Intervista a Joyce Elaine Yuille: «The Soul of Porter»

È dedicato a Cole Porter il più recente lavoro della cantante newyorkese da tempo residente in Italia. Ne parliamo con lei.

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Joyce Elaine Juille Foto: Angela Bartolo

Joyce, perché hai voluto dedicare un disco a Cole Porter?
Tre anni fa decisi di creare un nuovo spettacolo, ma non volevo fare il solito omaggio a Ella Fitzgerald, Dinah Washington, Billie Holiday o a un altro dei miei idoli. Qualche anno prima avevo già realizzato un omaggio a Sarah Vaughan e volevo fare qualcosa di diverso da un cantante che rende omaggio a un altro cantante. Una rara serata a casa, e dico rara perché normalmente sono in viaggio, stavo passando in rassegna alcuni canali televisivi e mi sono imbattuta nel film biografico De-Lovely, basato sulla vita e la carriera di Cole Porter. Ero affascinata non solo dalla storia e dalla scenografia ma da ogni canzone, perché evocavano in me un senso di nostalgia. Conoscevo già il repertorio di Cole Porter, ma c’era qualcosa nel film che mi ha incoraggiato a saperne di più sulla sua genialità. Il giorno dopo mi sono ritrovata a leggere tutto quello che potevo su Porter e ad ascoltare intensamente i suoi brani, il che mi ha dato l’idea di spingermi oltre, con un omaggio dedicato al suo genio musicale.

Quale criterio hai utilizzato per selezionare i brani?
Volevo avere una migliore comprensione delle versioni di Porter, quindi mi sono seduta alla scrivania e ho ascoltato attentamente tutte le sue registrazioni originali che sono riuscita a trovare, il che non è stato facile. Ho iniziato a fare un elenco di brani che più di altri hanno attirato la mia attenzione. Ho pensato a come interpretarli in un modo più moderno, a personalizzarli senza allontanarmi troppo dalle melodie originali e a creare arrangiamenti che includessero anche altri generi musicali oltre al jazz.

Dalla tua scelta è impossibile non notare una grande esclusa: Night And Day. Come mai non l’hai voluta annoverare tra i brani scelti per il tuo disco?
Sebbene sia una melodia assolutamente adorabile e una delle sue più note, onestamente ritengo che Night And Day sia uno dei brani più battuti nella storia della musica. Non volevo includere una canzone che tutti si sarebbero comunque aspettati di trovare nel cd! Ho provato a scegliere canzoni che non credo ricevano la stessa attenzione. Ci sono canzoni famose come Love For Sale, Let’s Do It (Let’s Fall In Love) e Just One Of Those Things che credo suppliscano all’esclusione di Night And Day.

Hai scelto di produrre in autonomia il disco, con la co-produzione di Fabio Nobile. Una scelta coraggiosa, soprattutto in un periodo di magra nelle vendite dei dischi. Cosa ti ha spinto a farlo?
«The Soul of Porter» è stato inizialmente creato nel 2016 come progetto tributo da eseguire esclusivamente sul palco con il gruppo Jazz Inc. Abbiamo fatto alcuni spettacoli al Blue Note di Milano, che è stato il primo luogo in cui ho presentato il progetto. Ho iniziato a pensare di registrarlo e, alla fine, ho deciso che volevo andare avanti. Ero decisa a registrare e pubblicare il cd. Ho parlato con Fabio di come mettere tutto insieme, gli ho spiegato il vibe che volevo creare e come volevo eseguire la registrazione e, come al solito, ha iniziato a lavorarci immediatamente. Fabio ha un fantastico senso di ciò che funzionerà: non solo è un grande e ricercato batterista e un multi-strumentista che proviene da una famiglia di musicisti, ma ha anche un bel bagaglio di esperienza in studio come produttore e remixer con le principali etichette discografiche all’estero e in Italia. Il suo senso del ritmo tende maggiormente al soul e al funk, e volevo aggiungere alcuni di questi elementi nelle canzoni. Volevo un album jazz ma con sfumature soul, blues, bossa e un po’ di Afro-beat. Sapevo che lui avrebbe capito esattamente quel che volevo e l’avrebbe realizzato. Ho pensato che sarebbe stato rischioso pubblicare un nuovo cd in questi tempi strani e imprevedibili, specialmente con un mercato sempre più asfittico, ma la gente sta ancora acquistando musica in tutti i formati. Alcuni mi hanno anche chiesto di pubblicare «The Soul of Porter» su vinile, da quando l’interesse per il vinile è cresciuto. Forse stamperò alcune copie per gli amanti del vinile, chi lo sa?

Nella tua ricerca musicale c’è sempre, o quasi sempre, il soul a fare da collante. C’è qualcosa in particolare che ti lega al soul?
Ma sì! Sono una grande amante della musica soul! Sono cresciuta con il soul che mi scorre nel sangue. Sentivo sempre le canzoni di James Brown, Curtis Mayfield o Wilson Pickett che fluivano nel nostro appartamento quando ero bambina. Ho sempre ascoltato il jazz da giovane, ma in realtà il passaggio al jazz non è avvenuto fino a quando non sono arrivata in Italia e ho iniziato a cantarlo dal vivo. Il mio primo album come solista, «Welcome to My World» (Schema Records) si è orientato maggiormente verso il soul e il jazz. Luciano Cantone, che ha prodotto l’album, è un’altra di quelle persone che conoscono davvero la black music e all’epoca ebbe alcune idee interessanti che ancora ritengo rappresentassero ciò che effettivamente volevo come risultato. Amo il soul della vecchia scuola degli anni Settanta e spesso cerco colonne sonore di film di quel periodo. Uno dei miei preferiti di tutti i tempi è Isaac Hayes, che era una mente assoluta! Le sue cover di Walk On By e Close Yo You di Burt Bacharach sono entrambe un must assoluto per chiunque sia interessato al genere; il suo album «Black Moses» è geniale! Da ascoltare, senza dubbio.

Foto Angela Bartolo

Ci parleresti dei musicisti che ti accompagno in «The Soul of Porter»?
Ho avuto il piacere di lavorare con Jazz Inc. negli ultimi due anni. Prima di iniziare la mia collaborazione con loro, ero già buona amica del sassofonista Alessandro Fariselli, con cui ho collaborato abbastanza spesso in passato. Dopo aver registrato «Welcome to My World» con il sassofonista finlandese Timo Lassy e il suo quintetto, ho capito che dovevo formare una band per promuovere l’album qui in Italia. Ero entrata in contatto con Fabio alcuni anni prima, ma non ho ufficialmente iniziato la mia collaborazione con lui fino a quando non abbiamo iniziato a girare con il WTMW. Alessandro Altarocca e Stefano Senni sono entrati nel gruppo tre anni fa portando il loro stile, la classe e la competenza, mentre Massimo Morganti è stato contattato per registrare l’album e arrangiare gli ottoni e i fiati per «The Soul of Porter». Anche se non appare nel cd, nei nostri concerti dal vivo c’è il percussionista Luca Mattioni che porta un sapore afro-cubano alle nostre esibizioni. I suoi duetti con Fabio Nobile sono leggendari. Fabio Nobile è tra i batteristi moderni italiani più apprezzati per la sua personale e riconoscibile attitudine soul e funk. È anche un valente produttore e remixer e ha collaborato – e collabora – con importanti etichette e radio italiane ed internazionali.

C’è un brano che avresti voluto inserire ma che, per esigenze di spazio, non sei riuscita a includere?
Sì, ma non per mancanza di spazio: avevo poco tempo e dovevo assolutamente entrare in studio per rispettare una scadenza. In sostanza non c’era più tempo per creare arrangiamenti per ulteriori canzoni. Mi sarebbe piaciuto includere De-Lovely e I Love Paris.

Se Cole Porter fosse vissuto oggi, pensi che avrebbe dovuto adattarsi al tenore della musica commerciale odierna?
Anche Cole Porter avrebbe sicuramente dato un enorme contributo nel XXI secolo. Essendo pieno di arguzia e diversità, non credo che avrebbe dovuto necessariamente adattarsi, avrebbe semplicemente fatto parte dell’evoluzione della musica. Sono convinta che avrebbe trovato un modo per creare e mantenere la sua unicità nel mondo della musica di oggi. Se dovessi confrontarlo con uno dei nostri artisti moderni, penso che avrebbe fatto per il jazz ciò che Prince ha fatto per il soul e il pop. Secondo me, sebbene provengano da mondi e periodi  molto diversi, c’è qualcosa di simile in loro due. Credo che sia l’approccio nel rischio, non solo nella loro vita privata, ma anche con il loro gioco di parole e di testi frizzanti. Trovo che alcune delle parole e delle melodie di Porter non siano solo distintive, ma anche divertenti, intenzionali, sensuali e a volte venate di un pizzico di malinconia… persino di disperazione. Penso che questo abbia permesso ai suoi ascoltatori più attenti di entrare in sintonia con la sua sensibilità. Per esempio, la canzone So In Love ne è un perfetto esempio. «So, taunt me, hurt me, deceive me, desert me…I’m yours till I die». C’era spesso lo stesso tipo di sensibilità anche nello stile di scrittura di Prince. Però, prima che chi ci sta leggendo inizi a pensare: come si può mettere a confronto Porter e Prince? ci tengo a dire che non li voglio mettere a confronto ma soltanto indicare alcune somiglianze tra due personaggi che hanno osato essere artisti fuori dalle righe.

Quanto ha influito sulla tua concezione musicale l’essere nata e cresciuta a Spanish Harlem?
Solo per fare un breve riassunto: Spanish Harlem, meglio conosciuta come El Barrio o East Harlem è un’area che era originariamente dominata dagli italiani quando vi immigrarono negli anni Settanta dell’Ottocento. I portoricani iniziarono ad arrivare dopo la prima guerra mondiale, e anche gli afro-americani che risiedevano a West Harlem iniziarono a trasferirsi lì, alla fine degli anni Quaranta e Cinquanta. Crescere a El Barrio negli anni Sessanta e Settanta è stata un’esperienza incredibile! Se non sei cresciuto lì non lo capirai mai del tutto. Era una grande famiglia etnicamente colta, un enorme melting pot musicale con la musica latina in prima linea. Sono cresciuta nelle DeWitt Clinton Houses, che facevano parte di un sistema di alloggi governativi per famiglie a basso reddito (quelle che in Italia si definiscono case popolari). I vicini erano la tua famiglia allargata e le persone si prendevano cura l’una dell’altra. L’estate era la stagione migliore! Ogni giorno era una sorta di esperienza musicale con salsa, soul, jazz e r&b che uscivano dalle finestre degli appartamenti. Mettevamo gli altoparlanti sui nostri davanzali e facevamo ascoltare la musica a tutto il vicinato. Le automobili passavano con le radio a tutto volume, i bassi rombavano dalle finestre o dalle cantine del quartiere con le canzoni di Tito Puente. Non c’era mai un giorno nel nostro appartamento senza musica in sottofondo. Crescere a El Barrio è stata una parte essenziale del mio sviluppo musicale perché mi ha insegnato ad apprezzare appieno vari stili di musica: anche per quanto riguarda i generi cui non ero particolarmente legata, ho sempre e comunque trovato qualcosa in grado di farmi ascoltare e spingermi a imparare cose nuove. E il mio approccio alla musica è ancora oggi lo stesso: ascolto quasi di tutto per avere idee e ispirazioni.

E l’aver cantato gospel ha influenzato il tuo modo di accostarti al canto?
Mi piacerebbe dire che sono cresciuta in chiesa cantando gospel, ma sarebbe un’enorme bugia! Non ho un background come quello di Aretha Franklin. Quand’ero bambina, mia madre mi mandava spesso a trovare i miei nonni a Pittsburgh, in Pennsylvania, nel mese di agosto. Da piccola sono stata fortunata, tutti e quattro i nonni erano ancora vivi e vegeti. Mia nonna materna era religiosa e attaccata alla sua fede. Lei e mio nonno erano figure di spicco nella nostra chiesa di famiglia, e mio nonno e i suoi fratelli erano la più vecchia famiglia nella loro chiesa. La chiesa dei neri americani è un’esperienza molto diversa rispetto alla chiesa cattolica. Mi vestivo in modo elegante e partecipavo alle funzioni religiose con i miei nonni ogni domenica mattina. Le mie zie erano membri del coro della chiesa, ma la famiglia di mia madre è episcopale metodista e aveva un approccio più sottile alla musica gospel. Non c’erano urla né alcun Blues Brother che ti esortasse a «vedere la luce» e a fare salti mortali lungo il corridoio di una chiesa episcopale metodista!

Ho avuto spesso l’opportunità di andare in chiesa con la famiglia di mio padre, che era battista. Se tu volessi saltare, gridare e feel the spirit, andresti sicuramente a farlo in una chiesa battista. È lì che ho ricevuto la mia educazione e il mio background evangelico. Anche se di tanto in tanto canto musica gospel, non mi considero una cantante gospel. Penso che la mia conoscenza della musica gospel mi aiuti a insegnare agli altri la sua storia, ma onestamente sento che mi ha aiutato di più con il mio approccio al canto in un modo più profondo. E questa è la verità.

E in Italia quando e perché sei arrivata?
Mi sembra di aver passato una vita in Italia. Dopo aver vissuto a Parigi lavorando come modella da sfilate, mi sono ritrovata a New York a desiderare di nuovo l’Europa; così ho deciso di provare in Italia. Sono arrivata a Milano nel 1989 e ho lavorato ancora una volta come modella ma alla fine ho abbandonato il business della moda dopo essere stata coinvolta in un progetto musicale. Ho registrato un album con Sony Italy / Tristar USA con un gruppo chiamato 3 * D. Abbiamo avuto un discreto successo con una cover di Georgy Porgy dei Toto che è stata remixata da Jean Paul (Bluey) Maunick degli Incognito. Il progetto alla fine è svanito, ma ho continuato il mio viaggio come cantante facendo lavori in studio, registrando jingle commerciali, lavorando come corista ed esibendomi dal vivo, fino a quando finalmente ho iniziato ad emergere sulla scena jazz.

Immagino che ti sarai trovata di fronte a una scena musicale ben diversa rispetto a quella newyorchese.
Devo ammettere che all’inizio era un po’ diverso. Arrivando da New York City con un’altra mentalità e una consapevolezza specifica per la musica, ho avuto la fortuna di trovarmi alla fine circondata da persone che erano più informate sulla musica e sui generi verso cui ero più attratta. Per quanto riguarda la scena jazz europea e soprattutto in Italia, per me è stato un po’ diverso. Una volta che ho iniziato a frequentare alcuni club, ho trovato l’approccio al jazz piuttosto studiato e disciplinato rispetto allo stile jazz più libero e disinibito che i musicisti suonavano nei jazz club di New York. Mi rendo conto che questo è cambiato molto in Europa nel corso degli anni, specialmente con molti musicisti jazz europei che viaggiano all’estero negli Stati Uniti o sono in tournée con jazzisti americani qui in Europa.

Joyce Elaine Yuille con Enrico Intra

Hai numerose e importanti collaborazioni che fanno parte del tuo background artistico. C’è qualcuna di queste che ritieni essere stata un elemento fondamentale della tua crescita artistica?
Direi l’incontro con Enrico Intra. Ho iniziato a collaborare con lui circa dieci anni fa, quando ho deciso di passare completamente al jazz. Mi stavo già esibendo, ma ero indecisa su come volevo continuare. Il mio compagno, Renato Vavassori, è un ex professionista del tennis ed è anche un fanatico del jazz con una vasta conoscenza del genere. Grazie a lui ho conosciuto Enrico, che mi ha aperto un nuovo mondo. Ricordo che Enrico mi contattò per partecipare al suo concerto per la celebrazione dell’ottantesimo compleanno al Teatro Piccolo di Milano. Ero oltremodo onorata e sorpresa di essere l’unica donna solista ad esibirsi tra i «reali» del jazz. Mi ritrovai alla presenza di queste leggende del jazz italiano, Enrico Intra, Franco Cerri, Franco D’Andrea, Enrico Rava, Tullio De Piscopo, Enrico Pieranunzi, Paolino Della Porta solo per citarne alcuni. Fu davvero una bellissima esperienza e ho la fortuna di poter collaborare ancora con Enrico e di essere stata presente nel suo album «Gregoriani & Spirituals» (Alfa Music).

Qual è il tuo rapporto con il pubblico?
Adoro stare di fronte al pubblico! Non si tratta mai di una spinta all’ego per me, né è: ehi tutti mi guardano! Da bambino sono sempre stata un po’ uno spettacolo, ma non in modo rumoroso, semplicemente mi divertivo a far sentire tutti bene e volevo condividere e coinvolgere gli altri nella mia gioia. Ero anche un po’ una comica: raccontavo sempre barzellette e facevo qualcosa di sciocco per far ridere tutti. Lo faccio ancora spesso mentre mi esibisco. Quando sono sul palco la mia mente corre, non è mai e poi mai calma, ma lo maschero molto bene. Sono anche molto emotiva e questo si vede durante la mia interpretazione di una canzone, qualsiasi canzone. Il pubblico ti ascolterà, ma vorrà anche «sentire» qualcosa. Ciò è particolarmente importante per me mentre sono sul palco: essere in grado di trasmettere una sensazione. Devi essere consapevole di ciò che stai facendo, ma anche aprirti, permetterti di essere un po’ vulnerabile e permettere a ogni persona di entrare nel tuo spazio, nella tua mente e nel tuo cuore: il pubblico lo capirà. Ho assistito a molti cantanti sul palco che sono stati fantastici ma non mi hanno fatto sentire assolutamente nulla. Sono tornata a casa e ho dimenticato la loro esibizione. Puoi sorridere, apparire bella ed essere una divinità vocale, ma se invii il tuo messaggio solo superficialmente, il pubblico ti accoglierà in questo modo. Vuoi che le persone ti ricordino per come le hai fatte sentire, non perché il tuo trucco fosse impeccabile. Amo il pubblico europeo perché è molto invitante e coinvolto, soprattutto un pubblico italiano, sempre attento e pronto a partecipare. Eppure, il vero banco di prova per qualsiasi artista è un pubblico americano! Ho visto artisti sgretolarsi sul palco di New York City con un pubblico intimidatorio. È come il testo delle canzoni di New York, New York: «se posso farcela lì, ce la farò ovunque». Mi sono esibito al rinomato jazz club Birdland di New York City nel 2018 grazie ad un altro caro amico e fantastico chitarrista Daniele Cordisco con il quale mi esibisco spesso con il gruppo Hammond Groovers (Antonio Caps all’hammond ed Elio Coppola alla batteria). Era la prima volta che mi esibivo ufficialmente in un jazz club di New York da quando mi sono trasferita in Italia e non riesco a spiegare la travolgente sensazione di gioia che ho provato ricevendo un’accoglienza così calorosa ed entusiasta.

Se mi permetti, vorrei farti una domanda – per così dire – politica. Da qualche tempo a questa parte c’è una recrudescenza razzista sia negli States che in Europa. A tuo avviso, conoscendo bene la situazione statunitense, c’è qualcosa che ha scatenato la ripresa di tale ignobile fenomeno?
Non credo che ci sia una recrudescenza, il razzismo esiste e esisterà sempre. Bolle sempre nella pentola finché qualcuno arriva e alza le fiamme al livello più alto facendolo scatenare. Gli USA hanno appena concluso un periodo di pura follia! Negli ultimi quattro anni abbiamo assistito al meccanismo di estrema e totale follia, provocazione e il ticchettio di una bomba a orologeria fino a quando la bomba è finalmente esplosa, ancora una volta! Abbiamo un sistema politico negli Stati Uniti che semplicemente non è sincronizzato, un sistema di due partiti con esigenze ed etiche molto diverse. Sfortunatamente, un partito è altamente soggettivo e si è trasformato da conservatorismo in estremismo con la maggioranza dei suoi membri che lo sostiene completamente. Per quanto riguarda l’Europa, mi sono trovata faccia a faccia con il razzismo, ma le mie esperienze / incidenti personali riguardavano principalmente le differenze culturali e l’essere ignorante. Penso che alcuni europei siano più o meno sistemati nei loro modi, specialmente le generazioni più anziane che hanno sofferto durante le guerre. Le generazioni più giovani dovrebbero saperlo meglio, ma se qualcuno è pieno di odio, indipendentemente dalla generazione di cui fanno parte, semplicemente odieranno per nessun altro motivo se non quello che gli è stato insegnato dall’inizio o gli è stato fatto il lavaggio del cervello.

E a proposito di situazioni problematiche. Come hai vissuto e stai vivendo la situazione determinata dal COVID-19?
Il 22 febbraio 2020 è stato surreale! Avevo appena terminato un weekend di spettacoli con un altro caro amico, il bassista Giuseppe Venezia e il suo trio che si esibivano al suo club Rosetta Jazz Club di Matera a seguire la sera successiva al Duke Jazz Club di Bari. Il cd di «The Soul of Porter» era appena arrivato pochi giorni prima. Domenica è arrivata la notizia di un focolaio COVID-19 a Bergamo. Domenica pomeriggio stavo tornando a Bergamo, onestamente non sapevo cosa pensare, ma avevo la terribile sensazione che le nostre vite stessero per cambiare terribilmente. Mi sono fermato alla farmacia dell’aeroporto, ho comprato maschere, disinfettante per le mani e guanti di plastica, poi mi sono preparata per un volo molto affollato di passeggeri in preda al panico. Era il caos completo! È stata una situazione difficile per tutti e il mio cuore è spezzato per tutti coloro che hanno perso i propri cari, il loro lavoro e le loro imprese. Il settore dell’intrattenimento insieme a molti altri è stato messo in ginocchio senza alcuna indicazione su quando potevamo tornare a lavorare. I concerti venivano cancellati ogni giorno e mi sembrava che qualcuno mi avesse buttato giù dalla vita! Presto ho capito che l’unica cosa da fare è rimanere concentrati e affrontare un giorno alla volta. Sono riuscito a recuperare alcuni spettacoli per la stagione estiva 2020, ma anche questo non ha funzionato dopo un incidente e una frattura al ginocchio. Al momento, sto semplicemente usando il mio tempo per studiare, riflettere, meditare ed essere preparata per quando finalmente torneremo alla normalità: qualunque cosa accadrà dopo essere sopravvissuta a questa difficile situazione. Si spera che i danni della pandemia possano essere riparati, ma temo che le cicatrici rimarranno.

Cosa è scritto nell’agenda di Joyce Elaine Yuille?
Non sono sicura di cosa prevede il futuro? Alla fine mi piacerebbe lavorare alla registrazione di un album non jazz incentrato maggiormente sul soul e sul blues. L’idea è nella mia lista dei desideri da un po’. Renato e io abbiamo creato una rivista jazz alcuni anni fa chiamata Jazz & Racquet Project che mi piacerebbe ricominciare. Sperando di lavorare di più in altre parti d’Europa e anche a casa a New York. Vorrei anche creare una masterclass incentrata sulla presenza scenica e sulla performance. Sono il mio peggior critico e spesso mi ritrovo a rabbrividire dopo che qualcuno pubblica il video di un concerto e mi tagga. Anche se sento che è importante essere chi sei veramente sul palco, guardo e penso sempre a cosa avrei fatto diversamente. Ho visto molti cantanti principianti sul palco non sapere quale sia la loro prossima mossa, cosa dire, né come lavorare con i loro musicisti. Dopo averlo fatto per così tanti anni, mi piacerebbe condividere le mie conoscenze con chiunque voglia ascoltare E magari imparare qualcosa di nuovo da loro.

E cosa è scritto nel diario segreto?
Non parlo mai dei miei segreti!
Alceste Ayroldi