Il Texas è sempre stato considerato, nella credenza generale, come terra di uomini saldi e vigorosi. È una forza ereditata probabilmente dai primi coloni i quali, nella mitica Conquista del West, dovettero dimostrare carattere ferreo e fisico gagliardo per domare la spesso impervia geografia del posto. Basti pensare che il nome Texas viene comunemente associato subito al Western, i cui eroi potevano essere sconfitti solamente dalle pallottole di una Colt o di un Winchester. La tesi che tutta questa tempra si sia rispecchiata in qualche modo anche nel mutevolissimo paesaggio del jazz è attraente, e non poco verosimile. A ciò si aggiunga che nella mappa del blues il Texas rappresenta uno dei più importanti luoghi deputati. Questi due elementi – vigore e blues – si sono combinati in una mistura che a detta degli stessi musicisti è riconoscibile con estrema facilità: si tratta del cosiddetto Texas sound, una sonorità concreta, ispirata, piena di quella che gli americani chiamano soul, anima. Ci sono state, ovviamente, delle eccezioni: gente come Teddy Wilson, Jimmy Giuffre, Jack Teagarden ha preferito esprimersi, pur essendo di origini texane, in un linguaggio più romantico e vellutato. Ma il Texas sound esiste ugualmente, e lo dimostra il lungo elenco di tenorsassofonisti sui quali esso si è riflesso costantemente e con grande evidenza: dal capostipite Herschel Evans, che fu il grande antagonista di Lester Young nell’orchestra di Count Basie, a Budd Johnson, Illinois Jacquet, Buddy Tate, Arnett Cobb, John Hardee, Jesse Powell, Harold Land, Booker Ervin, James Clay, David «Fathead» Newman. A questi sarebbe da aggiungere anche un altosassofonista come Omette Coleman, nei cui spericolati assolo si ritrovano intatti le inflessioni del blues e l’attacco deciso. Tra questi sassofonisti è singolare il fatto che chi ha meglio rappresentato il Texas sound non fosse affatto nativo del Texas, né dello Stato del quale porta il nome: è il caso, cioè, di Illinois Jacquet, o meglio di Jean-Baptiste Illinois Jacquet, nato a Broussard, nella Louisiana, il 31 ottobre del 1922. La spiegazione dell’arcano sta nel fatto che Jacquet visse in Louisiana solo per i primi sei mesi di vita, dopo i quali si trasferì subito con la famiglia nel Texas, stabilendosi a Houston. A dirla tutta, Jacquet veniva da un luogo abitato da gente ancor più «tosta» dei texani. Broussard deve il suo nome a una serie di esponenti dell’omonima famiglia, e in particolare a Joseph detto Beausoleil (1702–1765) che fu uno dei leader della popolazione acadiana stanziata nell’est del Canada e poi deportata dagli inglesi in un chiaro esempio di pulizia etnica. Gli Acadiens, discendenti dai colonizzatori francesi, finirono così dapprima nell’odierna Haiti e poi, decimati dal clima infernale dell’isola di Hispaniola, si trasferirono in Louisiana guidati proprio da «Beausoleil Broussard», un tipo di pochi scrupoli e dallo scalpo facile.
Illinois Jacquet costituisce senza dubbio un caso nella storia del jazz. La sua fama è molto inferiore alle sue reali qualità interpretative, e per di più è stata legata a doppio filo a elementi tutto sommato molto marginali del suo stile di sassofonista. Come vedremo, saranno i suoi brucianti assolo sulle armonie di Flying Home a regalargli una grande notorietà, ma quegli stessi assolo hanno anche nascosto le sue notevoli virtù di improvvisatore della scuola classica del sax tenore. Sicché oggi possiamo considerarlo come uno dei musicisti più sottovalutati della storia del jazz. In casa Jacquet, una famiglia storicamente francofona di Creoles of color (termine con cui si definisce il grupppo multietnico nato dall’incontro tra i colonizzatori francesi e/o spagnoli e gli afro-americani, in gran parte dei casi ex schiavi liberati) la musica era molto familiare: il nonno, Jean-Baptiste Jolivet Jacquet, veniva da New Orleans, era intimo amico del celebre trombettista Oscar «Papa» Celestin, suonava un’infinità di strumenti e possedeva diverse proprietà terriere; il padre di Illinois si cimentava al contrabbasso nell’orchestrina di una compagnia ferroviaria, mentre uno degli altri cinque tra fratelli e sorelle, Russell (1917-1990), era un sensibile trombettista che per un certo periodo fu alla testa di una grande orchestra di buon pregio (nella quale passarono personaggi più tardi divenuti famosi, come Charles Mingus). Uno zio inoltre, François «Frank» Jacquet, era trombonista di professione nell’orchestra di Don Albert, territory band di successo con base nella città di San Antonio. Il piccolo Illinois, che parlava solo francese, fu mandato in un asilo cattolico, come da consolidata tradizione familiare, dove poté finalmente imparare l’inglese.
Era prevedibile, dunque, che il giovane Illinois. respirando musica attorno a sé, avrebbe finito per imbracciare un qualche strumento musicale, anche se la sua scelta definitiva non fu immediata. La famiglia Jacquet era una strenua sostenitrice della cultura e dell’istruzione, e il giovane Illinois poté sempre frequentare buone scuole. All’età di quattordici anni si interessò alla batteria; più tardi si esercitò sulla tromba del suo fratello maggiore. Finalmente scelse un sassofono, il contralto, e cominciò ad esibirsi con alcune formazioni locali, come quelle di Bob Cooper e di Lionel Proctor. I dati su questo suo periodo di formazione e sul suo definitivo approdo al sax tenore sono scarni. La scelta, secondo il parere di molti, ebbe luogo quando Illinois si trovò tra le file dell’orchestra «texana» diretta dal trombonista e trombettista Milt Larkin. Nella sezione dei sassofoni sedeva accanto a lui un robusto tenorsassofonista di nome Arnett Cobb, più giovane di lui di quattro anni. È probabile che da Cobb il giovane Illinois abbia appreso quanto fosse più adatto al suo stile già «maschio» il sax tenore rispetto al sax alto. Gioverà ricordare subito che sarà proprio Arnett Cobb, alcuni anni dopo, a rimpiazzare Illinois Jacquet nell’orchestra di Lionel Hampton per improvvisarvi, con ugual fervore, sulle armonie del celebrato Flying Home.
Lo scoccare degli anni Quaranta segna l’inizio dell’ascesa di Illinois verso il traguardo della notorietà. Suonando con queste orchestre «minori», come quella di Floyd Ray, il giovanotto aveva avuto modo anche di esibirsi fuori dei confini texani. A Los Angeles, dove si era trasferito per frequentare l’università, conobbe Lionel Hampton una sera che il prestigioso vibrafonista era impegnato in una esagitata jam session con Nat Cole e altri. Nel 1940 Hampton assumerà nella sua orchestra lo sconosciuto sassofonista, costretto a passare al tenore perché le posizioni di sax contralto erano già occupate da Marshall Royal e Ray Perry; purtuttavia se la big band del vibrafonista gli darà l’occasione di farsi conoscere per tutti gli Stati Uniti, Illinois ricambierà il favore lanciando la compagine verso la sua stagione di maggior successo presso il grande pubblico.

Ma prima di proseguire sugli avvenimenti biografici è il caso di osservare un momento come si presentava, all’esordio degli anni Quaranta, il quadro jazzistico relativamente al sax tenore. In questo campo chi dettava banco da circa un decennio era Coleman Hawkins, che dal pulpito dell’orchestra di Fletcher Henderson aveva imposto, perfino di qua dell’Atlantico, un celebrato ed imitatissimo modo di esprimersi su questo strumento. Prima di concedersi una svolta per così dire «modernista», attorno al 1943, Hawkins aveva colto dal sax tenore la natura vibrante e rapsodica, lo spirito diamantino e passionale, diventando una stella di prima grandezza del jazz e creando una fittissima schiera di epigoni. Anche altri due solisti di notevolissimo rilievo, l’ellingtoniano Ben Webster e l’oggi misconosciuto Leon «Chu» Berry, potevano considerarsi suoi discepoli.
A parte il caso del chicagoano Bud Freeman, a proporre qualcosa di differente rispetto al consolidatissimo «Hawkins style» ci fu solamente il grande Lester Young che, al contrario, aveva dato al sax tenore una sua intima dolcezza: ma il suo apporto sarebbe stato riconosciuto appieno solo sul finire degli anni quaranta, con la nascita del cool jazz. Quando Count Basie ospitò Young nella sua orchestra (e si trattò davvero di una gloriosa permanenza), ebbe lo straordinario intuito di contrapporgli un tenorsassofonista che non solo discendeva stilisticamente da Coleman Hawkins ma aveva altresì portato alle estreme conseguenze il modo di suonare hawkinsiano: il suo nome era Herschel Evans. Con lui – prematuramente scomparso nel 1939 per un attacco cardiaco – Lester Young instaurava ogni sera una amichevole «battle of saxes», alla quale Basie assisteva divertito per l’entusiasmo che suscitava presso il pubblico (era un vero e proprio tifo).
«Ho imparato dalle grandi orchestre – confessò una volta Illinois Jacquet al giornalista Burt Korall – ascoltando i professionisti. Quando ho sentito Herschel Evans e Lester Young con Basie mi sono reso conto che dovevo diventare un sassofonista. Certo, decidere di fare il musicista è una cosa ma diventare un bravo solista è un’altra». Fu proprio Herschel Evans l’unico idolo riconosciuto dal giovane Illinois. Costui apprezzava dello stile del solista basiano il fascino un po’ rozzo intriso di blues e di magnetismo. E, come ebbe a notare una volta il critico Dan Morgenstern, se Evans – che era nato a Denton, poco lontano da Dallas e da Fort Worth – era il padre del «Texas tenor style», Jacquet ne era sicuramente la madre.
Quando il giovane Illinois giunse in California con l’orchestra di Floyd Ray suonava ancora il sax alto e il sax soprano. Qualunque sia stato l’influsso di Arnett Cobb, del quale s’è detto poc’anzi, la scelta del sax tenore si dovette definitivamente a Lionel Hampton: la sua orchestra aveva bisogno di un tenorsassofonista, e Illinois Jacquet non si lasciò sfuggire certo l’occasione. Col focoso vibrafonista egli restò dal 1941 al 1943: fu un contratto contrassegnato dal grande entusiasmo. Rifacendosi all’esempio di Count Basie, anche Hampton scelse la sezione dei sassofoni come terreno di eccitanti rivalità, sebbene gli uomini che contrappose non avessero caratteri così marcatamente contrastanti come quelli di Young e di Evans: lo sfidante di Illinois Jacquet fu Dexter Gordon, un coetaneo tenorsassofonista californiano.
In quel periodo Hampton era un personaggio molto noto sulla scena musicale. Aveva militato nel fortunatissimo gruppo di Benny Goodman e aveva perfino preso parte a qualcuno di quei film musicali che spesso ospitavano dei jazzisti e che Hollywood sfornava a getto continuo. Ma ai puristi del jazz il vibrafonista era caro soprattutto per certe perle da lui registrate alla testa di complessi da studio (nei quali avevano suonato fuoriclasse come Johnny Hodges, Gene Krupa, Jonah Jones, Cootie Williams e Cozy Cole). All’inizio degli anni quaranta Hampton pensò che era giunta l’ora di mettersi in proprio e, cogliendo il vento favorevole che spirava per le big band, formò la sua prima grande orchestra. L’esordio fu variamente giudicato, ma per lo più ebbe esito negativo. Sarà proprio Illinois Jacquet uno dei principali responsabili dell’affermazione dell’orchestra. Nel maggio del 1942, in una delle prime sedute di registrazione dell’orchestra, venne inciso un brano che Hampton aveva composto assieme a Benny Goodman e a Sid Robin: si chiamava Flying Home, era a tempo medio-veloce e sfruttava lo swing generato dalla ripetizione di un’accattivante frase musicale.
Dell’assolo centrale fu incaricato Illinois Jacquet il quale, dalle armonie del brano, cavò fuori un intervento letteralmente incandescente, trascinante per la sapiente mistura della sonorità grezza con il forte dinamismo sul registro medio. L’era dello Swing aveva già abituato il pubblico ad un jazz dal ritmo contagioso; eppure questo assolo di sax tenore sulle armonie di Flying Home ebbe ugualmente l’effetto di una frustata. L’orchestra eseguiva il brano ogni sera, magari ripetendolo più volte a grande richiesta, e quel giovanotto texano che fino ad allora pochi conoscevano, diventò una specie di «spettacolo nello spettacolo». Il disco che conteneva la registrazione del pezzo, e che fu edito dalla Decca, andò a ruba.
Naturalmente Flying Home restò uno degli appuntamenti fissi nel repertorio delle varie orchestre dirette dopo di allora da Lionel Hampton, anche delle più recenti. E anzi, il vibrafonista si sforzò ogni volta di avere nella sezione dei sassofoni un musicista che sapesse rifarsi il meglio possibile ad Illinois Jacquet. Appena quest’ultimo abbandonò la formazione, Hampton trovò il giusto rimpiazzo in un altro texano, Arnett Cobb; e si affrettò a fargli incidere un Flying Home No. 2. Oltre a Flying Home, un «numero» di particolare importanza per Jacquet durante la sua permanenza nella compagine di Lionel Hampton era Pork Chops, un brano in cui egli apriva le «ostilità» con Dexter Gordon; il pezzo non venne registrato, ma le cronache del tempo riferiscono che la battaglia tra i due tenorsassofonisti era sempre animatissima e di grande presa sul pubblico L’entusiasmo era la bandiera che costantemente sventolava nei concerti dell’orchestra di Lionel Hampton, e la decisione di lasciarla, presa da Illinois nel 1944, gli dovette certamente lasciare l’amaro in bocca. Cab Calloway in persona, l’uomo dello «hi-de-ho», si era fatto vivo con un’offerta di contratto che al giovane Illinois dava finalmente anche un po’ di tranquillità economica. E poi Calloway era un nome di grandissimo prestigio. Aveva cominciato la sua carriera proprio nei tempi grami della grande crisi, e già alla metà degli anni trenta era una figura di primo piano sia come attore-cantante che come impresario. Accettando di far parte dell’orchestra dell’istrionico Cab, Jacquet entrava a far parte del grande show business, anche se dal punto di vista strettamente musicale non riceveva gratificazioni di particolare rilievo. Accadde però che proprio durante la sua permanenza in seno alla formazione di Cab Calloway il giovane sassofonista fosse oggetto dell’interessamento di Norman Granz, un impresario allora molto giovane che nel giro di pochi anni sarebbe diventato uno dei personaggi più famosi della scena jazzistica, il numero uno tra gli organizzatori. L’idea di Granz era di fare del jazz un autentico spettacolo: proprio come se in una delle superproduzioni di Broadway agli attori si fossero sostituiti i musicisti. E come in quegli spettacoli si doveva richiamare il maggior numero di spettatori. Per ottenere questo risultato non si poteva che scritturare i più famosi solisti che la scena del jazz offriva oltre a quelli più abili nello «scaldare» l’ambiente.
Jacquet apparteneva ad entrambe le categorie, soprattutto alla seconda: entrò così a far parte del Jazz at the Philharmonic, l’insegna che Granz diresse fino al 1983 e che, al di là delle intenzioni commerciali, riuscì a creare delle combinazioni entusiasmanti tanto per il pubblico quanto per i musicisti stessi. Nel concerto che si tenne a Los Angeles la sera del 2 luglio 1944, e che praticamente fu il varo ufficiale del Jazz at the Philharmonic, Jacquet si trovò affiancato a giovani e validissimi musicisti, come il pianista Nat Cole (il futuro, celeberrimo «King»), il chitarrista Les Paul, il trombonista Jay Jay Johnson, il trombettista Shorty Sherock. Luogo della jam session fu l’austero Philharmonic Auditorium. Il repertorio venne scelto tra i classici del jazz: Bugle Call Rag, Body and Soul, Lester Leaps In, Rosetta, I’ve Found a New Baby, Tea for Two. Unico brano originale e senza titolo fu un blues che, guarda caso, verrà chiamato Blues. L’assolo che vi prese Illinois (sensibilissimo al vecchio e intramontabile giro armonico del blues) fu una volta ancora travolgente. Il lungimirante Granz registrò l’intero concerto, e pochi anni dopo fece pubblicare da una piccola casa discografica le tre parti di questo Blues. È quasi superfluo raccontarlo: il 78 giri che conteneva lo scatenato intervento di Illinois ebbe un successo tale che l’etichetta discografica riuscì a soddisfarlo solo in parte. Il pezzo diventò un passaggio obbligato per i programmi musicali delle stazioni radio: a New York il famoso disc-jockey Symphony Sid lo mandava in onda ogni sera nella sua trasmissione. Purtroppo la pubblicazione dei dischi ebbe luogo tempo dopo, e non poté dunque coprire il fallimento finanziario degli esordi del Jazz at the Philharmonic. Fu così anche per il vero debutto discografico del JATP. Esso riportava un concerto che aveva avuto luogo sempre a Los Angeles pochi mesi dopo. Stavolta figuravano nel cast solisti prestigiosi come i trombettisti Joe Guy e Howard McGhee, il batterista Gene Krupa, il tenorsassofonista Charlie Ventura, l’altosassofonista Willie Smith. Anche allora Illinois Jacquet fece la parte del leone, in una versione di How High the Moon che contribuì a risollevare le sorti dell’impresa di Granz.
Gli impegni di Illinois con Norman Granz continueranno, non quelli con Cab Calloway. L’offerta stavolta gli venne dal grande Count Basie, che nelle file della sua orchestra doveva sostituire Lucky Thompson.
«L’orchestra di Hampton – raccontò una volta Jacquet – era molto eccitante, e gli uomini ne erano entusiasti. lo stesso ho cominciato ad ingranare veramente solo dopo aver registrato il mio assolo in Flying Home. Ma l’orchestra di Basie era una unione perfetta. Non penso che esisterà mai più un’orchestra come quella: il repertorio era buono e ogni sezione aveva forza ed equilibrio. Con uomini come Sweets Edison e Ed Lewis fra le trombe, J.J. Johnson e Dickie Wells brillanti fra i tromboni, Buddy Tate fra i tenori, la pulsazione di Basie, Freddie Green alla chitarra e il grande Shadow Wilson che teneva il tempo, andavi a lavorare con la voglia matta di suonare e ancora suonare».
A Illinois Jacquet era stata assegnata una sedia piuttosto «scottante», cioè quella appartenuta al grande Lester Young. Come antagonista ebbe un texano, Buddy Tate, che aveva forgiato il suo stile su quello di Herschel Evans. I «pezzi forti» che Basie aveva costruito per il nuovo venuto si intitolavano The King, High Tide e Mutton Leg, vennero pubblicati su disco ed ebbero un ottimo successo. Il primo di essi era un brano animatissimo, con un giro armonico tanto accattivante che Illinois lo mantenne in repertorio anche dopo il distacco da Basie, e per tutta la vita continuò a improvvisare con nerbo e velocità su quel tema. Mutton Leg (che vagamente si rifaceva ad un successo dell’orchestra di Woody Herman, Apple Honey), era invece il pezzo in cui il tenorsassofonista riprendeva quei «trucchi» che gli avevano dato fama: un contagioso slancio sulle ottave medie dello strumento e una delirante scarica di sovracuti.
Questo infuocato modo di suonare, che qualcuno ha definito addirittura «erotico», è stato visto come l’anticipazione tanto dei più energici sassofonisti comparsi successivamente sulla scena del jazz (negli anni del free jazz Pharoah Sanders, e in seguito Frank Lowe o George Adams). quanto presso il r&b dove i sassofonisti venivano chiamati honkers per la loro sonorità simile al verso delle anitre selvatiche. Ma queste trovate ad effetto erano per Jacquet un modo di richiamare a sé la platea; in realtà egli era un improvvisatore coi fiocchi, e lo sapevano bene i frequentatori di Harlem, dove egli si riuniva a suonare dopo il lavoro con colleghi come Don Byas e Buddy Tate. Così, forse per dimostrare di non essere solamente un elemento elettrizzante, Illinois lasciò Basie nel 1946 per varare al Lincoln Colonnade di Washington la sua prima orchestra. Sotto suo nome Jacquet aveva già fatto delle registrazioni. Ovviamente per la prima incisione di cui fu titolare scelse il suo principale successo, Flying Home. Tra le sue prime sedute di registrazioni è da ricordare una per la Savoy che allineò alcuni musicisti basiani e della quale fu contitolare il trombettista Emmett Berry: dall’atmosfera raccolta e rilassata uscirono pezzi di pregio come Jumpin’ Jacquet, Don’t Blame Me, Blues Mood e Minor Romp.

La prima session della grande orchestra riuniva nel gennaio del 1947 un cast da capogiro: nelle varie sezioni figuravano, tra gli altri, il trombonista Dickie Wells, il batterista Shadow Wilson, il baritonsassofonista Leo Parker e, fra le trombe, tre fuoriclasse come Joe Newman, Miles Davis e Fats Navarro. I brani, di grande interesse tuttora, furono pubblicati dalla Aladdin, una gloriosa etichetta discografica. Da allora fino ai primi anni Duemila Illinois Jacquet ha lavorato a intermittenza sia come solista sia come capo orchestra. Nella sua band non mancarono mai i nomi di rilievo: basti pensare che tra i membri vi furono personaggi dì spicco come Charles Mingus, J.J. Johnson, Sir Charles Thompson (col quale Illinois compose un famosissimo tema, Robbins’ Nest), Art Blakey, Oscar Moore, Cecil Payne, Roy Eldridge, Milt Buckner e altri, oltre a quelli già citati e al fratello Russell Jacquet.
La carriera direttoriale di Illinois Jacquet fu, ovviamente, condizionata dallo staio di salute che avevano le formazioni jazzistiche. Difatti, con l’esaurirsi del periodo d’oro delle grandi orchestre, sul finire degli anni Quaranta, il tenorsassofonista dovette ridurre progressivamente l’organico fino ad esibirsi con complessi di piccole dimensioni. A parte casi sporadici, come le sedute di registrazione, le ultime grandi orchestre guidate dal tenorsassofonista texano restarono per lungo tempo – fino all’inizio degli anni Ottanta – quelle attive agli inizi degli anni Cinquanta.
Come solista Illinois, che si era affermato negli anni del bop ma che non era mai stato toccato dal sacro fuoco della «rivoluzione», suonò a più riprese col Jazz at the Philharmonic. Fece parte, tra l’altro, del gruppo che nel 1947, alla Carnegie Hall, registrò una famosa versione di Perdido (famosa, peraltro, per l’assolo di un altro tenorsassofonista, l’italo-americano Flip Phillips). Il guaio fu che Jacquet, negli anni di maggior popolarità, chiedeva a Norman Granz un cachet ben più alto di quanto l’impresario potesse allora permettersi. Sicché fino al 1955 il sassofonista non fece più parte delle file del JATP, dove si era imposto per la sua magnetica personalità musicale. Quando vi fece ritorno dimostrò di essersi affrancato dai trucchi che lo avevano lanciato, e anzi mise in luce delle ottime qualità di balladeur (Tenderly). Questo suo progressivo spostamento verso canoni jazzistici più sostanziosi e meno plateali fu un po’ il segno che i tempi cambiavano, che l’epoca eroica dei sassofonisti e dei trombettisti al calor bianco stava decisamente tramontando. Il jazz aveva cessato di essere uno spettacolone per l’entusiasmo collettivo – sua caratteristica primaria negli anni dello Swing – e stava indirizzandosi verso forme più mature e consapevoli. Gli uomini del bop, con le loro bizzarre regole espressive, avevano voltato le spalle al pubblico: qualche volta lo facevano addirittura fisicamente.
L’immagine che Jacquet si era creato, quella dell’infuocato interprete di Flying Home, finì in parte per condizionarlo. Pur avendo affinato il suo stile, fino a diventare uno dei maggiori e più ortodossi esponenti della scuola classica del sax tenore, egli entrò nel novero dei sottovalutati, almeno fino ad una riscoperta avvenuta in epoca recente. Eppure la sua produzione concertistica e discografica dagli anni cinquanta in poi fu di tutto rispetto. Sono da ricordare, per esempio, certe sue sporadiche ma felicissime associazioni col grande trombettista Roy Eldridge, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei Sessanta. La sua abilità di solido e voluttuoso interprete di ballads ebbe modo di esprimersi in un disco registrato per la Argo nel 1964, dove il suo sassofono fu sostenuto da una grande orchestra e dagli accattivanti arrangiamenti di Benny Golson e di Tom Mclntosh. Infine, qualche volta tornò a suonare per brevissimi periodi con Lionel Hampton e, manco a dirlo, la loro ricerca del tempo perduto stazionò sempre su Flying Home. Intorno alla metà degli anni Sessanta, poi, quasi per un caso fortuito, Illinois Jacquet si ritrovò sulla pedana del Lennie’s-on-theTurnpike (un club di West Peabody, nei pressi di Boston) accanto all’organista Milt Buckner, che aveva conosciuto in seno all’orchestra di Lionel Hampton. L’organo aveva sempre affascinato Illinois, non per le tradizionali caratteristiche mistiche ma al contrario proprio per i suoi risvolti profani: al sassofonista piaceva l’organo carico di blues, quello che aveva attraversato il jazz per avere poi il suo approdo definitivo nel r&b. Così, nei suoi complessi aveva figurato spesso un organista (una volta fu addirittura Count Basie, che con quello strumento aveva una certa dimestichezza). Tra tutti, però, Milt Buckner tu quello col quale Jacquet trovò l’affiatamento maggiore. li loro complessino. riunitosi da allora innumerevoli volte, veniva generalmente completato da un terzo elemento, un batterista che spesso fu il glorioso Jo Jones.
Alla fine degli anni Sessanta Jacquet firmò un contratto con la casa discografica Prestige, per la quale poté effettuare tra il 1968 e il 1969 delle registrazioni di eccellente fattura (quattro album poi ristampati su cd negli anni Novanta – «Bottoms Up: Illinois Jacquet on Prestige», «The King!», «The Soul Explosion», «The Blues; That’s Me!» – con varie formazioni). Ripropose con più swing che mai l’antico The King, interpretò con calore alcuni pezzi lenti (You Left Me All Alone, Ghost of a Chance, Blue and Sentimental, suonò un amatissimo blues (After Hours), e addirittura si cimentò al fagotto in una bella versione del monkiano ‘Round Midnight.
La scoperta che Illinois Jacquet era un improvvisatore coi fiocchi la fecero le platee europee. Oltre Atlantico il sassofonista era venuto non molto spesso. Nel 1954 aveva partecipato con Sarah Vaughan e Coleman Hawkins a una tournée organizzata per i militari americani di stanza in Europa. Cinque anni dopo vi fece ritorno sotto l’egida del Jazz at the Philharmonic, e poi vi tornò ancora insieme con Milt Buckner grazie all’interessamento dell’anziano e discusso critico francese Hugues Panassié.
Negli anni Settanta Illinois divenne uno degli ospiti più assidui del Festival del jazz di Nizza. Qui il pubblico europeo scoprì in lui una musicalità e una verve che non avrebbe sospettato (o comunque che aveva dimenticato), tanto che il trionfatore del festival nel 1976 fu proprio lui. Nel 1983, poi, il sassofonista decise di rimettere in piedi la sua big band, che guiderà con notevole successo anche in un bel disco per la Atlantic («Jacquet’s Got It!» del 1988) con una curiosissima miscela di giovani leoni – Jon Faddis, Frank Lacy, Joey Cavaseno – di inossidabili veterani come Milt Hinton, Marshall Royal, Rudy Rutherford e di modernisti come Richard Wyands e Art Baron. E che Jacquet fosse oramai diventato un’istituzione nel mondo del jazz lo dimostrò, nel 1996, la pubblicazione di un magnifico cofanetto della Mosaic: quattro cd che comprendevano l’integrale (eccetto un brano inciso per la Aladdin che il sassofonista si rifiutò di far ristampare, ritenendolo di scarsa qualità) della sua produzione da leader dal 1945 al 1950, realizzata per un’infinità di etichette grandi e piccole dell’epoca (RCA Victor, Savoy, Philo, Aladdin, Apollo, Metro).
Nel 2013, poi, la benemerita Uptown ha pubblicato su cd la registrazione di un concerto tenuto a Toronto nel 1947 dalla band di Jacquet (qui ridotta a sette elementi invece dei consueti nove), che vedeva, oltre al fratello Russell, anche l’altro trombettista Joe Newman, Leo Parker al baritono, Sir Charles Thompson, al pianoforte, Al Lucas al contrabbasso e Shadow Wilson alla batteria. Oltre all’alta qualità della musica (con una Body and Soul particolarmente riuscita, che avrebbe fatto la sua bella figura anche nel nostro cd dello scorso mese dedicato al grande standard di Johnny Green) questo recupero è particolarmente importante perché costituisce l’unica registrazione dal vivo finora conosciuta di Leo Parker, musicista che avrebbe meritato sorte migliore.
Illinois Jacquet è scomparso a ottantun anni, per un infarto, il 22 luglio 2004. Anche se colse i suoi maggiori successi negli anni Quaranta, il suo stile tardo non rimandava più nettamente a quell’epoca eroica ma, pur conservandone molti stilemi, si collocava in un’altra dimensione, un po’ al di fuori dal tempo. In quella dimensione, per intenderci, nella quale si situano quei musicisti che – sordi tanto all’attualità quanto alla nostalgia – suonano per il solo piacere di esprimere il loro tranquillo mondo privato. Insomma, Illinois Jacquet è stato quel che si dice un jazzista di gran razza.