Partirei dalla fine e cioè dal lavoro discografico con i Prank. Come è nato il connubio con questa band?
Ho conosciuto il bassista e compositore Federico Marchesano, perché entrambi ci facevamo vicendevolmente i complimenti. In un mondo di musicisti concentrati sulla propria musica e non abituati a complimentarsi con i colleghi, lo considero un ottimo inizio.
In realtà conosco il batterista Dario Bruna e Federico da più di 25 anni. La musica di Federico, che è molto legata al drumming di Dario, perché suonano insieme da molti anni, è crossover e indefinibile. Nel nostro album, «Prank + Giorgio Li Calzi» che è uscito a luglio 2024 per Machiavelli Music, ci sono 3 pezzi composti da lui (Cattedrale, Umbratile e Prismatica), che vanno in una direzione di moderno minimalismo che fa i conti con il rock e il jazz, con grande creatività elaborativa. Anche Dario è un musicista fuori genere, basta sentire un frammento di come suona per comprendere tutto il suo background musicale. Sicuramente un elemento di unicità nasce anche dal suo lavoro ufficiale: infatti Dario gestisce una comunità di persone con problematiche psichiatriche, e da molti anni applica la musicoterapia come una delle principali attività, facendo suonare gli utenti con attitudine artistica e libera, ed è molto emozionante sentirli suonare con musicisti del calibro di Han Bennick o Julia Kent. Il terzo Prank, il chitarrista Enrico Degani, nonostante sia il più giovane del gruppo, ha una grossa esperienza musicale in campo classico, jazz, didattico e possiede un’enorme apertura e conoscenza stilistica, oltre che talento, proprio per chiudere in bellezza il trittico Prank. In questo trio mi sono inserito con naturalezza, è stata un’adozione spontanea.
C’è tanta musica in questo progetto: da Arto Lindsay a sonorità pinkfloydiane, a prog-rock attualizzato, fusion impegnata, new wave anni Ottanta, sperimentazione, una spruzzata di Soft Machine, jazz non mainstream. Era questo l’effetto che volevate sin dall’inizio? Qual è stata la genesi compositiva di questo progetto?
Io mi sono incollato artisticamente in un gruppo già artisticamente esistente: a me piacevano i pezzi e gli arrangiamenti dei Prank, e al trio piacevano alcuni miei pezzi che ho proposto, perché funzionavano e inoltre sono nate alcune cover molto particolari, che sono anche una forza di questo gruppo dal vivo. L’unica di queste che abbiamo messo su album è Ghost Rider dei Suicide, una pietra miliare della musica. Ho ancora il disco originale che avevo regalato a un mio compagno della IV ginnasio, prestatomi qualche anno dopo e che gli devo ancora restituire. In questo pezzo uso anche il vocoder che ho sempre usato in studio (sin dal mio primo album del 1994) e dal vivo. Con i Prank uso due pedaliere con effetti da chitarra, modulatori che trasfigurano tromba e flicorno. Li puoi sentire in Cattedrale, Ghost rider, Prismatica.
Insomma, per dirla tutta, nel vostro lavoro c’è tutto quello che sembra non piacere agli organizzatori di concerti jazz italiani… (N.B. lo dico provocatoriamente, ma con la certezza che, purtroppo, è proprio così!). Non vi siete fatti influenzare dal concetto che bisogna essere piacioni e infilare, magari e anche, un ospite «internazionale» che faccia da specchietto per le allodole. Pensi che questo atteggiamento potrà essere deleterio per voi?
La filosofia dei Prank mi sembra molto rivolta alla purezza della musica, d’altronde, come tutti i musicisti italiani legati al jazz e alla musica di ricerca o improvvisata, facciamo anche altri lavori in ambito musicale (Enrico e Federico insegnano musica nei licei, nella scuola pubblica): non siamo in Norvegia, Germania o Francia, e solo pochi anni fa in Italia un premier disse, «i nostri artisti che ci fanno divertire», riferendosi alla musica che veniva irradiata dai balconi durante la pandemia: in un paese dove la musica non è considerata una professione, dovendo tutti noi fare più lavori per sostenerci economicamente, siamo sicuramente più rilassati artisticamente rispetto alla figura del jazzista anche solo di poche decine di anni fa. Questo permette sicuramente di scegliere da che parte andare.
Giorgio, a tal proposito, visto anche che tu sei un direttore artistico, come giudichi il fatto che, inverno ed estate, i cartelloni sono quasi tutti omologati?
È proprio come per i musicisti: non tutti hanno talento. O meglio, non tutti trovano il loro talento. Anche se alla fine c’è spazio per tutti, anzi in genere nel mainstream è più facile che trovi una strada chi è determinato, rispetto a chi ha talento. Lo dico senza presunzione, e poi non esiste una regola: tutti noi abbiamo un talento, anche se non è sicuro che riusciremo a scoprirlo nell’arco di una vita. Per quanto mi riguarda, io sono alla ricerca di un progressivo miglioramento in quello che già faccio (ad esempio lo studio della tromba richiede un training giornaliero), ma sono anche alla ricerca continua di una tensione artistica che mi spiazzi, che mi crei un costante mutamento, qualcosa che possa cambiare le mie certezze artistiche e umane. Proprio per questo ad esempio seguo molto le arti che non hanno a che fare con la musica, oppure sono interessato alla ricerca elettroacustica. Certamente più per passione che per dovere. Tornando a noi, esattamente come per i musicisti, in generale è più facile rifugiarsi in un genere, o in qualcosa di molto sicuro, e questa trappola esiste anche per chi organizza festival. Solo che la condizione di offrire eventi culturali al pubblico è molto più delicata rispetto al fare la propria musica in autonomia, perché le scelte di pochi riguardano una collettività. A questo si aggiunge la responsabilità nel gestire soldi pubblici: quando ho iniziato a lavorare al Torino Jazz Festival (dal 2018 al 2022), i concerti che venivano fatti dalla precedente politica e direzione artistica, si svolgevano tutti all’aperto ad aprile, periodo notoriamente piovoso a Torino: prova a immaginare quanti soldi si buttavano via per ogni concerto cancellato per motivi di maltempo. In 5 anni di direzione, insieme successivamente anche a Diego Borotti, con noi non è mai saltato un concerto per via del maltempo, semplicemente perché li facevamo al chiuso, se no avremmo optato per spostare il festival in estate, e per fortuna questa consuetudine è stata recepita e adottata dalla successiva amministrazione e direzione artistica.
Anche il jazz come sappiamo è un genere, e anche un sistema, quindi più rientri musicalmente in un mainstream e più è facile “riprodursi” nei tantissimi festival fotocopia (di jazz, di rock, di indie, di classica, di folk…).
La cosa che trovo più incredibile, assistendo a molti eventi di diversa natura, è che la danza ha un suo pubblico, mentre il teatro ha un altro pubblico, la classica un pubblico che non è quello del jazz o dell’elettronica, e potremmo andare avanti all’infinito. Ogni tanto ci sono eccezioni, ma sono rare. Io ho sempre cercato di creare connessioni tra questi pubblici. E proprio per questo amo cambiare rotta: se il pubblico del festival CHAMOISic si aspetta musica, allora gli offriamo Antonio Rezza, oppure se si aspetta musica elettronica, allora gli daremo del jazz. Ma non certo per provocare, e poi non è certo una grande provocazione quella che viene dall’arte. Von Trier e Ostlund possono sembrare provocatori, ma come dimenticare un loro film? E poi, è importante che un festival non faccia finta di nulla, che sappia dove si trova e in che anno stiamo vivendo senza far finta di ignorare tutto quello che ci sta intorno. Per questo ho sempre chiamato nei miei festival, scienziati, filosofi, etnografi, reporter di guerra, scrittori, cercando di approfondire tematiche in connessione con la musica trattata. Ti posso dire che uno dei video che ha più avuto successo al Torino Jazz Festival è quando ho chiamato il filosofo evoluzionista Telmo Pievani a raccontarci che l’uomo è sempre stato migrante, essendo tutti noi discendenti da un piccolo gruppo di sapiens partiti dal centro Africa due milioni di anni fa e che hanno occupato a poco a poco tutto il pianeta.
Invece, il tuo atteggiamento verso la musica non è mai stato omologato. Qual è stato il tuo esordio nella musica?
Sono nato come produttore musicale registrando da bambino le mie tastiere e facendo registrazioni ping-pong tra un registratore Geloso (magnetofono degli anni Sessanta) dei miei genitori e uno a cassetta. Dopo le prime esperienze legate a gruppi di ispirazione New-Wave e No-Wave, ho iniziato durante il liceo a produrre i primi jingles per radio e TV private di Torino, esperienza che è diventata un vero e proprio lavoro tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta. Nel 1990 ho iniziato a suonare la tromba e ho avuto tra i vari maestri Enrico Rava che mi ha spinto a diventare trombettista. Il primo disco, uscito nel 1994 per la Philology di Paolo Piangiarelli, conteneva registrazioni di tromba fatte nei primissimi anni in cui iniziavo a suonare lo strumento, quindi nonostante avessi già una struttura musicale che avvolgeva la mia tromba registrata nel mio studio casalingo, mi rendo conto che la mia grande passione superava il coraggio di suonare uno strumento nuovo. Infatti faccio molta fatica oggi ad ascoltare i miei primi album. Ma in generale comunque non ascolto mai i miei dischi quando escono, forse anche perché ci passo mesi a mixarli, quindi una volta usciti passo ad altro. Però in tutta questa esperienza iniziale con la tromba, che alla fine portavo anche dal vivo, ricordo il rapporto con le persone, grandi amici musicisti tecnicamente bravissimi che mi hanno molto aiutato nella crescita musicale.
Se prima ho parlato di Suicide o di vocoder, non era per fare il jazzista che con modalità adolescenziale non vuole essere jazzista: semplicemente penso che siamo in Italia, Europa, nel 2024, e nella nostra musica portiamo la nostra identità che non è solo jazz, ma anche e in origine, extra-jazz. A me piace anche molto esplorare l’extra-genere. E in automatico ho sempre abbandonato i miei maestri anche se ho studiato gli assoli di Miles Davis, Chet Baker, Enrico Rava, John Coltrane, veri geni della musica che trascendevano il termine jazz.
Quali sono i tuoi punti di riferimento artistici?
Non è una novità la notizia che spesso nella formazione di un musicista possa fare di più il cinema, un libro o il teatro, piuttosto che ascoltare tutto il giorno Paul Desmond (cosa che ho fatto per anni). Parlando di artisti contemporanei, il mio preferito in assoluto è Romeo Castellucci, autore teatrale di enorme talento, ma metto a pari merito i registi Ruben Ostlund, Lars Von Trier e Ulrich Seidl (nel disco dei Prank c’è un unico pezzo mio, a lui dedicato) oltre a Alva Noto, l’artista la cui musica e arte visuale mi hanno colpito di più negli ultimi 25 anni. Tra i trombettisti, il più grande contemporaneo è Peter Evans, enorme talento, tecnica e catalizzatore musicale. Ho ascoltato molto Mark Isham, ma uno dei miei musicisti preferiti in generale è Jon Hassell, proprio perché è stato un genio della musica più che un trombettista, a parte il suo suono e fraseggio che hanno fatto scuola.
E poi la musica di Bach, la musica antica e barocca da Alessandro Scarlatti a Haendel e Purcell, tutto il jazz, tra i miei miti, Billie Holiday (uno dei suoi dischi che ho ascoltato di più è The Lady in Satin con gli arrangiamenti molto riconoscibili di un giovanissimo Claus Ogerman, credo siano in pochi a saperlo), Shirley Horn con cui avrei voluto suonare, Bill Evans – mia figlia Anita è nata con You Must Believe in Spring, album che ha ascoltato molto anche quando era nella pancia della mamma, infatti se oggi Anita sente una sola nota di piano di Bill Evans, lo riconosce. Credo che comunque tutti lo possano riconoscere da una sola nota, esattamente come accade per Robert Wyatt, Glenn Gould o Herbie Hancock.
E poi ancora la musica dalla seconda metà dell’Ottocento alla musica contemporanea, con una particolare predilezione per il quartetto d’archi che resta il mio organico preferito: non c’è un vero e proprio solista, e l’equilibrio è determinato dall’empatia tra i quattro musicisti. Ho la fortuna di ascoltare spesso i miei amici del Quartetto di Torino proprio dall’interno del loro semicerchio, ed è un’esperienza mistica. Con il loro violoncellista, Manuel Zigante, ho fatto uscire un album nel 2017, Solaris, pubblicato sempre da Machiavelli Music.
Citerei come fondamentali per la musica del Novecento i Kraftwerk, che hanno divulgato con genialità l’elettronica che fino allora era relegata negli studi di fonologia, producendo il linguaggio che è diventato lingua madre del pop e dell’elettronica. Con il Kraftwerk Wolfgang Flür ho collaborato nei primi anni 2000, scambiandoci voci, tromba e frammenti sonori. Prova ad ascoltare lo scambio tra il mio Sweet home with Elena dancing e il suo successivo I was a robot. Oppure Freaking out con la sua voce, in un mio album del 2004 (Tech-set, uscito per Il Manifesto dischi).
Hai dato voce musicale al film La Neuropatologia, che risale al 1908. Qual è stato il tuo processo di lavoro e come è nata l’idea di questo progetto?
È un progetto che mi è stato commissionato qualche mese fa dal Festival dell’Innovazione e della Scienza di Settimo Torinese, il cui curatore è Simone Arcagni, in collaborazione con Museo del Cinema di Torino, nella persona di Stefano Boni. La Neuropatologia è un documentario muto del 1908 girato nella casa di cura Cottolengo e nell’Ospedale Militare di Torino dal neuropatologo Camillo Negro e da Roberto Omegna, pioniere del documentario scientifico dell’inizio del secolo scorso. Si tratta di un documentario girato per scopi scientifici, ed è davvero un pugno nello stomaco assistere a questa sfilata di casi psichiatrici, neuropatie, malattie genetiche, e stress causati dalla guerra. Ho iniziato questo lavoro aiutato da uno psichiatra e psicoterapeuta, Lorenzo Garzaro, e il mio approccio non è stato quello di creare una vera e propria colonna sonora, proprio perché non si tratta di finzione. Ho pensato di creare una drammaturgia di taglio espressionistico che fungesse da soggettiva di noi umani, che ancora oggi a distanza di più di 100 anni dalle riprese del film, non abbiamo ancora acquisito gli strumenti per dialogare con coscienze differenti e per concedere al mondo “diverso” la nostra stessa dignità di viventi. Questa sonorizzazione è stata ospitata lo scorso settembre al FestivalFilosofia a Carpi, il cui tema del 2024 era “Psiche”.
Alceste Ayroldi
*Fine prima parte