strumento con più dedizione in età adolescenziale quando frequentavo il liceo scientifico. Questa volta però scelsi di passare alla chitarra elettrica, poiché all’epoca ascoltavo gli Arctic Monkeys, Rolling stones, The Who, Rory Gallagher anche su consiglio di mio padre, che è sempre stato amante dei gruppi rock-blues della British Invasion. Presa dalla  passione per la musica, dopo la maturità, decisi di trasferirmi a Dublino per studiare chitarra nella Bachelor of jazz and contemporary music performance alla DCU (Dublin City University). Lì approcciai per la prima volta al jazz. Scoprii artisti come Charlie Parker, Thelonious Monk, John Coltrane e Bill Evans, ma anche il jazz orchestrale di Gil Evans, Duke Ellington e Maria Schneider per nominarne alcuni. Al college amavo forse più di tutto le lezioni di teoria, composizione e arrangiamento, in qualche modo mi sentivo gratificata dal creare qualcosa di mio e dal fatto che poi, ciò che creavo rimaneva scritto nero su bianco e non spariva per sempre, come accade quando si improvvisa negli assoli alle jam o nei concerti. Un album in particolare segnò l’inizio del mio interesse per la composizione per  Orchestre jazz e Big Band: Fly with the Wind di McCoy Tyner. Le sonorità, gli arrangiamenti, gli archi insieme a sassofoni, trombe e tromboni mi fecero scattare qualcosa. Poi scoprii quasi per caso la compositrice e ora direttrice della Danish Radio Big Band Miho Hazama con il suo ensemble M-unit. Vedendola, ascoltando il suo album Dancer in Nowhere, realizzai che anche io dovevo prendere quella strada. Poco dopo mi trasferii così ad Aarhus ed è lì che incontrai Laura.

Laura Veltri
Foto di Roberta Carta

L.V.: Sono nata a Motta di Livenza (TV) e sono cresciuta prevalentemente a Roma, dopo aver seguito la mia famiglia a Tel Aviv e a Sassari per alcuni anni. Mi sono avvicinata alla musica all’età di 8 anni, quando mio fratello adolescente ascoltava gli album pop, rock e grunge a inizio anni 2000. Iniziai a suonare la chitarra elettrica a 9 anni, per imparare i miei brani preferiti, e a 13 anni iniziai a prendere anche lezioni di pianoforte, prima classico ed in seguito moderno: ero curiosa di capire meglio gli accordi e l’armonia, così oscura su uno strumento come la chitarra. Il pianoforte per me è sempre rimasto uno strumento secondario, ma è stato fondamentale per l’interesse che ha suscitato successivamente verso la composizione. Sono stata fortunata, in un’età così delicata, ad incontrare insegnanti speciali, che mi hanno introdotta a tanti generi musicali e mi hanno trasmesso la loro passione. Grazie a questa forte spinta, a 18 anni mi sono iscritta al Saint Louis College of Music per seguire il corso di chitarra jazz. Il Maestro Umberto Fiorentino mi ha guidata nel mio percorso accademico, così come nella preparazione della tesi su Brad Mehldau: “Analisi compositiva e riadattamento su chitarra”. Durante il triennio i corsi di arrangiamento e di composizione dei Maestri Antonio Solimene e Paolo Silvestri catturano il mio interesse e, in seguito ad una prima breve esperienza in Danimarca nel 2019, decido di orientarmi verso la composizione jazz. Un disco particolare che mi fece avvicinare alla big band fu Our Secret World di Kurt Rosenwinkel con l’Orquestra Jazz di Matosinhos, assieme a Sky Blue di Maria Schneider e Infernal Machines di Darcy James Argue.

Parliamo del vostro progetto anche discografico Epitaphs From The Hill, che trova ispirazione da Spoon River di Edgar Lee Masters. Qual è stata la genesi di questo lavoro?
A.B.: La genesi di Epitaphs from the Hill è strettamente legata alla genesi dell’ensemble stesso. Iniziare un ensemble di grandi dimensioni con musicisti professionisti di alto livello è estremamente difficile: ci vogliono mesi e mesi di organizzazione, budget, raccolta fondi, e-mail, numeri di telefono, comunicazione con i locali, marketing, insomma tutte cose, che oltre a non riguardare minimamente l’aspetto artistico e creativo, richiedono anche molto tempo ed energie. Per questo ho pensato subito a Laura, la persona perfetta con cui condividere questo grande lavoro.  Ci aiutiamo a vicenda con gli aspetti organizzativi, allo stesso tempo ci diamo l’opportunità di condividere la nostra musica. Per quanto riguarda l’idea di prendere ispirazione dall’ antologia di Spoon River, volevamo creare una esperienza che non fosse soltanto una rassegna di brani sconnessi l’uno dall’altro. Volevamo che i brani avessero un tema comune. Entrambe conoscevamo l’antologia e rileggendo non potevamo ignorare la connessione dei suoi temi con l’esperienza dell’uomo moderno all’interno di una società che, sempre di più, vuole apparire utopica e idilliaca, ma che in realtà nasconde problemi e fratture.

Anna-Bignami-Anna©Rochelle Coote Photography

Cosa vi ha affascinato di Spoon River e quali sono gli aspetti di questa antologia che trovate particolarmente musicali?
L.V.: L’Antologia di Spoon River, ormai diversi anni fa, mi fu regalata insieme al celebre disco di de Andre’ «Non al denaro, non all’amore ne’ al cielo». Le mille sfaccettature rappresentate nelle diverse poesie aprono l’immaginazione e le associazioni a musiche, suoni, atmosfere, ambientazioni di vario tipo. La poesia centrale per la mia composizione In and Out of the Toy World è Dippold L’Oculista. La musicalità deriva, per me, in questo caso, dal dialogo tra l’oculista e il paziente, dal flow della conversazione, e anche dal linguaggio colloquiale. Un altro elemento che ho trovato particolarmente interessante è  stato confrontare la versione originale con la traduzione in italiano, e notare la differenza di sfumature che quest’ultima creava. Molte immagini, inoltre, hanno creato in me la curiosità di rappresentarle in musica oppure sono state il pretesto per sperimentare tecniche compositive nuove. Ho usato, ad esempio, la lente come strumento per apportare variazioni alla musica: ho immaginato il passaggio attraverso una lente come un dilatatore temporale, quindi l’ho tradotto con un rallentando: con l’intento di trasporre la distorsione visiva in un cambio di tempo. Tantissimi elementi, dunque, creano musicalità nella mia testa, attraverso modalità molto diverse tra loro. A.B.: Ciò che mi ha particolarmente colpito dell’antologia è come affronta il tema della menzogna e dell’inganno. Appunto come dicevo in precedenza, Masters vuole rivelare la vera identità di Spoon River, che non è una città perfetta, idilliaca, ma una città dove gli abitanti hanno sofferto ingiustizie, hanno dovuto soccombere e adattarsi alle regole non scritte, alle convenzioni. La mia composizione presente nell’EP, «This is I, the Giant» fa diretto riferimento all’epitaffio del direttore Whedon, forse l’esempio più eclatante di un cittadino di Spoon River che confessa di aver ingannato i suoi concittadini, di aver nascosto la verità per denaro e sete di potere.
Personalmente credo che Masters, nell’affrontare questi temi, voglia invitarci a raccogliere tutto il nostro coraggio per rivelare il nostro vero io, anche a costo di esporre vulnerabilità e imperfezioni, esortandoci ad affrontare i nostri demoni interiori una volta per tutte, prima che sia troppo tardi. Con le mie composizioni ho tentato di far emergere questa idea e spero di aver non solo intrattenuto l’ascoltatore ma anche di averlo fatto riflettere.

In questo primo EP troviamo due composizioni particolarmente articolate, in forma di suite. Come avete agito in fase compositiva?
A.B.: Prima di tutto vorrei precisare che pur lavorando entrambe sullo stesso tema, la fase compositiva dei brani è strettamente individuale. La nostra strategia è presentare temi che siano aperti a diverse interpretazioni, così da dare spazio a ciascuna di noi di esprimersi liberamente senza limiti di stile e/o concetti trattati, purché si colleghino al tema principale. L’Ep non corrisponde totalmente alla definizione di suite per questo motivo, anche se all’orecchio può sembrare tale. Nella mia continua ricerca per sviluppare il mio processo compositivo, ho elaborato un metodo “retorico” di comporre. Il mio scopo principale quando compongo è quello di utilizzare la forma musicale, melodia, armonia, ritmo, orchestrazione, arrangiamento, come un mezzo di comunicazione di concetti che vanno al di là della forma musicale stessa. Lo scopo delle figure retoriche in poesia è quello di amplificare il significato delle parole per suscitare emozioni, allo stesso modo gli accordi, i ritmi e le melodie dovrebbero agire come meri strumenti per il racconto di una storia, di una intenzione e di una emozione. In poche parole, lo scopo è quello di creare ulteriori livelli di interpretazione e quindi di apprezzamento del brano, oltre all’ analisi dell’ aspetto tecnico. In This is I, the Giant, descrivo il personaggio del direttore Whedon musicalmente, tentando di ingannare l’ascoltatore, sorprendendolo continuamente con repentini cambi di dinamica da forte a piano a pianissimo, utilizzando diversi tipi di armonia, dalla cromatica alla tonale, alla modale, cambi di stile e sonorità. Questo concetto si riflette anche nell’improvvisazione dove, ciascuna atmosfera viene assegnata ad un musicista ed uno strumento diverso.
L.V.: In and Out of the Toy World e’ una composizione in 9 capitoli che ha come punto di partenza la poesia Dippold l’oculista, per arrivare a trasporre in musica, forma d’arte incentrata sull’udito, il senso della vista e l’idea che ognuno di noi porti delle lenti attraverso le quali guarda il mondo. Talvolta queste lenti distorcono esageratamente ciò che abbiamo attorno, rendendo tutto un “mondo giocattolo”. Attraverso la propria improvvisazione, ogni solista coinvolto interpreta un personaggio, in base a poesie e frammenti da me selezionati. Le poesie dunque, oltre ad aver guidato la fase compositiva, hanno un’importanza centrale anche nelle improvvisazioni. La narrazione, attraverso le diverse sezioni, affronta varie poesie: Abel Melveny, Robert Fulton Tanner, Henry Layton. Così come l’oculista aveva a che fare con diversi abitanti di Spoon River per fare le lenti, il brano ha a che fare con diverse poesie per presentare più personalità.
Alceste Ayroldi

*La seconda parte dell’intervista sarà pubblicata lunedì 11 settembre