«Trema la terra». Intervista ad Alfio Antico

Il percussionista siciliano pubblica un nuovo album che, nelle sue parole, guarda al passato cercando di farlo vivere nel presente e nel futuro. Gli abbiamo chiesto di cosa si tratti.

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Alfio-Antico-foto-Julia-Martins

Iniziamo a parlare del suo ultimo disco «Trema la terra». In particolare, da subito colpisce Pancali cucina dove, nel bel mezzo del brano, esplode un’ondata di rock-punk. Come le è venuto in mente questo brano e perché ha voluto questa eruzione di suoni?
Sono legato un po’ a tutto il disco, ci sono tante storie simili che rappresentano la mia vita. Io di generi musicali onestamente non me ne intendo, mi interessa suonare. Cesare Basile, che ha curato la produzione artistica, è stato bravo insieme a tutti i musicisti a capire la vena di questo brano: è un monte che anticipa la tempesta, penso questo sia rock

Sembra che a questo brano (Pancali cucina) lei sia particolarmente legato, visto che lo troviamo anche nel precedente suo album eponimo. Cosa rappresenta per lei?
Pancali è un cucuzzolo figlio dei Monti Iblei che si affaccia sui paesi di Lentini (dove io sono nato) e Carlentini, si configura come una terrazza panoramica sulla Piana di Catania. Quando ero ragazzo i pastori leggevano il tempo attraverso questo monte e non sbagliavano mai. Io sono cresciuto in quella vita pastorale, questo mi lega profondamente a storie come quella di Pancali cucina.

Il testo di Nun n’aiu sonnu, è molto bello, con la «dedica» agli sfruttatori di carne umana. Le andrebbe di approfondire il concetto?
Mi sono trovato a dialogare con le stelle una notte che non riuscivo a dormire. Pensavo alle persone squallide di questo mondo, ai farabutti e a chi si approfitta del prossimo. Così sono nate queste strofe.

In Pani e cipudda, oltre a una tessitura rocciosa e tesa dalle chitarre, sembra esserci anche delle sonorità attinte dall’Africa; e così anche in Menza sira.
Siamo tutti figli del Mediterraneo, in queste sonorità, anche grazie a Cesare, abbiamo tirato fuori tante radici. Tutto questo però è uscito dalle nostre mani. C’è Sicilia, c’è Africa, c’è Magna Grecia. Ci sono tante cose che rappresentano Alfio.

In generale, mi sembra che rispetto al suo precedente lavoro «Trema la terra» sia più duro, con uno splendido mix tra musica ancestrale e fioriture contemporanee. E’ successo qualcosa che ha cambiato il suo modo di vedere la musica?
Sono sempre stato curioso, sempre alla ricerca di suoni, cerco di osservare la natura, quello che succede intorno a me. Guardo al passato, cercando di farlo vivere nel presente e nel futuro. Questo mio percorso è sempre esistito, sta proseguendo ed ogni volta ha qualcosa di nuovo.

Quali sono i suoi compagni di viaggio in questo ultimo disco e perché ha scelto proprio loro?
Ho rivisto vecchi fratelli che collaborano con me da anni, come Puccio Castrogiovanni. Poi Cesare Basile: è come se fossimo fratelli da sempre, ma ci siamo incontrati per la prima volta, a livello musicale, in questa occasione. C’è Mattia, mio figlio, che ha dato tanto a questo lavoro soprattutto prima di entrare in studio. C’è Gino Robair dagli Stati Uniti che ha portato le sue idee e le sue onde. Ci sono tanti incontri, per me i dischi si fanno così: attorno ad una tavola, in famiglia.

 Alfio, che musica ascolta?
Prevalentemente classica e jazz. Sono un grande appassionato di Bach, per me fonte di ispirazione.

Lei è un maestro del tamburo. Quando compone che strumenti utilizza?
Molte canzoni nascono voce e chitarra (classica o battente), qualcosa direttamente con il tamburo.

Comunque, il suo tamburo ha superato la tradizione, pur tenendola bene a mente. Quali sono i suoni che lei reputa ancestrali e dai quali non si allontanerebbe mai?
Per me è uno strumento vero e proprio. Non è folklore da cartolina. Quei suoni sono ancestrali. É il mio Strumento vero e proprio, come una chitarra. Sono tutti suoni dai quali non posso allontanarmi. Il Tamburo muto ha un ricordo, quello con i sonagli altri. Per me tutti rappresentano la terra.

Alfio, quando ha iniziato a interessarsi della musica e quando ha deciso che sarebbe diventata la tua professione?
Da bambino, quando mungevo le pecore, quando ero solo nei boschi di notte, quella per me era musica. I primi Tamburi che vedevo suonare da mia nonna materna mi hanno fatto innamorare dello strumento. Poi a Firenze, ma questa ormai è storia conosciuta, quell’incontro con Eugenio Bennato: lì ho capito che poteva diventare il mio lavoro.

Lingua a parte, nei suoi brani quanto è importante la Sicilia?
La Sicilia è la mia terra, ricordo e scrivo quelle storie, allo stesso modo è però davvero molto importante la lingua. Mi aiuta ad esprimermi al meglio, anche quando parlo della società che mi ruota attorno.

Perché si è trasferito in un’altra città?
Ho conosciuto Rita a Ferrara e ho deciso di fermarmi lì, ormai sono quasi 34 anni. Prima sono state esigenze, facevo fatica a rimanere in Sicilia e ho cercato fortuna altrove, così scelsi Firenze.

Lei costruisce anche i suoi tamburi. Con quali criteri procede alla costruzione? Si basa sulla musica che intende comporre, suonare oppure è il suono del tamburo a influenzare la sua musica?
Penso sia il suono ad influenzare la musica che poi ne esce. Cerco delle storie anche per costruire il tamburo, è come si creasse insieme.

Nella sua musica c’è spazio all’improvvisazione di matrice jazzistica?
Sì, io stesso lo faccio, specialmente live

La sua vita è anche costellata di incontri straordinari, musicalmente parlando. Quale ritiene essere stato quello più illuminante, più importante?
Maurizio Scaparro e Amedeo Amodio hanno dato teatralità al mio tamburo, così come Peppe Barra. Sarei falso a non citare Eugenio Bennato, gli devo la carriera.  Poi tutte le persone che ho incontrato hanno avuto molto da me ed anche io ho ricevuto tanto. Ho bisogno di avere uno scambio umano, di sentirmi in sintonia. Con molti sono rimasto in buoni rapporti e li continuo a reputare grandi amici, come per esempio Vinicio Capossela.

Quanto spazio c’è in Italia per la musica popolare?
Non è semplice rispondere, alle volte è relegata al folclore da cartolina, purtroppo. Invece deve essere vissuta, capita, sviluppata e modificata.

All’estero il suo lavoro come viene accolto?
Con pieno rispetto, ho collaborato spesso con orchestre di musica barocca

Quali sono i suoi progetti futuri?
Sono concentrato sulla promozione del disco «Trema la Terra» e nel futuro voglio suonare molto questo nuovo progetto.
Alceste Ayroldi