«So Much Time». Intervista a Francesca Naibo

Secondo disco per la chitarrista e compositrice di Vittorio Veneto. Ne parliamo con lei.

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Buongiorno Francesca e grazie per il tuo tempo. «So Much Time» è un album autobiografico? Cosa racconta?
«So Much Time», il mio secondo album solista, è un lavoro sul tempo in tutte le sue sfaccettature: il tempo lontano di ricordi sbiaditi che emergono dalla memoria, il tempo che scorre a velocità diverse, il tempo compresso e dilatato delle nostre vite, il tempo che ritorna a fasi, il tempo stratificato di esperienze ed eventi. La necessità di realizzare questo lavoro si è manifestata a seguito del periodo pandemico, momento in cui la mia ricerca artistica si è a tratti interrotta, a tratti spinta verso nuovi obiettivi. In questo periodo così particolare per tutti, ho avuto la fortuna di potermi dedicare a una fase di profonda riflessione personale e di evoluzione artistica. «So Much Time» è un album autobiografico, perché al suo interno vi sono tracce del mio tempo presente, del mio tempo passato e del futuro. Riflettere sulla mia evoluzione è stato faticoso ma necessario e per affrontare questo processo mi sono avvalsa di un grande tesoro conservato a casa dei miei genitori: album fotografici, videocassette, audiocassette. I ricordi del mio passato sono custoditi lì, è stato meraviglioso poterlo rivivere; ma è stato altrettanto stimolante notare quali frammenti del mio attuale tempo presente fossero già in qualche modo avvolti in quel passato, e viceversa il legame tra presente attuale e passato e tra futuro e passato.. sento la circolarità del tempo, come si avviluppa e si aggroviglia. Elaborare e filtrare tutto questo attraverso i miei suoni è stato un lavoro molto impegnativo ma estremamente stimolante.

Hai fatto tutto da sola. E anche l’esecuzione è solipsistica. E’ un progetto che hai concepito così sin dall’inizio?
Sì, mi è stato commissionato da Ramble Records (l’etichetta che lo ha pubblicato a inizio novembre) nell’estate 2021 con la richiesta di un lavoro preferibilmente solista o con una formazione ridotta. Ad essere sincera, non avevo in cantiere un nuovo solo, ma l’idea di utilizzare i materiali presenti sulle audiocassette a casa dei miei mi frullava per la testa da molto tempo e così ho colto l’occasione per mettermi al lavoro e crearci qualcosa di valido. Ho fatto tutto da sola, è vero, ma ci tengo a sottolineare che il supporto ricevuto in studio dai fonici del Laboratorio di Sperimentazione Sonora Nitön di Barasso (VA) è stato molto apprezzato. Perché tutto da sola? Perché si trattava di un dialogo con me stessa, sentivo che era giusto affrontare questo percorso da sola per conoscermi, trovarmi, esplorarmi. Non so definire che cosa io abbia trovato, sicuramente non ho concluso in modo risolutivo questo viaggio.

Ti ho cercata su Spotify, ma ho trovato solo alcune tue playlist. Non ho trovato i tuoi due dischi. E’ un scelta casuale o causale?
Assolutamente causale. Ho scelto di non rendere disponibile la mia musica su alcuna piattaforma di streaming perché non penso si tratti della via giusta per diffonderla. Sono fortemente critica nei confronti di queste piattaforme a causa di molti aspetti: le paghe irrisorie che vengono corrisposte agli artisti, la modalità di ascolto distratta che viene incentivata, la mancanza di informazioni sugli album e sugli artisti, l’assenza di gesti manuali che invitano ad un appassionarsi alla musica che si sta ascoltando, etc. Tuttavia ne riconosco i lati positivi, come la possibilità di trovare molto velocemente varie versioni dello stesso brano. Ho deciso di non comparirvi in qualità di artista sia per una questione di coerenza (se tanto critico queste piattaforme, è giusto dimostrare coi fatti la mia posizione) sia perché ritengo che questi canali non possano portare a una grande visibilità i miei album. Avendo sempre a cuore i supporti fisici, preferisco di gran lunga vendere un numero contenuto di copie ad un pubblico sincero, attento e presente sulla piattaforma Bandcamp, come anche ai miei concerti e in alcuni ormai (purtroppo) rari negozi, piuttosto che raccogliere una manciata di ascolti passeggeri e incompleti sulle piattaforme.

Suoni, rumori, accordi che si sfaldano, si ricompongono. L’utilizzo dello strumento in modo “non tradizionale”. Quali sono le tue fonti e soggetti-oggetti di ricerca?Trovo stimolantissimo sentire quanto le influenze di artisti, suoni, strumenti trovino un collocamento nel linguaggio espressivo di chi li riceve. Il suono di ogni musicista è il risultato di incontri, ascolti, contaminazioni che arricchiscono la materia sonora e il modo in cui viene utilizzata. Anch’io penso di avere avuto e tuttora ho delle influenze molto forti, fonti importantissime per lo sviluppo della mia voce individuale. Spero di continuare ad averne anche in futuro! Sicuramente le mie fonti chitarristiche più importanti sono state Marc Ribot, Elliott Sharp, Derek Bailey, ma coloro che considero i miei mentori – e a cui sono molto riconoscente – sono Simone Massaron (il mio primo insegnante di improvvisazione), Alfred Zimmerlin e Fred Frith. Da questi tre musicisti ho imparato moltissimo: mi hanno stimolata ad esplorare me stessa e il mio strumento profondamente, a cambiare il mio modo di ascoltare e di pensare, a creare suoni vivi. Arrivo da anni di ricerca sullo strumento, con un lavoro approfondito sulla chitarra per trovare il mio personale uso delle tecniche estese, delle preparazioni e dell’elettronica. Questo lavoro minuzioso, paziente e costante mi fa scoprire lo strumento in ogni sua minima parte, facendolo risuonare in modi differenti in ogni suo spazio e linea, con lo scopo non tanto di fare una dimostrazione di tutti i suoni che si possono creare con una chitarra e degli oggetti, ma di usare lo strumento per i miei obiettivi artistici e comunicativi, sfruttando alla massima potenza le sue capacità. Ecco quindi che anche lo sfregamento di una moneta su una corda rivestita non diventa un mero gesto scenico ma la liberazione di un suono ruvido e modulabile, dalla liricità spiccata. Cercare la vitalità del suono, l’energia che lo caratterizza e che mi attraversa quando lo percepisco sono alcuni dei miei maggiori interessi recenti. Da un anno circa mi sto occupando di Deep Listening (pratica di ascolto ideata, approfondita e sviluppata da Pauline Oliveros) e sento quindi che ciò che mi interessa va al di là degli strumenti, alla ricerca di esperienze sensoriali speciali che coinvolgono l’ascolto, la percezione e il corpo.

Di chi è la voce di bambina che si ascolta in Solletico e Al mio 3 spingi ed Ehi?
È la voce di me bambina (all’età di circa 7-8 anni) recuperata da delle vecchie audiocassette registrate in casa con un registratore piuttosto economico insieme alle mie sorelle. Era un gioco che facevamo con interviste, chiacchiere, barzellette. Poterla riascoltare è stata una fortuna, perchè mi ha permesso di coglierne l’essenza sonora e personale e poterci entrare in dialogo a distanza di circa 25 anni. Nell’album quindi sono presenti tre voci (la voce della bambina, la voce dell’adulta e la voce della chitarra) che sono messe in relazione attraverso ascolto reciproco, dialogo e contrasto. In Solletico ascoltiamo a un dialogo tra la chitarra e la bambina (che si esprime con risate incontenibili, il titolo infatti non è casuale), in Al mio 3 spingi la bambina introduce il brano con una frase, lasciando spazio alla chitarra che verso la fine accoglie un canto liberatorio della voce adulta. In Ehi invece assistiamo a un dialogo diretto e quasi paradossale tra la bambina e l’adulta.

E, a proposito di Al mio 3 spingi cosa provoca quell’onda d’urto di rumori che s’ascolta all’inizio?
Questo brano, come tutti i pezzi della tracklist, presenta un sottotitolo che specifica di quale tipologia di tempo è impregnata la musica. In questo caso si tratta di excited time, un tempo pieno di entusiasmo, energia, eccitazione. Prima di iniziare a registrarlo sono stata in silenzio per qualche minuto, per caricarmi dell’energia giusta e necessaria per lanciarmi nel vuoto. Si trattava di immaginarsi in una situazione in cui bisogna buttarsi, vuoi realmente oppure figurativamente, verso qualcosa che non si conosce e di cui potremo fare esperienza in quel momento esatto, senza preparazione. Ciascuno di noi, riflettendoci, può trovare almeno un paio di esempi che a livello personale riescano a rendere l’idea. Ho deciso di non inserire riferimenti personali riguardo fatti, luoghi, persone ed esperienze a cui mi sono ispirata proprio per poter aprire queste musiche a una connessione con tutti, evitando che restassero legate solamente a fatti autobiografici. Inevitabilmente la percezione che abbiamo di un tempo così su di giri è molto diversa rispetto a un tempo più calmo. Ricordo ancora la sensazione fisica a fine take: ero letteralmente in affanno da quanto ero stata coinvolta!

Tu sei una chitarrista classica, ma i tuoi dischi raccontano altro. Soprattutto, una vita da songwriter alternativa. C’è stato un momento o altro che ha cambiato la tua vita artistica?
Durante i miei studi classici, mentre preparavo l’esame di Compimento Medio (il famoso “Ottavo”) c’è stato il primo grande cambiamento: mi ero resa conto che senza uno spartito sul leggio mi sentivo persa e non sapevo creare una musica mia. Da lì ho iniziato a cercare esperienze (workshop, percorsi didattici e simili) che potessero mostrarmi lo strumento sotto un’altra luce, fino ad arrivare a una seconda tappa fondamentale del mio percorso: il Master di Improvvisazione alla Musik Akademie di Basilea. È stata una delle esperienze più forti e sconvolgenti come studentessa, perché sono stata letteralmente immersa in una ricerca senza sosta con compagni stimolantissimi, sotto la guida di docenti con approcci sorprendenti (Alfred Zimmerlin e Fred Frith). Ultimo solo in termini cronologici è stato l’incontro con la cantante Sara Serpa, i cui insegnamenti e stimoli durante i suoi workshop online in tempo di pandemia mi hanno spinta a fare ciò che ancora non avevo mai provato: scrivere le mie canzoni. Dedicarmi alla composizione dopo così tanti anni di pura improvvisazione è stato molto bello.

Cosa ti conduce, ti avvolge quando improvvisi?
Il suono. È una sensazione bellissima, prima di iniziare un concerto ad esempio, percepire dove mi trovo, sentire la presenza di un suono che ancora non si è espresso ma che è lì, nell’aria, in attesa di essere liberato, rivelato. Mi circonda, ma mi spinge anche. Prima di iniziare a suonare è importante entrare in contatto con questa vibrazione, capirla, assecondarla. Se si cerca di imporsi con idee preconcette, pianificazioni, speranze, desideri, l’improvvisazione a mio parere non sarà efficace. Quasi sempre infatti la freschezza del non-controllo e dell’inaspettato portano tra le mani dell’improvvisatore un guizzo creativo che genera percorsi sonori fertili e sorprendenti. Ovviamente poi c’è l’importanza del pubblico e della relazione che vogliamo instaurare con chi ci ascolta (che può essere una persona reale, una persona assente o anche lo spazio), ma ritengo che la cosa più importante sia essere dentro a quella vibrazione, zittire il proprio ego e far succedere ciò di cui il suono ha bisogno.

A quale periodo storico ti senti maggiormente legata?
Sinceramente non ne ho uno in particolare. Mi sforzo di sentirmi legata al tempo presente, anche se a volte non è facile, per non cadere nelle nostalgie di ere passate di cui si sente la mancanza.

Qual è il pubblico di Francesca Naibo?
È un pubblico curioso, dalla mente accogliente, che ha voglia di cose diverse. Rispondendo a questa domanda penso a chi recentemente ho incontrato ai miei concerti, ma anche a chi mi trasmette il suo sostegno sui social, dove cerco di essere attiva non solo con la promozione della mia attività, ma anche con la condivisione di eventi, novità, nozioni.. Vedo età diverse e background differenti e questo mi rallegra, perché significa che intercettare interessi e curiosità facendo musica “diversa” non è impossibile.

Dicevamo che per te l’improvvisazione è molto importante (aspetto che hai sottolineato anche in altre interviste). Parliamo di «So Much Time». Quanto è improvvisato e quanto è scritto?
Musicalmente il lavoro si è basato su improvvisazioni realizzate in studio, ispirate dalle riflessioni sul tema scelto e fondate sulle caratteristiche sonore delle registrazioni su nastro. Queste ultime erano state pazientemente sezionate prima delle giornate di registrazione, con lo scopo di poter entrare in studio con molti frammenti di audiocassetta da poter giustapporre, sovrapporre o contrapporre alla musica. Alcuni brani sono rimasti quasi intonsi dopo la registrazione (come Insistere e E se poi te ne penti?), ma per la maggior parte dei pezzi c’è stato un editing differente rispetto a quello operato nel mio album precedente («Namatoulee», Aut Records). In «So Much Time»  non mi sono fatta problemi a decidere di aggiungere delle parti, delle voci, se sentivo che avrebbero espanso l’espressività della musica. L’approccio compositivo, quello che ti fa riascoltare, tornare indietro e decidere di modificare, si è fatto più spazio questa volta. Tuttavia, come era successo per («Namatoulee», anche questa volta sono entrata in studio senza alcuna idea di cosa sarebbe uscito dalle due giornate di registrazione.

Non pensi che l’improvvisazione, nel momento in cui viene immortalata su disco, perda la sua naturale essenza?
No, non sono una purista. Penso che siamo fortunati ad avere dei mezzi tecnologici che ci permettano di riascoltare delle improvvisazioni meravigliose di musiciste e musicisti di varie epoche. Non sarebbe un peccato per le nuove generazioni non poter ascoltare nulla di quanto inciso ad esempio da Derek Bailey solo per un’idea di essenza e purezza da rispettare? Questo tema si lega profondamente all’idea di memoria. Un pensiero che mi ha colpita molto tra le pagine della rivista di chitarra Il Fronimo è del compositore Maurizio Pisati, che afferma che il disco “è l’immagine in rotazione del tempo, un orologio in cui giri il quadrante e non le lancette, l’immagine del perpetuarsi della memoria in una traccia incisa o specchiata da un laser. Una piccola terra piatta su cui la nostra traccia gira e rimane per sempre. Cioè è un desiderio egocentrico e presuntuoso, una felice illusione, uno strumento di studio, un oggetto per il godimento sonoro”. Un altro pensiero su cui ho riflettuto è contenuto nel celebre “Improvvisazione. Sua natura e pratica in musica” di Derek Bailey, il quale, nel paragrafo dedicato alla questione delle registrazioni all’interno della Parte Quinta, si fa portavoce di chi accusa i dischi di alterare e non essere fedeli alla naturale atmosfera del contesto nel quale si fa improvvisazione, “l’incontrarsi della musica con il luogo e l’occasione”. In questi anni ho realizzato che la mia motivazione per registrare la mia musica improvvisata è insita nel luogo stesso in cui lo realizzo: è mio compito rendere al meglio con i miei suoni il luogo e l’occasione, una situazione di profonda solitudine ed isolamento fisico e spirituale, e al contempo la relazione che si instaura con il fonico, il mio pubblico reale, e con quello immaginato e percepito, ideale, passato e futuro.

L’aver studiato musica classica ti aiuta nel processo improvvisativo o ti limita?
Se all’inizio lo vedevo come un blocco che mi aveva portata ad essere dipendente da uno spartito, mi sono poi resta conto che mi ha aiutata. L’approccio classico e l’improvvisazione si influenzano a vicenda, lo noto perché porto avanti lo studio di entrambe le discipline. Ciascuna riceve ispirazione, materiali, idee, respiri ed energia dall’altra. Inoltre, si verifica uno scambio di opposti, perché il mondo classico riesce a dare all’improvvisazione una certa precisione, accuratezza, attenzione al suono, diligenza e respiro; l’improvvisazione invece dà alla musica classica una certa freschezza, leggerezza, un’energia speciale che a volte può essere messa in ombra da sessioni di studio intense e ripetitive, poco focalizzate sul suono.

Ci parleresti di «Correspondence», che attualmente consta di due volumi: ci sarà un terzo volume?
«Correspondence» si è concluso con il secondo volume. È un lavoro nato e realizzato durante il periodo pandemico con un chitarrista portoghese, José Dias, che ho conosciuto grazie ad un evento online in cui è stato trasmesso un mio video realizzato in casa. L’evento era curato proprio da José. Dopo alcune settimane mi ha proposto di fare qualcosa insieme, ne abbiamo discusso e abbiamo deciso di realizzare delle registrazioni in forma di corrispondenza, come se ci stessimo scrivendo delle lettere. In effetti non ci siamo mai incontrati di persona, posso considerare José un “rec friend” (una volta c’erano i pen friends). Ne è venuto fuori un dialogo a distanza nella vera forma di dialogo, cioè con l’alternanza di brani suonati da José e da me, collegati dalle risposte scritte dall’altra persona. Mi piace come in quest’album sia stata lasciata la distanza tra noi, nonostante la tecnologia avrebbe potuto tranquillamente bypassare questo problema.

 Qual è la tua tipologia di formazione perfetta?
Non ne ho una preferita, né tendo ad escludere a priori determinati strumenti. Prediligo la scelta dei musicisti più che degli strumenti, perché desidero lavorare con persone interessanti, stimolanti, valide, rispettose e comunicative.

 Un committente ti chiede di comporre e dedicare un’opera musicale a uno scrittore del Novecento. Chi sarebbe e cosa racconterebbe musicalmente questo tuo disco?
Sceglierei Haruki Murakami, scrittore giapponese le cui opere mi hanno sempre affascinata per la capacità di non rivelare tutto. Racconterei musicalmente di misteri, personaggi enigmatici, luoghi anonimi, paesaggi notturni.

 Qual è la mission artistica di Francesca Naibo?
Devo confessare che il termine “mission” mi fa venire i brividi. Ho un’immagine dell’artista molto meno aziendale e molto più laboratoriale, dove il focus si pone sul lavoro continuo, insistente, quasi ossessivo sulla materia artistica. L’attività artistica richiede tempi che spesso fanno fatica a incasellarsi in pianificazione a breve termine, inoltre trovare una mission chiara e comprensibile a volte non è possibile per l’artista stesso. L’arte è un percorso, sappiamo da dove partiamo ma spesso la meta non è definita. Con questo non intendo affermare che quello del musicista sia un mestiere che non possa essere preciso, lavorare delle scadenze e porsi degli obiettivi, ma a volte sorrido quando si cerca di aziendalizzare in modo eccessivo il mondo dell’arte. Giunta a questo punto, mi rendo conto di non aver propriamente risposto alla domanda, che – sono sicura – intendeva indagare gli obiettivi che mi sono posta e che mi pongo, ciò che caratterizza la mia musica, quali sono i miei punti di forza a livello musicale. Penso sia importante interrogarsi su questi temi, perchè in fondo è un modo di guardarsi dentro con sincerità e capire dove ci troviamo nel nostro percorso. Penso che suonerà un po’ naif, ma il mio obiettivo principale è di sentirmi sinceramente me stessa ed esprimere la mia voce in modo veritiero. Sono consapevole che si tratti di un processo senza fine, perché io cambio continuamente, mi evolvo. La mia voce procede in modo parallelo alla mia storia personale, filtrando attraverso di me il mondo che vivo, i suoni che mi circondano, i luoghi in cui mi trovo, le possibilità che mi immagino. Ovviamente l’altro obiettivo fondamentale è quello della condivisione: che sia in un live o in un’intervista o in un post sui social, cerco di lanciare i miei messaggi e di instaurare un dialogo con chi si interessa alla mia arte, senza l’ansia del dover piacere a tutti e comunque, ma con lo scopo di offrire visioni diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati.

Cosa è scritto nell’agenda di Francesca Naibo?
Nella mia agenda (ci tengo a specificare che è cartacea perché sono un’amante della carta) annoto di tutto. È un po’ il mio salvagente quando ho delle idee o cose da annotare. Ci si trovano appunti per la spesa, come anche parole che mi piacciono o stimoli per ricerche. Per fortuna c’è già qualche appuntamento live nei prossimi mesi: tra febbraio e marzo avrò il piacere di suonare per la prima volta in duo con il fisarmonicista romano Luca Venitucci, ma anche di riprendere l’attività in trio dopo 5 anni con Stefanie Erni (voce) e Marina Tantanozi (flauto basso), due musiciste straordinarie che vivono in Svizzera. Spero di
poter annotare altri stimolanti incontri per i mesi a venire.
Alceste Ayroldi