«Scanzonati». Intervista a Stefano Marchese e Andrea Pejrolo

Esce oggi il nuovo disco dei due professori italiani del Berklee College of Music di Boston. Ne parliamo con loro.

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Buongiorno Stefano, buongiorno Andrea. La vostra amicizia ha inizio a Boston? Siete approdati insieme in terra americana?
A.P. Ci siamo conosciuti alla Berklee, una decina di anni fa, dove Stefano è stato un mio allievo. Quando ha finito i suoi studi nel Contemporary Writing and Production Department abbiamo iniziato a collaborare prima facendo concerti Jazz nell’area di Boston e poi dando vita a questo fantastico progetto, Scanzonati.

Parliamo del vostro ultimo singolo. La prima domanda è relativa alla scelta di un singolo e di un video. Oramai, non si può prescindere da queste tecniche di marketing. Ritenete corretta questa mia interpretazione?
A.P. e S.M. L’idea di fare un disco in studio è nata da prima della pandemia. Dopo molti concerti live, c’era la voglia di avere una fotografia nitida e dettagliata del nostro suono, e del nostro carattere musicale. Allo stesso tempo volevamo offrire uno squarcio sul nostro lato più “live”, più istintivo. Così abbiamo pensato di offrire tutti e due. Il live video concert è stato registrato in una giornata unica, al bellissimo Fraser Studio di WGBH a Boston. È stata davvero una bella esperienza, molto entusiasmante, diretta, e personale. L’album in studio, registrato nel corso di circa 2 mesi, è certamente più calibrato, dettagliato, ed offre all’ascoltatore una visione più sofisticata dal punto di vista sonoro e degli arrangiamenti. Direi che le due cose sono un perfetto complemento.

La seconda domanda è: che valore ha un singolo oggi, posto che non si vendono i 45 giri?
A.P. e S.M. Il pezzo scelto per il singolo, Quelli come me, ha un significato speciale. È il pezzo d’apertura di ogni nostro concerto, ed è anche stato il primo pezzo originale, scritto da Stefano, che abbiamo suonato con «Scanzonati». La nostra idea è stata quella di riservare uno spotlight speciale per questo brano, così da proporlo prima dell’album intero. Una specie di omaggio ad un pezzo al quale siamo tutti molto legati. Più che una decisione di marketing è stato proprio il feeling speciale che abbiamo con questa canzone che ci ha portati a “mandarla in avanscoperta”.

Il video non distoglie dall’ascolto del brano?
A.P. e S.M. A nostro parere il video offre una visione più personale del nostro sound. Il fatto di vedere tutti i musicisti suonare insieme ed interagire musicalmente con un ottimo interplay consente all’ascoltatore di aprire una finestra unica sul progetto, di essere lì con la band, proprio nel momento in cui l’idea nasce e si fa musica.

Nel merito, invece. Come nasce l’idea di questo album qual è il messaggio che intendete dare?
A.P. e S.M. «Scanzonati» nasce dalla necessità di raccontare momenti di vita, amori, pensieri e parlare di temi a noi cari. Lo abbiamo fatto attraverso tre elementi fondamentali: la canzone, il suono multiculturale del Mediterraneo e la libertà che solo l’improvvisazione sa dare. Abbiamo raccontato, attraverso la lingua dei poeti, la bellezza, il dolore, l’amore, la guerra, la leggerezza, insomma, abbiamo decantato la vita.

Perché questo titolo e di cosa parla questo disco?
A.P. e S.M. In realtà abbiamo giocato con la parola in sé e con il suo significato. Dopo tanti anni passati a studiare jazz in giro per il mondo, abbiamo sentito la mancanza della musica italiana che ci ha cresciuto e coccolato, scanzonati, ovvero senza le nostre canzoni. In verità, lo scanzonato è colui che prende le cose con serenità ed ironia, senza venir meno al proprio senso di responsabilità e dignità. Ecco credo che il vero significato di questo aggettivo descriva molto bene entrambi.

In questo album si ascoltano influenze musicali che mutuano tanto alla canzone italiana, quanto a quella dei songwriters anglosassoni e statunitensi, ma anche a inflessioni della musica classica e di quel rock anni Settanta più chinato verso il pop. Qual era il vostro obiettivo primario dal punto di vista musicale?
A.P. Quando abbiamo lavorato alla scrittura e agli arrangiamenti di questi pezzi, non abbiamo davvero pensato alla scelta di uno o più stili. L’idea era quella di scrivere musica che ci piacesse, che rispecchiasse non solo il nostro background musicale, ma anche, e soprattutto forse, i nostri viaggi musicali, le nostre esperienze sonore fatte fino a qui. A me piace tutta la musica, provo a non categorizzarla troppo in stili, trovo invece molto interessante la continua contaminazione di culture, background, esperienze diverse che possono portare a nuove collaborazioni e di conseguenza a nuove vene creative. Personalmente, il fatto di avere, studiato, insegnato, e suonato a New York, Boston, in Inghilterra, e viaggiato con Berklee in tutto mondo, mi ha davvero aiutato e ad essere recettivo ed aperto musicalmente.
S.M. Sì, la musica ci ha portato a spasso per il mondo e ci ha permesso di fare incontri artistici e umani importanti. Insieme abbiamo incontrato sul nostro cammino Mogol e Carmen Consoli. Personalmente, lavorare con Bobby McFerrin è stato illuminante. Ricordo nitidamente quella sensazione di serenità e gioia che solo i bambini hanno, quando per via di un concerto basato sull’improvvisazione spontanea, poco prima di salire sul palco nessuno di noi sapeva cosa sarebbe accaduto durante il concerto. Liberi, senza etichette di stile e genere, con la sana intenzione di suonare quello che ci andava. Il pubblico ovviamente non poteva che cantare e divertirsi con noi. L’obiettivo di questo album è questo, fare della musica sincera e libera.

Oltre a voi due, chi sono gli altri musicisti che troviamo in questo disco?
A.P. e S.M. Uno degli obiettivi di questo progetto e di rappresentare musicalmente la multiculturalità e l’inclusione. Quindi, abbiamo avuto il piacere di condividere questo viaggio con ben quindici musicisti provenienti da nove paesi diversi. Oltre a noi (Stefano Marchese, voce e chitarra; Andrea Pejrolo contrabbasso) e a tre featuring artists come Laura Lala, che ha partecipato al testo di Strade parallele, il pianista ucraino Maxim Lubarsky e la flautista turca Yağmur Soydemir, hanno suonato Lihi Haruvi – sassofoni; Nick Grondin – chitarra; Giò Albanese – fisarmonica; Giuseppe Paradiso – batteria; Bengisu Gocke – violino I; Alessandra Pejrolo, violino II; Kely Pinheiro – violoncello; Kari Juusela, violoncello; Elie Yammouneh, percussioni e Carles Delgado, chitarra.

 Come vi siete ripartiti il lavoro?
A.P. La ripartizione delle diverse fasi del progetto è stata molto naturale. Stefano ha scritto testi e musica di sette canzoni, mentre due altre (Strade parallele e C’è’ un tempo) sono nate da un’idea musicale mia e i testi di Stefano con la collaborazione di Laura Lala. Dammi la libertà è un pezzo invece scritto da me con i testi di mio fratello, Luca Pejrolo. Per la maggior parte ho lavorato sugli gli arrangiamenti di archi e sezione ritmica, mentre Stefano ha curato tutti gli arrangiamenti vocali. La produzione artistica è stata una perfetta simbiosi tra noi due, ci siamo sempre trovati allineati su tutte le direzioni da prendere e le soluzioni da trovare. La registrazione ed il missaggio sono stati fatti da me.

Con Mogol

Stefano, l’incontro con Mogol ha cambiato la tua prospettiva di autore?
Certamente, incontrare una leggenda come Mogol ha significato molto per me. L’incontro con lui e con Carmen Consoli furono le due scintille che ci hanno motivato a realizzare questo progetto. Lui fu uno dei primi ad ascoltare la nostra musica. Quando venne a Boston, la nostra band gli dedicò un concerto al Berklee College of Music. Il brano d’apertura, prima di invitarlo sul palco, fu proprio “Quelli Come Me”. Quando entrò, si fermò, prese il microfono e mi chiese “questo brano è tuo?”, io timidamente risposi di sì. Lui guardò il pubblico e disse “beh, facciamogli un altro applauso”. A parte questo aneddoto che porterò sempre nel cuore, a cena e nei giorni successivi mi diede dei consigli che solo il re della canzone italiana può dare.

Qual è il vostro rapporto con il jazz?
A.P. Sin da quando, al liceo, ho iniziato a suonare il contrabbasso in una jazz band locale in provincia di Torino, fondata da un mio caro amico trombettista, il jazz non mi ha più lasciato. È stato, e continua ad esserlo tuttora, una fonte di ispirazione creativa. Anche quando scrivo e arrangio per progetti più pop, non posso fare a meno di attingere a sonorità che sono radicate nel jazz. Miles Davis è uno degli artisti che ammiro di più proprio per la sua capacità di mettersi sempre in discussione, e per la sua continua evoluzione, sempre in cerca di nuove sonorità e collaborazioni.
S.M. Il jazz mi ha portato via da casa e dai miei affetti più cari, ma non mi ha fatto mai sentire solo, non mi ha mai abbandonato. Ho avuto la fortuna di studiare con i alcuni dei più grandi maestri di canto in Italia come Cinzia Spata, Maria Pia De Vito, Donatella Pandimiglio, e all’estero con Bob Stoloff, Norma Winston, Barry Harris, Donna McElroy, David Scott e Joey Blake, questi ultimi adesso miei colleghi al Berklee College. Tra i cantanti italiani: Chiara Civello, Gegè Telesforo e Joe Barbieri sono quelli che mi hanno ispirato maggiormente.

Con Carmen Consoli

Voi vivete negli Stati Uniti, però il vostro disco è in lingua italiana. Non pensate che, così facendo, il mercato del vostro lavoro abbia a restringersi?
S.M. Può essere. Ma potrebbe anche verificarsi il contrario. Credo che nel jazz, e non solo, ci sia bisogno di più diversità linguistica. L’italiano ha un valore assoluto ed è una delle lingue più studiate al mondo. Non solo rappresenta le nostre radici e la nostra identità culturale, è percepita all’estero come musicale, suadente ed elegante. Inoltre, il nostro obiettivo era di creare un progetto diretto e sincero. L’italiano è la lingua dei nostri pensieri.

A proposito degli Stati Uniti: come è iniziata la vostra avventura didattica al Berklee e, soprattutto, come procede?
A.P. Dopo essere vissuto a New York per 11 anni, mi sono spostato e Boston nel 2004, dove ho iniziato prima ad insegnare Part Time nel Contemporary Writing and Production Department e dove poi sono diventato vicedirettore e poi direttore dello stesso dipartimento. Ormai sono quasi 18 anni che insegno alla Berklee, e devo dire che è un posto davvero speciale. La qualità degli studenti e dei colleghi è davvero unica.
S.M. Ho avuto la fortuna di vincere nel 2008, a Umbria Jazz, una borsa di studio per il Berklee College. Mi ero appena laureato al DAMS all’Università di Roma Tre, ed ero iscritto al corso di Jazz al Conservatorio di Santa Cecilia. Nel 2010 ho fatto le valigie senza mai guardarmi indietro. Mi sono laureato prima in Contemporary Writing and Production, sotto la guida di Andrea, a quei tempi mio professore, poi con un master in Music Education. Dal 2021 sono professore al dipartimento di voce e di professional music al Berklee College e dal 2022 collaboro con il dipartimento di musica della University of Massachusetts Amherst.

Rispettivamente, dal punto di vista didattico, di cosa vi occupate?
A.P. La maggior parte dei corsi che insegno sono per scrittori e produttori musicali, come Studio Writing and Production, Scoring for Advertising, e Contemporary Orchestration for the DAW, materie che trovo molto affascinanti e importanti per preparare i giovani talenti che si diplomano alla Berklee.
S.M. Per il dipartimento di voce, insegno tecnica vocale, repertorio, musica d’insieme e Circlesinging, una classe basata sull’improvvisazione vocale sullo stile di Bobby McFerrin. Mentre per il dipartimento di Professional Music insegno Computer Applications for the Independent Musician, Business of the Independent Musician e The Artists Entrepreneur, queste sono classi che si focalizzano a sviluppare abilità necessarie agli artisti indipendenti e che vanno dalle nuove tecnologie alle strategie comunicative e di planning, passando per elementi di management.

Andrea Pejrolo

Quali sono le sostanziali differenze che verificate tra l’impianto didattico dei Conservatori italiani e la vostra istituzione statunitense?
S.M. È difficile per noi rispondere a questa domanda, non avendo mai insegnato nei conservatori italiani, se non delle masterclasses basate sulle nostre aree di competenza. Per la University of Massachusetts sto conducendo uno studio sull’educazione musicale in Italia, magari ci potremmo aggiornare tra qualche mese.
A.P. Devo dire che gli studenti italiani che vengono a Berklee, sono di solito molto ben preparati e spesso arrivano da studi fatti nei nostri conservatori, quindi fanno sempre fare una bella figura alla nostra didattica italiana!

Stefano, mi sembra di capire che svolgi anche un’intensa attività divulgativa della musica italiana negli Stati Uniti con la direzione artistica di diverse rassegne-festival. Ce ne vorresti parlare?
S.M. Ho l’onore di dirigere dal 2015, Jazz in the Park, un festival jazz prodotto dalla NEMPAC, un’organizzazione locale, in collaborazione con la città di Boston, che si fa promotore dell’inclusione e della multiculturalità e che nel tempo si sta affermando come uno degli eventi estivi culturalmente più preziosi e ricchi della città. Per quanto riguarda la musica italiana, ho ideato e diretto, con il supporto del Consolato Italiano di Boston e di tanti colleghi e organizzazioni locali Piazza All’Aperto e Sounds of Italy, che ha visto la partecipazione tra gli altri di Max Gazzè, Chiara Civello, Riccardo Del Fra, George Garzone, Cettina Donato e Marco Pignataro.

Qual è il vostro rapporto con le tecnologie musicali e con i social?
A.P. La tecnologia è un aspetto fondamentale della mia esperienza musicale e non. I corsi che insegno sono tutti basati sulla produzione e sulla tecnologia musicale, quindi mi trovo totalmente nel mio ambiente quando sono di fronte ad un computer, con Logic o Pro Tools. Ho scritto diversi libri su questi argomenti, e trovo questo aspetto della musica molto affascinante. Mi piace molto combinare aspetti acustici ed organici con componenti di sound design e synthesis. Questo mi aiuta ad esplorare nuove frontiere creative.
S.M.  Da buon allievo del maestro Pejrolo, le tecnologie musicali sono al centro della mia filosofia didattica. A questo proposito ho ideato un curriculum innovativo adottato dalle scuole pubbliche di Boston che prevede l’introduzione della produzione e composizione digitale nelle scuole secondarie. Su questo tema ho pubblicato articoli e presentato a diverse conferenze. Per quanto riguarda i social networks, con il mio programma radio-televisivo L’Italia Chiamò, prodotto tra il 2012 e il 2015 siamo stati tra i primi a trasmettere in TV e live sui social media. Oggi sono indispensabili per l’attività di promozione.

Cosa è scritto nell’agenda di Stefano Marchese e Andrea Pejrolo?
A.P.  Musicalmente, penso che la nostra attenzione adesso sia tutta rivolta a «Scanzonati». È un progetto a cui teniamo davvero molto, e che vogliamo continuare a sviluppare. A parte l’insegnamento, che mi tiene molto occupato, sto anche lavorando su un paio di pezzi nuovi che ho scritto durante il mio semestre sabbatico, con l’idea di avere collaborazioni con musicisti da diverse parti del mondo. Insomma cerco sempre di scrivere il più possibile, per provare nuove idee!
S.M. Divulgare il più possibile questo progetto così importante per noi è la priorità. Ma la mia agenda è troppo piena, non vorrei far venire un mal di testa ai lettori. Diciamo che la priorità è passare più tempo con i miei bambini.

Qual è la vostra prossima mission?
A.P. e S.M. Questa è davvero una bella domanda, dobbiamo pensarci un po’. Direi che la prossima mission, è un po’ sempre quella che ci ha spinto fino a qui: scrivere e produrre musica che sia autentica, sincera, e connessa con quello che stiamo vivendo, o che abbiamo vissuto, per poi passare questa esperienza ai nostri studenti, che sono davvero il nostro motore motivazionale giornaliero.

Dimenticavo: avete nostalgia dell’Italia? (Intendo dal punto di vista professionale)
A.P. e S.M. Sì, certamente! Il fatto stesso che questo progetto sia nato dalla collaborazione tra noi due, è la dimostrazione di come tutti e due, anche in terra straniera, avessimo bisogno di una connessione profonda con la nostra musica, i nostri musicisti, e la nostra cultura. Anche se non è sempre facile, ad ogni occasione cerchiamo di creare nuove collaborazioni con colleghi italiani per tenere vive le nostre radici.
Alceste Ayroldi