Luciano, la tua foto che ritrae il trombettista Riccardo Pittau ha vinto il prestigioso JJA Jazz Awards 2021. Ci racconteresti la genesi di questa foto?
Molto semplice: sono abituato da sempre ad arrivare molto prima dell’inizio dei concerti, preferisco le foto dei sound-check, delle prove. Il concerto era nel programma del Festival Isole che parlano, organizzato dai fratelli Paolo e Nanni Angeli, e si svolgeva a Luogosanto, un paese in Gallura, prevedeva che Riccardo Pittau dialogasse con il suono delle campane suonate dal gruppo di campanari Amici di Matteo di Luogosanto; Pittau si era seduto su una panchina per «cercare» il suono e l’intonazione dello strumento; per caso un signore del paese (con mascherina) si era seduto di fianco a lui e si era messo ad ascoltarlo. La foto era lì, doveva solo essere fermata dallo scatto dell’otturatore.
La tua candidatura al premio come è arrivata?
Questo premio alla miglior foto dell’anno fa parte di una serie di Awards organizzati ogni anno dalla JJA – Jazz Journalist Association (l’Associazione dei giornalisti e critici di jazz americana). Il regolamento prevede che si possa inviare una sola foto, che deve essere stata scattata nell’anno precedente; un solo scatto che racconti un anno di jazz.
Cosa hai pensato quando sei venuto a sapere del risultato conseguito?
Molta felicità. In passato (2016 e 2017) due mie foto erano entrate nella cinquina finale, senza vincere, stavolta ho ricevuto il massimo riconoscimento. Doppiamente contento perché la notizia della vittoria è arrivata assieme alla notizia che ero stato anche nominato tra i cinque finalisti per il premio alla carriera, grandissimo riconoscimento.
La tua carriera di fotografo ha inizio negli anni Settanta. Hai da subito sposato la musica come tua Musa ispiratrice?
Sì. Ho cominciato a fotografare alla fine degli anni Settanta con entusiasmo seguendo gli insegnamenti e i consigli di Ruggero Giuliani, fotografo che mi portava con se ai concerti e poi i camera oscura. Avevo meno di vent’anni, da lì è partito tutto.
Perché il tuo obiettivo si è focalizzato proprio nel jazz?
Perché meglio di ogni altro tipo di musica permette una prossimità che consente di «entrarci dentro» per raccontarla attraverso le immagini.
Rispetto agli anni Settanta, quando il pubblico affollava le aree dei concerti jazz, il numero delle persone si è assottigliato parecchio. Non credi? A tuo avviso, da cosa dipende questa tendenza?
Purtroppo il pubblico del jazz non è giovane. Il jazz non è una musica facile, richiede attenzione, dedizione, passione. Serve una predisposizione che non è dei giovani, che spesso oggi fanno fatica ad appassionarsi a qualcosa.
Quando devi scattare una foto quali sono gli elementi che ti spingono a ritrarre quel particolare momento?
In linea di massima cerco di raccontare delle storie con le immagini e cerco di raccontare quello che di solito il pubblico non vede; per me poter essere presente alle prove ai sound check, poter accedere al backstage è fondamentale per poter cercare di raccontare le mie storie fotografiche.
Tu sei il fondatore di Phocus Agency, agenzia di fotografi specializzati nel mondo dello spettacolo. Ci diresti, in sintesi, quali sono gli elementi che tipizzano la fotografia nel mondo dello spettacolo?
Con Luca d’Agostino e altri fotografi nel 2004 abbiamo fondato Phocus Agency con l’idea che potessimo essere un punto di riferimento per l’editoria e il mondo dello spettacolo; da un certo punto di vista lo siamo, purtroppo però la crisi dell’editoria legata ad una sempre minor richiesta di qualità dell’immagine ha reso molto difficile il nostro lavoro. Oggi servono immagini free rights, gratis, la qualità è l’ultimo aspetto che si richiede ad una foto. Ma noi continuiamo a credere nella qualità del lavoro e nella fotografia di qualità.
Nel 2019 è nata, con te come promotore-fondatore, l’AFIJ- Associazione Italiana Fotografi di Jazz. Quali sono stati gli auspici sotto i quali è nata questa fondazione e come procede il lavoro?
Ridare dignità alla figura del fotografo di jazz. Dignità che è quasi sparita negli ultimi dieci anni. Prevalentemente per una mancanza di cultura dell’immagine di tanti degli operatori del mondo del jazz, mancanza di cultura dell’immagine accompagnata da tanti pseudo fotografi che si ritengono tali solo perché in possesso di una fotocamera digitale e che negli anni hanno adottato la politica della gratuità (foto regalate, mostre regalate, servizi per festival, case discografiche e musicisti regalati); questo ha portato gran parte degli operatori a considerare «gratis» l’unica forma di pagamento di qualsiasi tipo di servizio. AFIJ è nata per cercare cambiare questo status-quo, perché la realtà è che i fotografi sono l’unica categoria del mondo del jazz che si pensa non meriti un riconoscimento professionale ed economico.
La pandemia ha dettato tempi duri per tutti, anche per i fotografi e, in particolare, per coloro i quali si occupano di spettacolo. L’associazione cosa ha potuto fare per lenire tale drammatica situazione?
Durante il lockdown abbiamo organizzato incontri di approfondimento online per i nostri soci, invitando operatori delle varie categorie del mondo del jazz, ci siamo confrontati con musicisti, direttori artistici di festival, curatori di mostre, curatori di libri ed anche fotografi che lavorano in altri settori dello spettacolo.
Luciano, a parte gli aspetti tecnici, si può imparare a essere buoni fotografi?
Certo. Dando per scontato un minimo di tecnica fotografica (conoscere tempi-diaframmi, profondità di campo, ecc.) il resto bisogna studiarlo, guardando i lavori che hanno fatto i grandi fotografi, cercando ispirazione dai grandi fotografi in cui ognuno di noi si identifica maggiormente, andando alle mostre, comprando libri, frequentando workshop. E fotografare molto, allenare l’occhio, imparare a vedere le situazioni: non basta guardare, bisogna imparare a vedere.
A proposito: esistono delle scuole di fotografia d’ambito musicale?
Non credo esistano scuole specializzate in fotografi di jazz o di spettacolo, esistono corsi specifici all’interno di programmi di fotografia in scuole professionali. So che all’Accademia della Scala ad esempio, si tengono corsi per le varie professioni teatrali, tra cui anche quella del fotografo di scena. E poi ci sono fotografi esperti che propongono workshop di approfondimento. Diciamo quindi che un giovane fotografo che vuole migliorare l’approccio alla fotografia di spettacolo può trovare parecchie situazioni di miglioramento, anche all’interno di AFIJ.
Cosa consiglieresti a un giovane che volesse avvicinarsi alla fotografia?
Di pensarci bene.
Luciano, è difficile fare questa professione?
Sì, specialmente dopo l’avvento del digitale. Serve avere le idee molto chiare su cosa si vuole fare. Tanta passione e perseveranza, perché la concorrenza è molta, specialmente quella sleale.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Ho da poco messo online il mio nuovo sito (www.lucianorossetti.it) che è in continua evoluzione ed implementazione; ho un paio di proposte da concretizzare per due mostre per l’anno prossimo, la curatela di una mostra di un importante fotografo americano e (spero) la conclusione dei lavori per un libro a cui sto lavorando da un paio d’anni.
Alceste Ayroldi