«A Light In The Darkness». Intervista ad Andrea Goretti

Due lavori discografici in piano solo per il musicista di Mantova. Ne parliamo con lui.

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Buongiorno Andrea e benvenuto a Musica Jazz. Dunque, volevo iniziare a parlare del tuo disco «A Light In The Darkness», ma poi ho incontrato, quasi casualmente, «Silence. The Impossible Show», un EP fresco di pubblicazione. A questo punto, partirei da quest’ultimo. Ci parleresti di questo lavoro? E’ pubblicato solo in forma digitale?
«Silence: the Impossible Show» è un disco un po’ particolare, con una storia abbastanza fuori dalle righe, e oserei dire quasi misteriosa. Sono stato contattato dal nulla da un editore francese, Pascal Maurice, per continuare un progetto iniziato tempo prima da due musicisti francesi, un duo pianoforte e fisarmonica, che non era stato portato a termine. La nostra comunicazione è avvenuta esclusivamente tramite mail – il COVID ha giocato brutti tiri a diverse fasi di questo progetto. Pascal mi ha chiesto di interpretare in maniera originale alcune musiche di inizio Novecento tra cui brani di Lehar, Gershwin, Weill, immaginando una sorta di spettacolo impossibile, ossia un concerto annullato alla Salle Cortot. Una volta accettato l’incarico e pagato l’anticipo pattuito, mi sono messo al lavoro. Dopo un primo intoppo causato da qualche incomprensione, abbiamo fissato una sessione di registrazione in Svizzera, salvo poi essere annullata quasi all’ultimo. Nel frattempo l’editore ha chiesto l’utilizzo di un breve estratto da una delle demo che gli avevo mandato – era l’introduzione a un brano che poi non è finito sul disco – come colonna per il trailer di un filmato che stava commissionando a qualche regista, dal titolo No-Shows. Questa breve introduzione musicale, risuonata da me in quattro modi diversi, è finita poi nel disco con il titolo di «Irma Variations». Finalmente arriviamo alla registrazione finale del disco, che ho realizzato personalmente nel mio studio, e che l’editore ha fatto masterizzare in uno studio parigino. Et voilà, il disco aveva preso la sua forma definitiva (purtroppo la mia interpretazione di I Got Rhythm a cui tenevo particolarmente non ha trovato spazio nel disco, anche se l’ho suonata diverse volte dal vivo; chissà, forse finirà in qualche lavoro successivo!). La copia fisica del disco c’è, tra l’altro si tratta di un’edizione molto elegante in bianco e nero, una sorta di libricino in carta spessa contenente, oltre al CD, un mio pensiero in versi dal titolo Silences, una riflessione sul suono, il silenzio, e il loro rapporto con l’essere umano. Me ne sono arrivate un po’ di copie, come prove di stampa. Dopo l’arrivo di questo primo pacco, al quale sarebbe dovuto seguire l’invio di tutto il restante delle copie pattuite, l’editore si è ammalato, o almeno così ho appreso dal suo collaboratore, e da un certo punto in avanti non ho più avuto sue notizie. Insomma, una storia abbastanza particolare dal finale sospeso!

Cinque brani la cui esecuzione, interpretazione e piglio, si discosta da «A Light In The Darkness». Il tuo tocco è più jazzistico, più morbido: calcola le pause e i silenzi in modo oculato e crea figurazioni ritmiche più consuete. Si tratta di criteri che ti sei imposto per via della committenza?
Sì, sono due lavori molto diversi. Sicuramente il repertorio proposto dall’editore non era assolutamente nel mio radar musicale, ma mi sono adattato cercando un giusto bilanciamento tra la mia personalità musicale e le aspettative dell’editore. Ho utilizzato un metodo compositivo simile a quello di Giacinto Scelsi: ho registrato delle improvvisazioni sui brani proposti, le ho trascritte, sistemate, e poi reincise nuovamente. A volte questo processo si è ripetuto anche per tre o quattro volte. La vera sfida è stata mantenere il piglio improvvisativo nella registrazione definitiva.  Il gusto per il silenzio, le sospensioni, e le risonanze del pianoforte sono invece assolutamente comuni nei due lavori.

Il tuo habitat artistico, pianistico risiede più in «Silence. The Impossible Show» o in «A Light In The Darkness»?
La seconda.

Ciò che accomuna i tuoi ultimi lavori discografici è che, in entrambi, sei in solitario eloquio. Si tratta di un caso, di idiosincrasia agli altri, oppure di una scelta artistica voluta?
La dimensione del piano solo mi piace molto. Sicuramente il mio carattere riservato e l’autonomia sonora dello strumento influenzano particolarmente questa propensione. Però mi piace molto suonare insieme agli altri, è una dimensione completamente diversa rispetto al solo, ognuna coi suoi punti di forza. Spesso suono in solitaria anche perché è molto difficile trovare musicisti con cui si condivide a pieno la stessa idea e sensibilità musicale – e i compromessi, in ambito musicale, mi piacciono poco. Inoltre abitando in una piccola città per suonare bisogna per forza spostarsi, e non sempre è facile organizzarsi.

Parliamo di «A Light In The Darkness». Perché hai voluto questo titolo?
Il disco è ispirato alla filosofia taoista dello yin e yang, in cui gli opposti si compenetrano sempre, come esemplificato dal famosissimo simbolo in bianco e nero. Naturalmente bianco e nero sono anche i colori della tastiera del pianoforte. Dunque anche nell’oscurità ci sarà sempre un punto di luce, anche se circondati da brutture o depressione ci sarà sempre almeno una punta di bellezza e di riscatto: questo è il significato che ho volto esprimere nel disco. Anche la copertina, un quadro molto significativo di un collega pianista che mi ha colpito al primo sguardo e ho fortemente voluto per la grafica, rispecchia questo significato: il titolo infatti è “In mezzo alla tempesta” e, come si può vedere, c’è un bagliore di luce al centro che spicca dalle tenebre.

Un disco che risuona anche delle avanguardie del Novecento, delle intelligenze attive e propositive. Però, si sente il tuo piglio personale, che è decisamente orientato dagli stilemi della musica classica. Cosa o chi ha ispirato questo tuo lavoro?
Nessun compositore o improvvisatore in particolare, almeno a livello conscio. Ho lasciato fluire liberamente tutte le mie esperienze, musicali e non.

Non amo fare riferimenti con altri musicisti: non lo trovo utile per nessuno. Semmai con un particolare periodo storico. Tu, a quale periodo storico ti senti legato?
Mi sento legato al presente, amo la contemporaneità con tutte le sue contraddizioni. La mia musica vorrei che fosse sempre nel qui ed ora, anche per questo amo l’improvvisazione. Non vorrei vivere nel passato; forse azzarderei un teletrasporto nel futuro!

Ho selezionato cinque brani  di «A Light In The Darkness» che, in particolare, mi hanno colpito: Hard To S(t)ay, Canto I, I Giganti, T.T.T.X., Lamento. Di cosa parlano, quali storie raccontano e come li hai concepiti?
Canto I e I giganti sono improvvisazioni libere, registrate completamente al buio, con delle candele accese sul pianoforte per aiutare il mio subconscio a emergere liberamente, per liberare le mie mani e sentire il più possibile la connessione con l’energia cosmica. Il primo brano l’ho registrato pensando al primo canto dell’Inferno di Dante – una mia grandissima passione – in particolare al momento in cui Dante incontra Virgilio (poeta mantovano, mio conterraneo). Sentimenti di paura e coraggio si intersecano tra loro (yin e yang, come dicevamo prima). I Giganti è un omaggio ancora più netto alla mia città, Mantova, in particolare alla meravigliosa Sala dei Giganti a Palazzo Te, realizzata da Giulio Romano. Gli altri tre brani sono invece mie composizioni sulle quali ho improvvisato. T.T.T. X è un chiaro riferimento ai due Twelve Tone Tune di Bill Evans. Per la sua composizione mi sono ispirato a una serie di dodici note, e ad armonie un po’ alla Richie Beirach, uno dei più grandi pianisti post-evansiani. Lamento è invece una mia visione personale del blues: è sempre di dodici misure, ma con armonie moderne. L’ho dedicato al mio insegnante di composizione jazz Roberto Bonati, in particolare per una vicenda personale dolorosa che ha dovuto affrontare qualche anno fa. Hard to S(t)ay è appunto un gioco di parole che simboleggia un qualcosa che è difficile a dirsi, e sul quale è ostico soffermarsi…

Andrea, oggi esiste l’avanguardia musicale? Nel caso di risposta positiva, chi ne fa parte?
Come direbbe qualcuno, l’avanguardia c’è già stata, ed è morta con J.S.Bach!

Che fine ha fatto Unusual Trio?
Bella domanda, me lo chiedo anch’io! Purtroppo il disco è nato in un momento sfortunato, in piena pandemia COVID. Live annullati, prove impossibili da fare, e via discorrendo. Ciononostante ho voluto comunque registrare questo lavoro, avevo voglia di pubblicare un po’ di musica originale che era rimasta troppo tempo nel cassetto. Bruciato il momentum dell’uscita, è stato poi difficile recuperare. Spero vivamente di tornare a suonare la mia musica con questi fantastici musicisti il prima possibile, e di registrare il prossimo disco con loro. Sarò un lavoro sicuramente più “elettrico”, in cui userò il Wurlitzer e vari effetti.

Unusual Trio

Invece, ci parleresti del progetto Digitans?
Digitans è un progetto molto particolare, ideato dal compositore e pianista trentino Alessandro Boratti. Ci siamo conosciuti durante una masterclass su Giacinto Scelsi curata da Fabrizio Ottaviucci quando eravamo entrambi studenti al Conservatorio di Parma. Abbiamo due storie in un certo senso opposte, in senso positivo. Io sono partito come pianista classico e sono approdato tardi al jazz. Alessandro è partito come pianista jazz per arrivare successivamente alla composizione classica! Le nostre strade sono assolutamente speculari, e incredibilmente compatibili. La musica che ha scritto per questo progetto in genere non piace ai musicisti classici perché richiede molta adattabilità improvvisativa; ma allo stesso modo non piace agli improvvisatori puri, perché ci sono note e accordi da seguire! In me ha trovato il giusto musicista per la sua musica, e a me piace moltissimo questo modo di fare musica, con tanta libertà incanalata da una sapiente organizzazione del materiale musicale. Le due tastiere vengono affiancate da una voce teatrale a cui di recente si è aggiunta una voce lirica, si tratta di uno spettacolo di teatro musicale sperimentale in cui tutti usiamo anche oggetti sonori di vario tipo e recitazione teatrale.

Se dovessi dedicare un disco a un libro, quale sarebbe?
Non sarebbe un libro ma un mazzo di carte. Sto parlando dei Tarocchi, di cui sono appassionato. E’ da tempo che ci penso e prima o poi lo farò, ma al momento ho altri progetti in ballo.

Ti commissionano uno spettacolo teatrale-musicale-multimediale. Quale sarebbe il plot e chi ne farebbe parte?
Per uno spettacolo contemporaneo dovresti chiamare Alessandro Boratti! Lui ha creato una bellissima operetta dal titolo La bella e il punkaabestia, in cui i musicisti suonano in costume, fantastico! Se dovessi creare uno spettacolo sicuramente mi piacerebbe lavorare su un plot surreale, onirico e sognante.

Se ti proponessero un concerto NFT nel Metaverso, accetteresti?
E’ da quasi due anni che seguo la tecnologia della blockchain di cui sono un grande estimatore. Il futuro, volenti o nolenti, passerà di lì. Io mi sto portando avanti, o meglio, sto cercando di rimanere al passo: tra le altre cose ho già un mio dominio nel web3 e wallet per ricevere in futuro pagamenti in criptovaluta per la vendita della mia musica. Però non ho mai assistito a un concerto nel Metaverso, sicuramente non lo vedrei bene per il mio piano solo – le vibrazioni della tavola armonica non consentono passaggi nella blockchain. Con progetti musicali elettrici invece lo farei molto più volentieri. Mi piacerebbe poi esplorare la possibilità di rilasciare un disco o brani singoli nella blockchain, magari con benefit per l’acquirente quali sconti per i concerti o percentuali sulle royalties dei brani.

Quali sono gli obiettivi che ti sei prefisso come artista?
Creare della musica che sia di valore.

Cosa è scritto nell’agenda di Andrea Goretti?
A breve curerò un laboratorio di pianoforte jazz al Liceo Musicale di Mantova. Penso sia un’ottima opportunità per far conoscere questa musica meravigliosa ai ragazzi. Ho poi due progetti che stanno prendendo forma in questi mesi. Come prima cosa sto per registrare un disco in wurlitzer solo, con un programma di musica scritta (non posso ancora dire di che cosa si tratta). Poi sto portando avanti un progetto in duo, sempre col pianoforte elettrico, con un DJ della provincia di Mantova, TJ Scratchavite. Insomma, due progetti elettrici radicalmente diversi dai primi dischi che ho pubblicato! Penso sarà una sorpresa, per chi ha ascoltato i primi miei dischi, sentire quest’altra faccia della mia personalità musicale.
Alceste Ayroldi