Il ritorno di Steve Lehman

Steve Lehman, fondamentale protagonista del jazz contemporaneo e recente vincitore del nostro Top Jazz con il disco realizzato assieme all’Orchestre National de Jazz, torna in Italia, e questa volta con il quartetto Sélébéyone. Sarà possibile ascoltarlo a Mantova il 24 maggio, a Torino il 25 e a Roma il 26. Di seguito, l’estratto di una lunga conversazione che uscirà in versione integrale su Musica Jazz.

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• Steve, dopo gli attimi riscontri ottenuti da «Ex Machina», vincitore dell’ultimo Top Jazz (categoria «Disco internazionale dell’anno»), nei prossimi giorni sarai in Italia con il quartetto Sélébéyone. Ne approfitto per chiederti se fra i tuoi gruppi ce n’è qualcuno che ha funzionato contro le tue aspettative.
Prima dell’ottetto mi mancava la capacità di dare un seguito ai dischi che in generale erano accolti davvero bene. Ripenso, a titolo di esempio, ad «Artificial Light», «Interface», «Manifold», «Demian as Posthuman». La risposta a «Travail, Transformation, and Flow», primo disco dell’ottetto, è stata ottima ovunque tranne che in Francia, a guardar bene. Nate Chinen, il critico del New York Times, e Ben Ratliff lo inserirono tra i loro dischi preferiti del 2009. Non riesco a quantificare quale sia stato il peso di quelle recensioni, ma di certo qualcosa cambiò. Cominciai a ricevere inviti dai grandi festival europei, suonammo al North Sea. Nel 2011 partimmo in tour.

Da quel disco in poi, l’interesse nei miei confronti è cambiato. Ma questo accadeva nel 2009: oggi la dinamica non è più la stessa. Che il tuo disco figuri o no nelle selezioni del New York Times influisce poco.

Qualche anno più tardi non sapevo cosa sarebbe successo con «Sélébéyone», inciso con il gruppo omonimo, eppure pubblico e addetti al settore si sono interessati subito. Quando uscì «Xaybu: the Unseen», avevo uno stato d’animo completamente diverso. Pensavo di aver fatto un lavoro migliore rispetto a «Sélébéyone», di aver osato di più. Ero impaziente. Invece il disco ricevette un’accoglienza freddina. Né jazz, né rap, dicevano. Qualcuno lo trovava troppo spinto. Ai miei colleghi, invece, è piaciuto parecchio.

Sono felice di fare parte di Sélébéyone, un gruppo dalla dinamica collettiva. Stiamo ancora ricevendo inviti dai festival a quasi due anni di distanza dall’uscita di «Xaybu». A volte le cose vanno in questo modo. Oltre alle date italiane di cui dicevi, questo mese suoniamo anche a Lisbona. Ho due agenti e un’ottima etichetta riconosciuta a livello internazionale, ma dietro di me non ho una squadra che martella a ogni uscita discografica. Probabilmente dovrei organizzarmi meglio, chi lo sa.

• Hai mai pensato di usare l’intelligenza artificiale con Sélébéyone?
Sto studiando la possibilità con il ricercatore Jérôme Nika, con cui collaboro dal 2016 – e con l’Ircam dal 2011. Jérôme è anche un appassionato di hip-hop e pure Fred Maurin dell’ONJ si interessa all’hip-hop. Abbiamo già provato con alcuni modelli e delle registrazioni di rapper a cappella. Per quello che ho visto, l’integrazione dell’intelligenza artificiale potrebbe rivelarsi stimolante. Dopodiché bisognerà vedere cosa ne pensano gli altri: Maciek, Priest e Gaston. Ne parleremo assieme.

• Hprizm/High Priest e Gaston Bandimic, i rapper di Sélébéyone, improvvisano dal vivo?
Qualche parola. In linea di massima si attengono ai testi, che sono tutti scritti. Ogni tanto c’è spazio per dei freestyle durante i bis. Lavorare con l’intelligenza artificiale può voler dire interazione in tempo reale, per esempio tra un testo scritto, cantato o parlato che sia, e un programma. Se uno fra Gaston e Priest altera la pronuncia di una parola, se la sussurra, se accentua delle sillabe, se modifica il timbro della voce, il programma può interagire all’istante.

Oppure, fuoriuscendo dall’interazione in tempo reale, si possono effettuare delle analisi, estrapolare delle modalità di reazione del programma e in seguito apportare delle leggere modifiche, dei montaggi, al fine di migliorale. Entrambe le vie sono percorribili e ce ne sono altre. Tutto dipende da come il programma in uso viene parametrato.

• Per fare in modo che il programma interagisca, occorre fornirgli un database, ovvero aiutarlo a costituire una propria memoria.
Una procedura delicata, perché va mantenuto un certo equilibrio. Se imponi alla macchina troppi vincoli, quegli stessi vincoli rischiano di ritorcersi contro di te, rischi di non lasciarti più sorprendere. Semplifico: per intuire come il programma interagirà con i musicisti, basta fornirgli qualcosa di familiare, che conosci bene. Non ci vuole tanto.

• Invece voi desiderate essere sorpresi?
Altrimenti potremmo fare a meno della parte informatica e arrivare da soli agli obbiettivi che ci siamo prefissati. Questi programmi reagiscono molto bene. Sono capaci di generare tantissimi suoni, anche suoni che non ci piacciono. E possono anche instaurare connessioni che non avremmo nemmeno immaginato. Subentrano questioni non da poco, quasi filosofiche. Dici bene: vogliamo essere sorpresi. Ma lo vogliamo davvero? Se la risposta è sì, in che modo e in quale misura? Siamo realmente disponibili, pronti ad accettare cose che si situano al di fuori del quadro estetico nel quale ci muoviamo?

Sono domande fondamentali dell’atto creativo. Io e Fred ci abbiamo riflettuto non poco. Raggiungere un punto di equilibrio è tutt’altro che facile. Ripensando al programma Dicy2, usato con l’ONJ, mi dico che probabilmente ho sorvegliato troppo da vicino i suoni che gli ho fornito. Sono andato quasi sul sicuro.

• È azzardato dire che da parte tua sussiste sempre la volontà di controllare la macchina?
Secondo me possiamo spingerci più in là di quanto fatto con «Ex Machina». Immagino che Fred e Jérôme sarebbero d’accordo. Mi vengono in mente le idee che ho incontrato per la prima volta con George Lewis. Lavorare a monte non è impossibile. Già nel momento in cui rifletti sul linguaggio di programmazione, possono sorgere preoccupazioni estetiche, puoi decidere quali aspetti e concetti compositivi privilegiare. Ciò implica che quando il programma si manifesterà come meglio crede, avremo già delle preoccupazioni artistiche in gioco. È alquanto complicato spiegare queste cose. George, un uomo di straordinario acume e intelligenza, ragiona così con i suoi programmi, io tento solo di allinearmi ai suoi principi.

Per quanto riguarda l’interazione fra uomo e macchina, George rappresenta di gran lunga la mia più grande influenza. Da Tristan Murail, con cui ho studiato per circa cinque anni, derivano alcuni concetti compositivi, e con buona probabilità Jackie McLean e Anthony Braxton sono i primi responsabili delle mie riflessioni sull’improvvisazione e le forme che la determinano. Prendo in prestito tantissimo da loro.

• Non so come il tema intelligenza artificiale venga affrontato negli Stati Uniti. Qui in Francia si è venuta a creare quasi una spaccatura. Da una parte giovani dal futuro incerto che nell’intelligenza artificiale vedono una chiave di volta generazionale – e anche uno strumento con cui sbarazzarsi, fra le tante cose, dell’apprendimento di stampo tradizionale. Dall’altra genitori e adulti ancora scossi dalla rivoluzione dei social e impauriti dall’arrivo di una nuova tecnologia. C’è chi teme scenari da Terminator…
Pur non avendo le competenze necessarie per trattare a dovere l’argomento, mi verrebbe da dire che sulle due sponde dell’Atlantico l’AI venga percepita nello stesso modo. Non ti nascondo che mi preoccupa, soprattutto se mi soffermo a rifletter sugli esiti nefasti che potrebbero derivare dall’associazione con i social: condizionamento negativo dell’individuo, esplosione incontrollabile della disinformazione con tutto quello che ne consegue… Potremmo continuare a lungo. L’AI è sofisticata e anaffettiva.

Sono meno spaventato quando la immagino applicata alle arti. Mi intrigano le potenzialità. La tecnologia è come il fuoco: il paragone tiene. Il fuoco, un elemento di incredibile utilità, va maneggiato con grande attenzione e responsabilità altrimenti rischiamo tutti quanti di bruciarci.

Luca Civelli

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