«UNfinished». Intervista a Simona Bencini

Secondo album da solista per la vocalist fiorentina, realizzato con la collaborazione dello LMG Quartet e altri musicisti. Ne parliamo con lei.

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Simona Bencini Foto di Marco Piraccini

Simona, «UNfinished» è il tuo secondo album da solista. «Sorgente» risale al 2005. Come mai questo lungo intervallo di attesa tra i due lavori discografici?Questo lungo intervallo in realtà non è stato così lungo come dici. Nel 2011 sono uscita col mio primo album jazz crossover «Spreading love» (Groovemaster 2011) con Lmg Quartet che in qualche modo ha stimolato in quegli anni il concepimento del disco «UNfinished». Sicuramente, questo è vero, da un punto di vista discografico, non sono mai stata così prolifica come solista. Un po’ perché stare in una band è piuttosto totalizzante ed impegnativo e non riesci a fare molto altro. E dal 2012, anno della reunion fino ad oggi, mi sono ributtata a capofitto nella band. Un po’ perché fare da sola, per me che non sono autonoma non essendo una musicista, è un po’ più complicato il tutto, ti devi avvalere del giusto team e non sempre le scelte che si fanno possono essere giuste. Per esempio, il lavoro per l’album «Sorgente» è stato molto faticoso. L’uscita da una band di successo come quella dei Dirotta su Cuba non è stata una passeggiata. E’ stato come ricominciare da capo. La mia casa discografica al tempo aveva un’idea artistica di me che non coincideva con la mia e mi ero circondata di persone (management, agenzia, etc. etc.)  che addirittura la vedevano  ancora diversamente. Un bel casino.  Le aspettative erano alte ma non c’era una direzione comune e perciò, al di là di tutti i miei sforzi, il mio riposizionamento è fallito. Con conseguente down psicologico e mortificazione e altro, che ogni artista nella sua carriera più volte nella vita ha provato e vissuto. Sono ripartita così dalle cose veramente importanti e mi sono dedicata alla mia famiglia, ho messo al mondo Sofia ed Eva Luna, mi sono sposata e ci siamo trasferiti sul Lago Maggiore, in un posto incantevole, in mezzo alla natura.

La scelta del titolo «UNfinished» quale significato assume?
Ho voluto raccontare con una parola (ed anche graficamente) la storia di questo lavoro. Era un album che avevo cominciato a concepire e a registrare nel 2010, ma che poi è finito in un cassetto di lì a poco a causa di alcune vicissitudini. Ed anche perché il progetto Dirotta su Cuba era tornato in auge dopo 10 anni di assenza. Un lavoro incompiuto, unfinished appunto, che adesso finalmente vede la luce, un progetto ripreso in mano durante il primo lockdown nella primavera del 2020. Un lavoro che mi ha letteralmente «salvata» da quel periodo incerto, sospeso che tutti abbiamo vissuto. Ogni mattina mi alzavo con l’obiettivo di terminarlo. Avevo il desiderio di lasciare un altro pezzo di me alle mie due figlie, Sofia ed Eva Luna, quel lato più introspettivo e romantico che con il repertorio dei Dirotta non poteva palesarsi.  Anche nella scelta della cover dipinta dall’artista Pier Toffoletti ho voluto trasmettere questo senso di “incompiuto”, che soprattutto nella pittura, nella scultura, ha così un grande fascino: quel qualcosa di indefinito, senza età, che galleggia nel tempo ha  un qualcosa che ti attrae a sé con un filo invisibile…   come la musica in questo disco, che non è legata né a mode né ad esigenze di mercato, che mi ha tenuta legata a sé per tutti questi anni.

Vorresti parlarci dei musicisti che ti accompagnano in questo nuovo album?
Gli otto brani sono suonati  da formazioni diverse. Un po’ perché questo album ha viaggiato nel tempo ed è stato ricomposto dopo così tanti anni  dal suo concepimento, un po’ perché ho voluto radunare intorno a me musicisti ed amici che ho incontrato nel corso di questi ultimi dieci anni. La maggior parte di loro proviene dall’ambito jazz perché volevo che il disco avesse un suono più in quella direzione e ci fosse quell’ improvvisazione che io non sarei stata in grado di dare non essendo io una cantante jazz tout court. Ci sono gli LMG quartet che sono come dei fratelli per me: Mario Rosini, Mimmo Campanale, Gaetano Partipilo, Giuseppe Bassi prima e Giorgio Vendola, poi. C’è Dario Rosciglione, che è stato il produttore artistico di quattro brani di questo album, i brani «seminali», li chiamo io, quelli dai quali è partito tutto: A Flash Of Light, Wondrous Child, While My Time Is Running Throug, You Are The Music. E’ Dario che mi ha fatto conoscere il talentuoso Julian Oliver Mazzariello che suona infatti in tutti e quattro i brani. Poi ci sono Fabrizio Bosso e Antonio Faraò, due grandi nel loro strumento e con i quali ho avuto la fortuna di collaborare recentemente in alcuni progetti, anche con Dirotta su Cuba. Con Max De Aloe, all’ armonica, ci siamo conosciuti con Bruno De Filippi, grazie alla collaborazione che i Dirotta fecero a Sanremo con Toots Thielemans. Visto che nell’ album canto un brano di Bruno, non poteva mancare nel brano, a ricordarlo ed omaggiarlo, il suono di un‘armonica suonata da un suo caro amico come lo era Max. Poi ci sono Simone Borgia ed Enrico Solazzo che hanno arrangiato gli archi in modo pregevole. Max Greco, pianista ed arrangiatore, amico dalla fine degli anni Novanta, che ha scritto per me Moonlight. E molti altri: Max Furian, Marco Ricci, Luca Alemanno che ha registrato il contrabbasso di Moonlight da Los Angeles durante il lockdown.

Simona, è un disco dove il jazz è di casa. Quando è entrata questa musica nel tuo universo?
La musica dei Dirotta è intrisa di jazz, da un punto di vista armonico e  soprattutto nell’improvvisazione solistica. Eravamo gli unici negli anni Novanta che nell’ambito  pop inserivano nei loro brani grandi soli di  piano, sax, tromba, chitarra, armonica, come  appunto quello di Toots Thielemans a Sanremo nel 1997.  Agli inizi del 2000 poi, grazie ad una collaborazione con Stefano Bollani per il disco «Abbassa la tua radio», ho iniziato anche a cantarlo e ad ascoltarlo. Ho iniziato ad ascoltare Ella Fitzgerald, Dinah Washington, Billie Holiday, Chet Baker, Diane Schuur, Rachelle Ferrell, Natalie Cole, Frank Sinatra e molti altri. Il mio primo concerto di standard l’ho fatto a Milano nel 2001 al Museo della  Scienza e della Tecnica con  Francesco Bernasconi, Tony Arco, e Marco Ricci. Poi, nel corso degli anni ho cantato in qualche big band ed ho allenato il mio naturale swing fino ad arrivare alla registrazione di due brani in un cd del Parco della Musica Jazz Orchestra diretta da Maurizio Giammarco. Infine il mio primo album di jazz contaminato con gli LMG 4tet uscito per la GrooveMaster/Egea. Avevo mandato qualche brano a Gegè Telesforo e lui mi chiamò entusiasta al telefono perché evidentemente non si aspettava questa svolta jazz da me.

Però, troviamo anche tinte soulful come in Moonlight On My Mind, firmato da te e da Massimo Greco. E’ un tuo obiettivo mettere insieme jazz e soul?
Mi piace la contaminazione, e mi viene naturale perché i miei ascolti, il mio modo di cantare, lo stesso  mondo Dirotta, si ispirano al mondo Motown.  Perciò inevitabilmente, anche nella scelta del repertorio, sono attratta dalle melodie più soul.

Angel’s Lullaby ti vede anche coautrice. Cosa racconta questo brano?
Suonavamo questo brano dal vivo con LMG già da qualche anno. Il brano è di Gaetano Partipilo che ci ha raccontato di averlo scritto dopo un racconto di sua moglie che lavora in terapia intensiva neonatale a Bari: una madre partorisce un figlio con gravissime malformazioni, destinato a morte sicura. La donna, nel suo dolore, decide che non  vuole  vedere il figlio ed il povero neonato non  avrà un solo abbraccio dalla sua mamma e morirà, solo,  nella sua incubatrice di lì a poco. Una storia tristissima che mi ha toccato, ovviamente. Ho pensato alla solitudine di questa  creatura e al suo brevissimo passaggio sù questa terra senza neanche essere rassicurata  e scaldata da un solo abbraccio, da un po’ di amore. Ho sognato di poterla cullare e di cantargli almeno una volta una ninna nanna, quel semplice gesto amorevole  che ogni mamma fa col suo piccolo per addormentarlo…con  la differenza che in questo caso si sarebbe trattato di  un sonno eterno.

Simona Bencini
Foto di Marco Piraccini

Unico standard è It Don’t Mean A Thing di Duke Ellington. Perché hai scelto proprio questo brano?
Anche questo era un brano che avevo lasciato nel famoso cassetto. Era un brano che avevo registrato con gli LMG 4tet per «Spreading love» nel 2010 ma era rimasto fuori dal disco, ma non mi ricordo bene neanche il motivo sinceramenteJ. Il progetto con LMG 4tet al tempo era partito come un tributo a Duke Ellington ed avevamo riarrangiato diversi  brani dal suo repertorio. Sta di fatto che questo brano lo facevamo comunque dal vivo, il groove ritmico di questo arrangiamento era adattissimo per un gran finale o per un bis.  Finalmente anche questo brano trova la sua giusta collocazione come chiusura di questo album.

Non hai rinunciato a cantare anche in italiano. Non so se tu. Un brano che si muove sulle note di April In New York e che ha una bella storia alle spalle. Ce ne vorresti parlare?
Sì, ci tenevo a cantare nella mia lingua, sono conosciuta soprattutto per il mio repertorio in italiano in fondo, meno per quello in lingua inglese che comunque mi accompagna da sempre, fin dagli esordi, soprattutto nei miei ascolti. Anche Non so se tu fa parte di una storia incompiuta. Io e Bruno De Filippi siamo diventati amici alla fine degli anni Novanta: ci conoscemmo al Blue Note di Milano; ci accomunava l’amicizia con Toots Thielemans. E’ capitato che lui salisse sul palco con i Dirotta a suonare E’ andata così al posto di Toots. Bruno l’aveva fatto scrivere a Giorgio Calabrese, fra i più grandi autori di musica leggera e trasmissioni televisive fra gli anni Sessanta e Settanta,  un testo su un suo brano  dal titolo April In Ny perché gli sarebbe piaciuto che lo interpretasse una voce femminile. Nel 2003 Bruno mi scrisse una lettera di suo pugno, come si faceva una volta, e mi spedì questo   brano col questo testo inedito di Calabrese chiedendomi se avessi voluto cantarlo nel mio primo disco solista. Il mio disco da solista «Sorgente» aveva preso però  strade più R&B e le atmosfere jazz del brano non erano così adatte, perciò il testo inedito e la song finirono…indovina un po’? in quel famoso  cassetto!! Dopo diciassette anni finalmente ho trovato anche per questo brano la giusta collocazione. A volte penso che tutta questa attesa alla fine abbia avuto anche un senso in fondo i tempi, allora, forse non erano maturi.
Lo scorso dicembre perciò sono andata allo studio storico Il Cortile a Milano ed insieme a un trio incredibile di amici e musicisti abbiamo registrato in diretta Non so se tu: Antonio Faraò al piano, Maxx Furian alla batteria e Marco Ricci al contrabbasso.

Mentre You Are The Music è dedicata ad Amy Winehouse. C’è un legame tra te e la cantante londinese?
La adoravo, penso che sia stato un talento pazzesco, fra i più puri degli ultimi decenni. Con una voce e uno stile naturale di altri tempi ma modernissima, perfettamente inserita nel suo tempo, un crossover perfetto, fra il passato ed il contemporaneo, una personalità unica, inimitabile e, per fortuna e purtroppo, così tormentata che ha fatto sì che la sua vita sia diventata un’opera d’arte incompiuta…Questo il legame. Tutto ciò l’ha resa un’icona assoluta, affascinante, la sua opera, la sua vita, proprio perché spezzata così presto, di un valore inestimabile.

C’è un filo rosso che lega i brani di questo disco?
Certamente. Quel famoso cassetto dove, per circostanze e vicissitudini, ho dovuto rinchiudere delle bozze di musica e perciò anche di vita. Un cassetto che però ogni tanto aprivo, per fortuna!

Fabrizio Bosso e Simona Bencini
Foto di Marco Piraccini

Un disco con tanti musicisti. Penso che averli tutti sul palco per i live sarà un’impresa difficile. Hai già delle soluzioni alternative?
E già. Ho scelto di portare in giro questo album con i miei fratelli LMG 4tet con i quali condivido da anni il palcoscenico. Il lato umano ed il feeling sul palco sono per me elementi irrinunciabili. Non ho voluto fare esperimenti. E poi sono dei musicisti pazzeschi. Ogni tanto, se ci saranno le condizioni e le disponibilità, ci raggiungeranno gli altri. E’ già successo al Blue Note alla presentazione del disco, sono saliti sul palco con noi Antonio Faraò e Fabrizio Bosso. E’ stato stupendo.

Quanto delle tue pregresse esperienze e, in particolare, quella dei Dirotta su Cuba sono presenti in questo disco?
L’ irrinunciabile scelta in alcuni brani del groove e la complessità armonica.  Caratteristiche che hanno sempre avuto i brani dei Dirotta.

A proposito: perché è terminata l’esperienza con i Dirotta su Cuba?
L’esperienza dei Dirotta non è terminata, si è solo fermata. Lavorare con i Dirotta è totalizzante, non è facile fare altro. E questo alla lunga può scaricare le batterie. E’ necessario perciò ogni tanto fermarsi e andare a ricaricarle altrove.

Simona, chi (o cosa) è la tua Musa ispiratrice?
Non ho mai avuto una vera e propria Musa ispiratrice.  Ho avuto svariati modelli da emulare nel corso degli anni, questo sì, dai quali ho imparato e carpito qualcosa: da Sade a Steve Wonder, da Chaka Khan ad Anita Baker, da Ella Fitzgerald ad Erikah Badu, da Alicia Keys a Jamie Cullum, Kurt Elling, Gregory Porter.

Ti senti più interprete, autrice o compositrice?
Avendo fatto parte di una band per tanto tempo ed avendo partecipato sempre al processo creativo di ogni album, non mi sento assolutamente una pura interprete. Anche in «Sorgente» alla fine, in «Spreading Love» e in «UNfinished», sono sempre stata molto di più di un’interprete. Ho fatto scelte di arrangiamento, ho composto melodie, creato hook, scritto testi. C’è sempre molto di mio in tutto quello che faccio.

Cosa  è scritto nell’agenda di Simona Bencini?
Live live live!

Cosa è scritto nel diario dei segreti?
Mi piacerebbe suonare nei festivals piu belli d’Europa.
Mi piacerebbe tornare a Sanremo.
Mi piacerebbe duettare con Jamie Cullum che è crossover come me.
Alceste Ayroldi