Buongiorno Alessandra e benvenuta a Musica Jazz. Parliamo subito di «Ultraminimal – Piano Essence». Come nasce questo progetto e quali idee racchiude?
«Ultraminimal – Piano Essence» nasce dal mio desiderio di cercare. Mi interessava prendere ogni nota del pianoforte e trattarla come fosse una gemma preziosa. E’ un approccio contemplativo e attento, ma al tempo stesso istintivo, in cui ricerco purezza e semplicità. Ogni suono ha un valore unico e irrinunciabile e il mio desiderio è riuscire a coinvolgere l’ascoltatore in questo viaggio sonoro dove apprezzare la «semplice complessità» di ogni nota attraverso un rallentamento. L’ obiettivo «ambizioso» è offrire un’esperienza uditiva spogliata dal superfluo e, simbolicamente, cercare la verità nascosta nelle piccole cose e trovare valore nella semplicità.
Alessandra, qual è a tuo parere l’essenza del pianoforte?
L’essenza del pianoforte è nel suo stesso nome ed è profondamente legata alla sua capacità di esprimere una vasta gamma di dinamiche, dal “piano” più delicato al “forte” più potente. In «Ultraminimal – Piano Essence» ho in qualche modo esplorato la capacità del pianoforte di trasmettere emozioni complesse attraverso variazioni sottili di intensità e timbro concentrandomi su quei dettagli che spesso passano inosservati. Con questo lavoro vorrei portare l’ascoltatore a riscoprire il pianoforte in una luce nuova, apprezzando non solo la melodia o l’armonia, ma anche le dinamiche, i colori, e le emozioni che ogni singola nota, suonata con attenzione e intenzione, può evocare.
Qual è il contributo che il minimalismo ha consegnato allo sviluppo della musica?
E’ sempre limitante mettere etichette. La musica è un linguaggio universale che trascende le categorie, e ridurla a generi o stili può spesso sminuire il suo potere comunicativo. Io amo la musica a 360° e non faccio distinzioni tra i generi. Spesso le etichette portano ad una banalizzazione o addirittura ad una degenerazione. Lo stesso Philip Glass, considerato uno dei padri del minimalismo non ama essere definito così, poiché vede la musica come qualcosa di vivo e in evoluzione. Me lo disse personalmente durante un nostro incontro. Tuttavia, se proprio dovessi dire qualcosa a riguardo direi che il minimalismo si muove come le onde del mare e trasferisce in musica quel continuo emergere delle onde dalla profondità. Il semplice diventa complesso e il banale si trasforma in qualcosa di straordinario. Il minimalismo, in questo senso, cattura l’essenza del movimento, del cambiamento e della trasformazione.
Come hai agito in fase compositiva? Mi spiego: le composizioni di questo disco le hai composte tutte nello stesso periodo o sono frutto di un lavoro che si dilata nel tempo?
Di solito compongo di getto, ma nel caso di «Ultraminimal – Piano Essence» ho deciso di tornare più volte sui miei passi, cercando di togliere il superfluo e distillare l’essenza di ogni brano. E’ stato un lavoro lento e meditato e questo processo mi ha permesso di creare qualcosa di più puro, lasciando emergere solo ciò che, a mio avviso, era davvero essenziale.
Perché hai deciso che questo disco fosse stampato in edizione, direi, limitatissima: 118 copie?
A dire il vero, inizialmente non avevo previsto la stampa in CD per questo progetto. Tuttavia, quando l’etichetta discografica Dark Companion mi ha proposto di realizzarne un’edizione limitata, ne sono stata felice. E’ vero che ormai la musica viene ascoltata soprattutto in streaming, ma c’è ancora chi apprezza l’ascolto in alta qualità, e mi piace l’idea di poter offrire anche questa possibilità. Soprattutto per un lavoro di questo tipo dove è importante ogni sfumatura e dettaglio sonoro. Ci saranno 118 persone che potranno scegliere questo tipo di ascolto.
Perché hai scelto proprio Fairy Tale come singolo? Ci parleresti anche del video che lo accompagna e promuove?
Fairy Tale è un breve racconto musicale che si muove tra sogno e realtà, attraverso un giro melodico vagamente ipnotico. Ho scelto questo brano perché si sviluppa in un’atmosfera sospesa e più degli altri riflette il mio grande amore per Erik Satie, il compositore che da sempre considero mio «maestro» proprio per la sua ricerca di essenzialità e per la sua poetica surreale. Il video, diretto da Dario Zaid, cattura l’essenza onirica e visionaria del brano. Girato nella casa dove ho trascorso la mia infanzia e adolescenza è un viaggio nei miei ricordi più preziosi. Su quel pianoforte, con cui ho iniziato i miei studi musicali all’età di sei anni, affiorano memorie lontane: antichi giocattoli, immagini in Super8, luci e ombre che danzano in uno spazio senza tempo. È un omaggio ai mondi perduti dell’infanzia, dove la realtà si mescola con il sogno.
Qual è la tua idea del singolo? Pensi che sia necessario pubblicare anche un singolo al giorno d’oggi?
Nonostante ultimamente il formato del singolo sia quello che funziona di più, non mi entusiasma particolarmente l’idea. Un singolo può tuttavia servire da «gancio» per catturare l’attenzione dell’ascoltatore e invogliarlo a scoprire l’intero album a cui appartiene. Amo molto gli album concettuali o quelli che seguono un tema specifico dove ogni traccia può essere vista come un pezzo di un puzzle che, una volta completato, rivela un’immagine totale.
Come si inserisce nella tua discografia e nel tuo percorso artistico questo lavoro?
Dopo questi anni di confusione e incertezza, ho sentito profondamente la necessità di fare chiarezza, sia a livello umano che artistico. Era come se dentro di me si fosse accumulato un groviglio di pensieri, emozioni e idee che avevano bisogno di essere dipanati, compresi e riorganizzati. E’ emerso sempre più forte un desiderio di verità, una spinta verso ciò che è veramente essenziale. Trovare questo centro non è affatto semplice. Come esseri umani siamo esseri complessi, ricchi di sfumature e contraddizioni. Per questo, andare all’essenza non significa togliere i colori o appiattire la nostra esperienza. Al contrario, significa cercare con maggiore consapevolezza quei colori che definiscono davvero chi siamo. «Ultraminimal – Piano Essence» nasce da qui.
Qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
Ho un rapporto istintivo con l’improvvisazione. Non conosco le «regole» del jazz ma spesso nei miei concerti ci sono parti che lascio all’ intuizione del momento. C’è un’idea di Zappa che mi affascina molto. Lui sostiene che se durante un concerto fai un errore, invece di sentirti in colpa o cose del genere, puoi insistere sullo «sbaglio» ripetendolo due o tre volte…a quel punto proprio quell’errore può diventare un’opportunità per scoprire nuove direzioni creative e reinterpretare la performance. Mi sembra una soluzione molto divertente.
Rimane ferma nella memoria la tua splendida idea di «Piano Piano on the Road». Come è nata e come è andato quel tour?
«Piano Piano on the Road» è stata senza dubbio l’esperienza più fantasiosa della mia vita di musicista. Immaginate un viaggio attraverso l’Italia con il mio pianoforte caricato su un camion, pronto a trasformare ogni angolo del paese in un palcoscenico improvvisato. Ovunque andassi, incontravo gli sguardi sorpresi e felici delle persone. Non era solo un concerto, ma un incontro magico tra musica e luoghi inaspettati: ho suonato in un bosco, sulla riva del mare, in piccoli paesini lontani dal trambusto della vita quotidiana, ma anche di fronte ai sassi di Matera, all’alba a San Pier Niceto in Sicilia. Era il 2013, e in qualche modo mi sentivo una pioniera di questo genere di avventure musicali: portare la musica fuori dai contesti tradizionali, farla risuonare nel cuore della natura o tra le mura di borghi antichi. Ogni nota si mescolava con il suono delle onde o il fruscio delle foglie, creando un legame profondo tra la musica e l’ambiente circostante. Questo progetto è stato molto più di un semplice tour musicale. È stata un’esplorazione dell’anima dell’Italia, un viaggio che mi ha permesso di connettermi con il pubblico in modi nuovi e inaspettati. Prima di partire per questa avventura, fui contattata da un regista che mostrò subito interesse per il progetto. Mi chiese se poteva farmi seguire da due operatori durante tutto il viaggio. Così, lungo il mio cammino musicale, mi ritrovai accompagnata da queste due presenze silenziose, quasi come due angeli custodi. Con discrezione e professionalità, ripresero ogni momento. Il loro lavoro ha catturato non solo la musica, ma anche l’essenza di questo viaggio e da quel materiale è nato un documentario che racconta questa esperienza in modo coinvolgente. Ora è disponibile integralmente su YouTube, permettendo a chiunque di rivivere quei momenti e di viaggiare con me lungo le strade d’Italia.
Für Alina è il tuo brano maggiormente ascoltato in streaming. Ti sei mai chiesta per quale motivo lo sia?
Amo tantissimo questa composizione di Arvo Pärt e non immagini la mia felicità nel sapere che la mia interpretazione ha avuto già oltre 6 milioni di ascolti solo su Spotify. Pärt è un compositore di culto nel panorama della musica contemporanea. Penso che il grande fascino della sua musica risiede soprattutto nella sua profonda spiritualità e nella sua concezione “meditativa”.
A tuo avviso lo streaming è un’opportunità, un semplice mezzo, un veicolo di sfruttamento dei musicisti?
Probabilmente è tutte queste cose, ma, a mio avviso, lo streaming è soprattutto un vero delirio. Ultimamente mi sento quasi «perseguitata» da Spotify, che ha persino eliminato arbitrariamente uno dei miei album dalla piattaforma. Ho deciso, però, di non dare troppo peso a ciò che accade. Preferisco restare concentrata sulla musica e non lasciarmi travolgere da meccanismi che non posso controllare né comprendere pienamente.
Quali sono le tue influenze musicali?
Fin da bambina, sono sempre stata immersa nella musica. Mio papà era un grande appassionato, in particolare di jazz. A casa risuonavano spesso, a tutto volume, il sax di Gerry Mulligan o il pianoforte di Oscar Peterson. La domenica, un amico afroamericano veniva spesso a trovarci e si sedeva al piano per suonare i ragtimes di Scott Joplin. La musica era una presenza costante: non solo jazz, ma anche classica. Da piccola avevo persino un mio piccolo repertorio di vecchie canzoni degli anni Trenta che cantavo sempre. Crescendo, però, ho scoperto le Gymnopédies di Satie, e lì è stato un colpo di fulmine. Poi è arrivato Philip Glass, che ha ampliato ulteriormente i miei orizzonti musicali. Nonostante ciò, amo molto anche il rock, con artisti come David Bowie, Lou Reed e Nick Cave.
C’è qualcuno, in particolare, con cui vorresti (o avresti voluto) collaborare?
Mi piacerebbe moltissimo collaborare con Brian Eno, non solo per la sua straordinaria intelligenza musicale, ma anche per la sua dedizione al suono come forma d’arte. Eno è un pioniere, capace di esplorare e trasformare l’universo sonoro con una visione che va oltre la semplice composizione. La sua capacità di creare atmosfere e di manipolare il suono in modi innovativi è qualcosa che ammiro profondamente. Nel 2010 ho avuto la straordinaria opportunità di lavorare con Hans-Joachim Roedelius, uno dei pionieri dell’elettronica tedesca. Collaborare con lui è stato un grande privilegio, considerando il suo impatto sulla musica elettronica e il suo ruolo cruciale nella scena krautrock. Roedelius ha lavorato anche con Brian Eno, quindi in un certo senso, il mio desiderio di collaborare con Eno è stato realizzato, seppur indirettamente.
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi e quali i tuoi impegni?
Sto lavorando a un nuovo progetto, ma per ora preferisco mantenere un velo di mistero. Posso dire solo che prevedo di usare la voce. Non sono una cantante ma non posso fare a meno del canto. Invece posso annunciarvi qualche concerto: Il 14 settembre sarò a Torrita di Siena per una performance con il mio micropiano. Suonerò in una vecchia galleria antiaerea, oggi trasformata in una vertical farm. Questo progetto è interessante perché rappresenta il tema della trasformazione, sia in senso fisico che simbolico. Il giorno successivo, il 15 settembre, sarò a Bettona per il Gecko Festival. Infine, il 24 ottobre volerò a Berlino, una città che porto nel cuore per la sua inesauribile energia e per il profondo legame con musicisti che considero punti di riferimento. E poi non posso dimenticarmi che il 2025 si celebreranno i 100 anni dalla morte del mio amato Satie. Ma tanto la sua musica è eterna.
Alceste Ayroldi