«Disconnections». Intervista a Matteo Finali

Il chitarrista svizzero parla dei Final Step e dell’ultima produzione discografica.

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Matteo, come ha avuto inizio il progetto Final Step?
Tutto è cominciato nei primi anni 2000, quando ero appena rientrato dai miei studi americani al Musicians Institute di Los Angeles. Insegnavo in una scuola di musica ticinese (ATM, Locarno) e lì ho conosciuto un mio collega sassofonista: Max Pizio. Condividevamo la passione per la stessa musica, la fusion – o jazz-rock, chiamiamola così – e abbiamo subito cominciato a collaborare. In un primo momento suonando qualche volta assieme in duo per studiare e divertirci, poi abbiamo iniziato a porre le basi di quello che oggi è Final Step con il primo quintetto. Ai primi concerti nel 2003 è seguita una pausa – ero molto impegnato su altri fronti musicali – poi, nel 2009, si è cominciato con la produzione discografica e da lì non si è più smesso.

Da cosa nasce la matrice funk che, almeno nella prima fase, ha caratterizzato il vostro sound?
Indubbiamente dai miei studi californiani. Durante il periodo al Musicians Institute ho studiato con il compianto Ross Bolton. Era ritenuto uno dei massimi chitarristi esponenti del funk e collaborava con alcuni dei migliori artisti del genere (Al Jarreau, Earth, Wind & Fire ad esempio). È stato lui a trasmettermi la passione per questo genere musicale. Grazie a lui ho iniziato ad ascoltare musica funk – che prima conoscevo poco o nulla – e a studiare le tecniche e un po’ di repertorio dei brani più classici. Inoltre ho potuto seguire dal vivo anche diversi concerti di gruppi storici del funk come i Tower Of Power che mi hanno influenzato tantissimo.

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In seguito, invece, il sound trova nuove fonti, anche etniche. Cosa è successo?
Il secondo disco è effettivamente un viaggio attraverso diverse culture. Nel corso degli anni, dopo la pubblicazione del primo disco, ho viaggiato parecchio e scoperto nuove sonorità, con sfumature più etniche. Ricordo con piacere per esempio i suoni di Istanbul, dell’Egitto, del Marocco che hanno indubbiamente influenzato alcune compisizioni presenti nel nostro secondo lavoro discografico («Uncle Joe’s Space Mill»). Gli strumenti utilizzati o sonorità e le ritmiche tipiche di questi paesi si ritrovano in composizioni come Sultans, Obatala, Red Ruby o Essauoira, su tutte.

Leggo nella vostra presentazione su bandcamp: «Final Step è una progressive jazz band». Un concetto che merita una spiegazione.
La definizione in effetti può suonare strana, ma la spiegazione è molto semplice. Io non amo molto le etichette e fatico a trovare una definizione calzante per la nostra musica. Mi piace pensare di comporre la musica che preferisco senza preoccuparmi delle barriere di genere. Nel corso degli anni ho frequentato diverse volte la fiera Jazzahed! a Brema. In una delle edizioni della fiera ho conosciuto diversi professionisti del settore a cui ho chiesto appunto con quale definizione ci avrebbero catalogato. La maggior parte di loro ha indicato il label progressive jazz che definisce tipo di musica orientata a una sorta di jazz-rock sperimentale. Per comodità ho preso questa definizione: per classificarci meglio agli occhi dei media, dei promoter, degli agenti e della critica.

Disconnections, invece, è ispirata a John Scofield. Cosa rappresenta Scofield per te?
Sicuramente il brano Disconnections è un omaggio a Scofield, che è sicuramente uno dei miei chitarristi preferiti. Un gigante che ha saputo creare un’esperienza unica con la sua voce, riconoscibile ovunque. Un compositore iper creativo e sempre alla ricerca di nuove fonti di ispirazione e di nuove strade da percorrere. Trovo i suoi brani di una freschezza incredibile, ancora oggi attuali e innovativi nella ricerca dei suoni e delle soluzioni melodiche e armoniche. L’ascolto della sua musica mi ha accompagnato per tutti questi anni, assieme ad altri artisti ovviamente.

Però è un album che ha a che vedere anche con il lockdown causato dalla pandemia. Giusto?
Assolutamente, il titolo è molto significativo rispetto a questo aspetto. Il lockdown è stato il motivo scatenante: da tempo avevamo in mente di registrare e avevamo già cominciato le prime prove, poi si è disconnesso tutto! Ci siamo dovuti bloccare senza avere certezze sul futuro. Solo in estate abbiamo cominciato a capire che c’era uno spiraglio per poter registrare ed eravamo pronti: tutti avevamo una gran voglia di fare, di produrre. Il ritrovarci è stato sicuramente un toccasana e poter lavorare per registrare un disco è stato fantastico. Una sorta di cura… la musica dal vivo e d’insieme che cura ogni male e riconnette l’anima, il cuore e la testa. Credo che molto di questo feeling si senta all’interno del disco.

Quali sono i tuoi artisti di riferimento?
Citerei sicuramente Miles Davis nel suo ultimo periodo (il mio primo disco del genere è stato il suo «Live Around The World»), i Weather Report, Joe Zawinul, John Scofield, Medeski, Martin & Wood, i Tribal Tech, Scott Henderson, Scott Kinsey, Gary Willis, Bill Evans (il sassofonista), Mike Stern e ce ne sono sicuramente molti altri che ora dimentico.

L’album è stato preceduto da un bel video. Pensi che rappresenti effettivamente il disco?
Il video è stato un’idea sicuramente simpatica che si è aggiunta durante la registrazione del disco. Credo che oggi si debba per forza di cose lavorare anche sull’aspetto visivo, soprattutto per essere presenti sui social e su YouTube (canali che non apprezzo particolarmente ma che sono ormai diventati importantissimi per chiunque nel ramo: fanno parte della lista dei to do). Il video è basato sul brano più giocoso del disco e riprende il tema della disconnessione con la trovata finale del sottoscritto che “stacca la spina” letteralmente! Un’immagine simpatica che credo colpisca l’attenzione e lanci il messaggio chiaro: alle volte basterebbe disconnettere la tecnologia e ritornare ad assaporare le cose importanti della vita.

Vorresti parlarci dell’attuale formazione della band?
Sono contento di lavorare con i musicisti attuali, che nel corso degli anni mi hanno raggiunto e seguito in questo percorso. Tutti in situazioni differenti, ma ognuno al momento giusto. Alessandro Ponti per esempio è con me dal 2011, una sostituzione all’ultimo minuto per due date che poi si è trasformata in una presenza definitiva. Suona qualsiasi cosa abbia dei tasti, dal gravicembalo con il forte e il piano, alla macchina da scrivere, ma su tutti direi che è l’organo Hammond ad attrarlo inesorabilmente. (Adepto della setta chiamata Hammondismo di cui fa parte con il titolo di Reverendo, è anche un fantastico compositore e arrangiatore). Dario Milan mi ha raggiunto nel 2013 per le registrazioni del secondo disco e da allora fornisce un apporto molto creativo e solido sia alla parte puramente ritmica – con la sua batteria e alcune percussioni – che alla parte compositiva e di arrangiamento. Il suono dei Final Step non sarebbe lo stesso senza di lui, questo è certo. Mirko Roccato invece ha raggiunto la band nel corso del 2016, quando abbiamo cominciato a preparare la nostra esibizione all’Estival Jazz Lugano di quell’anno. Volevamo aumentare l’organico (ci siamo esibiti in otto musicisti con l’aggiunta di un altro fiato, un altro tastierista e un percussionista) per avvicinarci all’idea di suono degli Snarky Puppy. Mirko porta alla band melodie pulite e soli di classe. Da ultimo c’è Federico Barluzzi che si è agganciato a noi in occasione di un concerto in Germania nel 2019 e da allora collabora stabilmente con la band. Ci siamo subito trovati in sintonia per gusti musicali e riferimenti musicali. Solido e preciso, con un suono pieno e succoso come piace a me.

Matteo Finali

Matteo, parliamo di te. Quando hai iniziato a interessarti della musica?
Ho cominciato a studiare chitarra all’età di otto anni. Dapprima con lo studio della chitarra classica presso il conservatorio della Svizzera Italiana. Poi da adolescente sono passato alla chitarra elettrica studiando con maestri privati e per un periodo ho suonato entrambe. In seguito ho abbandonando la chitarra classica: dovevo fare una scelta per motivi di tempo e l’elettrica mi interessava di più. All’età di diciotto-diciannove anni suonavo in un paio di band rock della zona con cui ci esibivamo costantemente e ho deciso di seguire una formazione professionale andando al Musicians Institute di Los Angeles.

Hai mai pensato di lasciare la Svizzera?
In effetti l’ho fatto per quasi due anni, nel 1998-1999 nella mia esperienza californiana. Dopo il mio rientro ho vissuto qualche periodo di difficoltà musicale che sicuramente mi ha fatto riflettere sulla possibilità di lasciare la Svizzera di nuovo per esplorare nuove opportunità all’estero. Ho però trovato la stabilità personale: ora sono sposato e ho due figli quindi non è sicuramente uno dei miei pensieri attuali.

Ci parleresti della scena musicale svizzera?
Mi è difficile parlarne, in realtà. La Svizzera è una nazione molto particolare divisa in tre zone linguistiche: tedesca, francese e italiana. Ogni zona sembra faticare a comunicare con le altre forse proprio per le barriere legate alla lingua. Ancora oggi fatico enormemente a trovare opportunità nell’area tedescofona, o in quella francese. Sembra quasi che ci si ignori a vicenda… una cosa che mi mette molta amarezza e tristezza. La scena musicale è però vivace, da un lato ci sono molti festival di stampo internazionale – soprattutto in estate – che però prediligono artisti quasi esclusivamente di fama mondiale. Dall’altra ci sono alcuni festival e club che promuovono situazioni minori e locali, ma spesso preferiscono formazioni ridotte (dal duo al trio) per ragioni di suono (spesso possono esibirsi in acustico) di spazio ed economiche.

C’è una carriera da solista nel tuo futuro?
Potrebbe essere, mai dire mai… Al momento è difficile fare previsioni per questo periodo incerto che stiamo vivendo, ma sicuramente tengo aperte tutte le opportunità possibili.

Cosa è scritto nell’agenda di Matteo Finali?
Uhm… agenda piena! Prima un altro figlio e poi, finalmente coronare uno dei miei sogni: quello di riuscire a suonare al Blue Note di Milano e ad Umbria Jazz. Mi piacerebbe anche un bel tour con la band nella primavera 2022 (qualche data già programmata in Svizzera e Germania) e infine trovare un agente per delegare la parte relativa alla ricerca concerti: è un aspetto faticoso e impegnativo che porta via davvero troppo tempo che preferirei dedicare al lato musicale e artistico. Spazio per nuovi progetti musicali e discografici, magari in collaborazione anche con altri musicisti al di fuori di Final Step.
Alceste Ayroldi

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