Hal Willner, We’ll Be Seeing You

di Pike Borsa

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Hal Willner Breeze Munson

«I’ll be seeing you» («Ci vediamo») era la frase con cui il visionario produttore scomparso il 7 aprile 2020, il giorno dopo aver compiuto 64 anni, usava chiudere le note di copertina dei suoi dischi. Lo ricordiamo con un articolo uscito nel marzo 2018 sul numero 808 di Musica Jazz, una lunga retrospettiva di quella che è stata un’unica e irripetibile carriera.

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New York, 1981. Con «The Man With The Horn», dopo un lungo silenzio, torna a farsi vivo Miles Davis. L’ultimo suo disco per la Columbia, che non fosse una raccolta di ritagli, risaliva a svariati anni prima. L’album di Davis arriva nei negozi a luglio e già a ottobre, dopo un’estate passata in giro a suonare, il trombettista è ospite a Saturday Night Live. A invitarlo alla trasmissione è il giovane e appena assunto Hal Willner. Il nuovo music coordinator del programma che, prima di Davis, ha già portato in studio Rod Stewart e i Kinks di Ray Davies. E il tutto nel giro di tre settimane. Davis arriva e suona JeanPierre. Poi saluta e se ne va. Sette giorni dopo, tocca già a Lee Ving con i Fear. Willner, classe 1956, non fa differenza tra jazz e punk. Ascolta qualsiasi cosa. Basta che sia buona, e poi a Saturday Night Live si fidano di lui. Tanto da affidargli l’incarico per 119 puntate; dopo di che, sarà lui ad andarsene.
Nato a Filadelfia, Willner è cresciuto ascoltando rock e dando una mano al papà che fa il pasticcere. A otto anni lo portano a vedere i Beatles. Uno dei pochi concerti di cui non ha dimenticato una nota. E dieci anni dopo si trasferisce a New York. S’iscrive all’università e una sera, girando per i locali dove si suona, s’imbatte in Joel Dorn. Un vecchio cliente di suo padre. Un ex dj di Philadelphia che ha sfondato come produttore. Nel 1974, quando si rivede con Willner, Dorn ha trentacinque anni e ha già lavorato con Roland Kirk, Yusef Lateef, Charles Mingus e Joe Zawinul. Non si è occupato solo di jazz ma anche di altro. Producendo Bette Midler, Don McLean e Roberta Flack. Vincendo pure un paio di Grammy. E, visto che a Willner piace la musica, lo prende sotto la sua ala. Portandoselo in studio e presentandogli la gente che conta. Così, ecco che si forma la coppia. Il maestro e il giovane allievo. Uno che impara in fretta. Bruciando le tappe e che, al fianco di Dorn, comincia la carriera. Producendo con lui un paio d’album di Leon Redbone. Uno dei personaggi più misteriosi della musica americana. Tanto che ancora oggi non si sa bene da dove sia arrivato. Il suo vero nome è forse Dickran Gobalian e, forse, viene dal Canada. Però, ad ascoltarlo, sembra che venga da molto più lontano. Gira sul piatto «On The Track» (1975), il suo primo disco, e si viene proiettati in un’America che ormai non c’è più. Quella scomparsa con la seconda guerra mondiale. Le canzoni sono di Irving Berlin, Lonnie Johnson, Hoagy Carmichael… e Redbone le suona e le canta come se quell’America ci fosse ancora. Ry Cooder, con «Jazz», arriverà tre anni più tardi, ma intanto Redbone gli apre la strada. Anche con «Double Time» (1977) e «Champagne Charlie» (1978): i due dischi che gli producono Dorn e Willner e dove la formula non cambia. Dell’ottimo jazz & blues d’antan, buono per chi se ne intende, ma difficile da vendere. Soprattutto nei giorni in cui c’è il punk che comanda. Però, intanto, questi due album servono a Willner per farsi le ossa e avvicinarsi di più al jazz. Anche se la musica non è ancora il suo lavoro. Ha l’università da finire. Qualche volta però, tra una lezione e l’altra, anche se non c’è qualcosa da produrre, un salto in studio da Dorn lo fa lo stesso. Tanto per vedere suonare assieme Yusef Lateef e Don McLean. O Roland Kirk con Bette Midler. «Era quello – avrebbe poi confessato – il lavoro che volevo fare: il produttore. E cominciai a pensare che un giorno, nello stesso disco, mi sarebbe piaciuto ascoltare Carla Bley e Debbie Harry». La cantante dei Blondie.


Passano gli anni e, sempre come associato, Willner torna al fianco di Dorn nel 1981. Per i Neville Brothers e il loro «Fiyo On The Bayou», uno dei dischi più belli degli anni Ottanta. Lo stesso anno, dopo quest’album e prima di cominciare a lavorare per Saturday Night Live, Willner realizza pure il suo sogno. Quello di mettere assieme Carla Bley e Debbie Harry. Cosa difficile, ma non impossibile, visto poi il risultato. Willner ha solo venticinque anni ma Dorn l’ha svezzato bene. Insegnandogli un lavoro e passandogli l’amore per il jazz. Gli ha pure fatto conoscere un sacco di musicisti e scoprire i film di Federico Fellini. Facendolo innamorare delle musiche di Nino Rota. Un giorno, allora, ecco che il giovanotto ha l’idea di rendere omaggio al compositore italiano riunendo, per l’occasione, un po’ degli amici che s’è fatto negli anni passati al fianco di Dorn. Così, per quello che poi diventerà «Amarcord Nino Rota», Willner chiama Gary Windo, Steve Lacy, Henry Threadgill, Ron Carter, i fratelli Marsalis, Jaki Byard e molti altri. E all’appello, di certo, non possono mancare le due signore: Bley & Harry. E, a questo punto, il sogno di Willner diventa realtà. Al disco collaborano più di quaranta musicisti, quasi tutti legati al jazz. All’ascolto di «Amarcord Nino Rota»si rimane a bocca aperta. È incredibile infatti come, nel giro di quattro anni e con solo tre produzioni in tasca, Willner abbia assimilato a dovere la lezione di Dorn, riuscendo a far girare tutto alla perfezione. Rimanendo fedele alla musica di Rota ma, allo stesso tempo, rivoltandola come un calzino. Il successo del disco è tale che il mercato discografico verrà sommerso da una vera e propria valanga di album-omaggio. Alcuni belli, altri brutti o, peggio ancora, inutili.


Willner, intanto, viene assunto dalla NBC per Saturday Night Live. E la sua vita prende, di colpo, un’altra accelerata. Sul set conosce Eddie Murphy, i fratelli Belushi, Billy Crystal, Ben Stiller. Il meglio della comicità di quegli anni. E davanti alle telecamere porta i Kinks, Miles Davis, Randy Newman, Leon Redbone, Joe Jackson… Però rimane sempre un produttore di dischi, anche se bisogna aspettare il 1984. Ed è ancora un capolavoro, questa volta dedicato a Thelonious Monk: «That’s The Way I Feel Now». Alla radio e nei negozi, la moda dei dischi-omaggio funziona bene. Solo che Willner non cavalca l’onda bensì la precede. Com’è accaduto con «Amarcord Nino Rota». «That’s The Way» suona già in maniera diversa, mischia jazzisti e rocker ma tutti con un debole per Monk. Da Gary Windo agli NRBQ. Da Steve Lacy a Donald Fagen degli Steely Dan. Passando per Carla Bley, Joe Jackson, Charlie Rouse, Peter Frampton e Gil Evans. Monk se n’è appena andato ma alla musica manca già parecchio. Anche a Dr. John e ai Was (Not Was) che, al disco, partecipano con Blue Monk, Bye-Ya e Ba-Lue Bolivar Ba-Lues-Are. Il doppio album è composto da 23 brani e ad aprire le danze è Thelonious nella versione di Bruce Fowler, trombonista per Frank Zappa e Captain Beefheart. E da lì in poi si ascolta un po’ di tutto. Senza mai un attimo di noia. Difficile dire se sia jazz oppure rock. Di sicuro è musica che trascende ogni unità di misura spazio-temporale. Come quando Joe Jackson ci dà la sua versione di ‘Round Midnight. O Gary Windo e Todd Rundgren suonano assieme Four in One. È, insomma, musica senza barriere. Pure quando a suonarla sono Peter Frampton e gli NRBQ. Senza mai tradire lo spirito di Monk. Quello, infatti, rimane vivo e intatto. Per tutta la durata del disco. «Più che il produttore – avrebbe poi detto Willner – mi sentivo il portavoce di Monk. Ero lì per far capire che non era stato solo un grande jazzista, ma anche uno dei più importanti compositori di tutti i tempi». E, su questo, oltre a Willner, sono d’accordo i musicisti che suonano nel disco. «Album che – confessa Willner – avrei voluto trovarmi in mano quando avevo quindici anni. Con tutto questo jazz e rock, messi assieme, che allora potevi trovare solo nei lavori di gente come Zappa e Miles Davis».
Il successo di «That’s The Way…» porta da lì a poco Willner a produrre un nuovo disco-omaggio. Sempre per la A&M e questa volta dedicato a Kurt Weill, il compositore tedesco cresciuto con la musica sinagogale e poi passato alla classica prima di dedicarsi al teatro e al musical. Senza mai mettere anche lui, come Willner, barriere alla musica. Si osa di meno, rispetto all’omaggio a Monk, ma «Lost In The Stars» (1985) è pur sempre un disco memorabile. Nella versione in cd, poi, vengono aggiunti anche quattro brani che erano rimasti fuori. Dodici anni dopo, Willner tornerà ad occuparsi di Weill, producendo «September Songs» (1997), colonna sonora dell’omonima pellicola di Larry Weinstein, girata in occasione dei settant’anni dell’Opera da tre soldi, il lavoro teatrale di Bertolt Brecht con le musiche di Weill. E nel film, come poi nel nuovo disco, ci saranno lo scrittore William Burroughs, Lou Reed, Elvis Costello, Charlie Haden, Nick Cave, Betty Carter… ma «Lost In The Stars» è già tutt’altra cosa. Qui, infatti, Willner si muove molto più liberamente. Permettendosi d’infilare, in uno stesso pezzo, Richard Butler (cantante degli Psychedelic Furs) e Bob Dorough (il cantautore-pianista che aveva collaborato anche con Miles Davis e Buddy Banks). Gli altri ospiti, anche questa volta, non sono da meno. Ci sono Sting e Stan Ridgway, Marianne Faithfull e i fratelli Fowler, Charlie Haden e Tom Waits, Van Dyke Parks e Dagmar Krause, John Zorn e Lou Reed… Eppure, qualcosa non gira come dovrebbe. Sembra che non tutti se la sentano di rischiare. La maggior parte dei pezzi sono solo dei compitini fatti bene. Belli e piacevoli da sentire, ma senza alcuna scossa. Come, invece, ci si aspetterebbe. Il disco, comunque, si ascolta volentieri.


Poi Willner, per qualche anno, non si dedica più ai dischi-omaggio e lavora conto terzi: al suo talento si affidano Marianne Faithfull, ancora Gary Windo e Lenny Pickett: l’uomo che, una volta alla settimana, dirige in studio la Saturday Night Live Band. E poi, a bussare alla porta di Willner c’è pure Hollywood. Per la colonna sonora di qualche film da botteghino (come il secondo capitolo di Arthur, con Dudley Moore) ma anche per pellicole d’essai, come Candy Mountain (1987) di Robert Frank, con attori Tom Waits, Leon Redbone, Joe Strummer e Dr. John. Tutti vecchi o nuovi amici di Willner. Come quelli che incontra poi, come music producer, anche sul set di Heavy Petting, l’età degli amori (1989). Un divertente documentario commentato da gente come David Byrne, Lou Reed, Laurie Anderson, Allen Ginsberg e William Burroughs.
Intanto, lasciato SNL, Willner collabora per qualche tempo a Night Music. Programma televisivo sempre della NBC e condotto da Jools Holland e David Sanborn. Anche qui Willner si occupa della musica del programma che, in due stagioni, prima di chiudere i battenti, porta in tv Dr. John, Randy Newman, Slim Gaillard, John Cale, gli NRBQ, Mavis Staples, Miles Davis, John Zorn… Facendo cantare e suonare assieme artisti diversi. Come Leonard Cohen con Sonny Rollins e Nick Cave con Charlie Haden e Toots Thielemans. Ancora una volta, musica senza paletti. Nel 1989, chiusa la breve parentesi del Sunday Night, Willner torna a produrre dischi. Ben due, nel giro di pochi mesi: «Each Man Kills The Thing He Loves» di Gavin Friday (con Bill Frisell) e «I Passed For Human» di Mark Bingham. Album molto diversi tra loro ma dove si sente comunque la sua mano. Poco prima, però, Willner trova anche il tempo per «Stay Awake. Various Interpretations of Music Vintage Disney Films» (1988). Un nuovo disco-omaggio. Undici brani (ma in realtà sono molti di più!) da alcuni celebri film d’animazione della Disney. Rivisti e corretti, ancora una volta, dal jazz e dal rock. E quella per i cartoni animati è una vecchia passione di Willner. Anche stavolta Willner invita in studio un bel po’ di gente: i Los Lobos, Michael Stipe dei REM, Tom Waits, Bill Frisell, la Sun Ra Arkestra, Lennie Niehaus, Aaron Neville, Ringo Starr, Was (Not Was)… Mescolando di nuovo il jazz col rock. Come, anni prima, gli ha insegnato a fare Joel Dorn. Così ecco le canzoni, riviste e corrette, di Stay Awake. E per fortuna che qui, rispetto a Lost in the Stars, si rischia di più. Ecco allora una travolgente I Wan’na Be Like You (da Il libro della giungla) e una spettrale Heigh Ho (da Biancaneve e i sette nani). Gli altri brani non sono da meno. Ci si diverte fin dall’inizio, sulle note di Hi Deedle Dee Dee (con Frisell e Horvitz che accompagnano la celebre voce di Ken Nordine), e senza alcun scivolone si arriva alla fine. Con Ringo Starr e Herb Alpert e la loro versione di When You Wish Upon A Star. Molte le recensioni positive e l’album vende bene. Tanto che, l’anno dopo, Willner non molla l’osso e si occupa ancora di cartoni animati. Curando, questa volta, «The Carl Stalling Project: Music From Warner Bros. Cartoons 1936-58». Il primo volume di una ricca antologia dedicata a Stalling, l’uomo che, con la sua musica senza barriere, ha contribuito e non poco al successo dei cartoni della Warner.


Pochi mesi ancora e, per Willner, è già tempo di «Weird Nightmare. Meditations On Mingus» (1992), il suo nuovo album-omaggio. Questa volta dedicato a Charles Mingus. Più o meno in quegli stessi giorni, intanto, anche Ray Davies dei Kinks saluta il grande compositore e musicista girando un documentario che, neanche a farlo apposta, intitola pure lui Weird Nightmare. Proprio come il celebre brano scritto e composto da Mingus alla fine degli anni Trenta e poi inciso una prima volta nel 1946, con la voce di Claude Trenier. Per il suo film, Davies si avvale della collaborazione della famiglia Mingus e di Nat Hentoff. E poi di Geri Allen, Don Byron, dei due Stones Keith Richards e Charlie Watts e dello stesso Willner. Che intanto, per il suo omaggio a Mingus, si è già organizzato per conto suo. Chiamando, anche lui, un folto gruppo di cantanti e musicisti. Alcuni, (come Elvis Costello, Marc Ribot, Charlie Watts, Henry Threadgill, Bill Frisell…), si vedono e si ascoltano pure nella pellicola di Davies. Altri, invece, vengono arruolati da Willner giusto per l’occasione. Ecco allora Dr. John, Robbie Robertson della Band, Bobby Previte, Leonard Cohen e lo scrittore Hubert Selby jr. Già, perché Mingus non è solo un musicista. Ha pure scritto, e molto. Non solo Peggio di un bastardo, la sua autobiografia, ma anche poesie – come ricorda Krin Gabbard – e poi lettere, manifesti, note di copertina e parole per canzoni. Così Willner fa leggere a Selby i versi di The Shoes Of The Fisherman’s Wife Are Some Jive Ass Slippers e a Cohen quelli di Chill Of Death, prima di passare a Bill Frisell, Don Alias e Robert Quine e alla loro versione di Pithecanthropus Erectus. Ancora due brani e poi, finito il disco, si ha la certezza che, anche con questo omaggio a Mingus, Willner abbia fatto centro. E senza, questa volta, farci suonare dentro del rock.


Dopo l’omaggio a Mingus, Willner torna a produrre dischi. Per vecchi e nuovi amici: William Burroughs, Allen Ginsberg, i Los Lobos, i Jazz Passengers… E a dedicarsi al cinema. C’è infatti Robert Altman che lo chiama per la colonna sonora di America oggi (1993) e Willner risponde all’istante. Presentandosi al regista con un gruppo di jazzisti (Anthony Coleman, Greg Cohen, Steven Bernstein…) ai quali fa suonare canzoni firmate da Bono e The Edge, Doc Pomus e Dr. John, Elvis Costello e Cait O’Riordan, Iggy Pop e Terry Adams degli NRBQ… Divertendosi così, ancora una volta, a mischiare i generi. Per cantare il tutto, s’affida invece alla voce di Annie Ross. Lontana ormai anni luce, (come già si era sentito in «Stay Awake»), da quando si esibiva ancora con Dave Lambert e Jon Hendricks. E il risultato è una colonna sonora piena di jazz notturno. Intimo e raccolto. Da piccoli locali, con le luci abbassate.


Tempo tre anni e Willner torna a lavorare con Altman. Questa volta per Kansas City. Un gangster movie ambientato nel 1934 e che si svolge non solo in città, ma anche all’interno dell’Hey Hey Club dove, ogni notte, si suona jazz. Così, ecco salire sul palco del locale Mary Lou Williams (interpretata da Geri Allen), Count Basie (Cyrus Chestnut), Lester Young (Joshua Redman), Ben Webster (James Carter), Coleman Hawkins (Craig Handy), Herschel Evans (David Murray), Freddie Green (Mark Whitfield)… Per la colonna sonora del film, Willner sceglie musiche e musicisti, permettendosi anche qualche libertà storica. E poi, dopo Kansas City, torna a produrre dischi. Passando dal rock delle Hole al jazz della Kansas City Band, gruppo formato dai musicisti che hanno suonato nel film di Altman. Poi, alla fine del 1997, eccolo arrivare con «Closed On Account Of Rabies. Poems And Tales Of Edgar Allan Poe», il suo nuovo album-omaggio. Dedicato, in questa occasione, non a un musicista ma a uno scrittore. Di conseguenza a far la parte del leone sono le parole, mentre la musica rimane in sottofondo. A leggere le poesie e i racconti di Poe, Willner chiama attori di nome (Chistopher Walken e Gabriel Byrne), un regista (Abel Ferrara), un poeta (Ed Sanders) e cantanti ben conosciuti (Debbie Harry, Dr. John, Jeff Buckley, Gavin Friday…), ma il risultato non cambia. L’album, un vero e proprio spoken word, non scalda abbastanza. Non prende. Anzi annoia un po’, e già dopo il primo ascolto ti costringe a passare ad altro.


Tempo un anno, comunque, e con «Whoops, I’m An Indian», Willner pubblica il primo album a suo nome, cogliendo tutti di sorpresa. Con l’aiuto di Howie B. (musicista, discografico e produttore di U2, Björk e Robbie Robertson), Willner non fa che raccogliere e mettere su disco i suoni e le voci di quasi un secolo d’America come se stesse girando, ai suoi giorni, la manopola di una vecchia radio. Catturando così, dall’etere, tutto ciò che c’è stato, per mischiarlo ai suoni del presente. Registrato tra New York e Cotati, il disco mette assieme musica e cinema. Come quando, in Do You Hear Me?, si sente la voce del regista e attore Jack Webb (1920-1982), il primo marito di Julie London che, con la moglie, condivideva la stessa passione per il jazz e il canto. In «Whoops…» non si sente suonare solo Hollywood, ma anche la musica di New Orleans, di New York e dei Native Americans… Il tutto condito in salsa trip-hop e techno, con un risultato che ha dell’incredibile. Da chi ha partorito «Amarcord Nino Rota» e «That’s The Way I Feel Now» non ci si aspetta di certo un disco del genere.
Passa qualche anno e, con l’inizio del nuovo secolo, Willner torna ai suoi lavori di produzione (Lou Reed, Gregory Corso, Marianne Faithfull…) e di colonne sonore per il cinema (The Million Dollar Hotel, Gangs f New York). Però come musicista, tra un lavoro e l’altro, trova anche il tempo di collaborare a «Bird Up. The Charlie Parker Remix Project» (2003). Album prodotto da Matthew Bracker che affida il remixaggio di alcuni brani di Parker a musicisti come Dr. John, Kronos Quartet, Serj Tankian, RZA, Garth Hudson della Band, Ravi Coltrane… Nel 2003, prodotta da Willner, arriva nei negozi anche «Stormy Weather», la colonna sonora dell’omonimo film che Larry Weinstein ha appena dedicato a Harold Arlen (1905-86): autore di Over The Rainbow e di altre centinaia di canzoni. A questo lavoro, fra i tanti, partecipano pure Debbie Harry, David Johansen, Eric Mingus e Rufus Wainwright. Tutti alle prese con una o più canzoni di Arlen. Solo che essendo una colonna sonora, e in più su commissione, non è proprio un tribute album. Uno di quelli cui Willner ci ha abituato. Di questi, per averne ancora uno, bisogna aspettare l’agosto del 2006. Quando, quasi dieci anni dopo il suo omaggio a Poe, Willner rispunta fuori con «Rogue’s Gallery. Pirate Ballads, Sea Songs and Chanteys». Album prodotto assieme a Gore Verbinski e Johny Depp, ovvero il regista e l’interprete del primo e del secondo capitolo (appena arrivato nei cinema) della fortunata serie dei Pirati dei Caraibi. Qui Willner ci stupisce ancora, andando a riscoprire le vecchie canzoni dei marinai. E, con una settantina di queste, si presenta a casa di Bill Frisell, spiegandogli il progetto e trovando l’amico pronto ad aiutarlo. Scremati i pezzi, ne rimangono poco più di quaranta su cui lavorare e, almeno per alcuni nomi, Frisell collabora pure a trovare chi li possa interpretare. Facendo i nomi di Wayne Horvitz e della Akron Family. Il resto viene da sé e così, al progetto, si aggiungono vecchi e nuovi amici di Willner. Come Stan Ridgway, Bono, Gavin Friday, Nick Cave, Tom Waits, Brian Ferry dei Roxy Music. E poi ancora Sting, Richard Thompson, Bob Neuwirth, Van Dyke Parks, Antony e Lou Reed. Così, ancora una volta, anche per Rogue’s Gallery, Willner mette assieme cantanti e musicisti di generi diversi. Come dire che la musica è una soltanto. Basta che sia buona. E qui di bontà ce n’è tanta. Fin da Baby Gramps che apre le danze con la sua versione di Cape Cod Girls, facendoci sentire la voce delle onde. Seguito da Richard Thompson, con la sua versione di Mingualy Boat Song, una canzone degli anni Trenta. Si ascolta il resto dell’album e sembra di navigare con i marinai. Sono tutte musiche e canzoni senza tempo. Senza alcuna data di scadenza. Storie di uomini che si mettono in mare per vivere o sopravvivere. Perché a casa, ormai, non ci possono più stare.
Dopo qualche mese, Willner colpisce ancora: ecco «The Harry Smith Project: Anthology Of American Folk Music Revisited». Un altro tribute album. Questa volta dedicato a Harry Smith (1923–1991) e alla sua celebre raccolta delle canzoni country, folk e blues incise tra il 1927 e il 1933. Dopo averne scelte ottantaquattro, dalla sua personale collezione di vecchi 78 giri, Smith le aveva pubblicate come «Anthology Of American Folk Music». Sei dischi, usciti nel 1952 per la Folkways, e che poi erano diventati una sorta di bibbia per Bob Dylan, Dave Van Ronk e Jerry Garcia. Per la sua antologia, Willner non fa che riordinare e selezionare il materiale delle serate che, tra il 1999 e il 2001, ha organizzato in onore di Smith. Invitando sul palco artisti jazz, pop e rock a suonare e cantare quelle vecchie canzoni che, mezzo secolo prima, Smith aveva antologizzato per la Folkways. Così ecco che, ancora una volta, Willner mischia le carte in tavola riunendo, anche qui, gli artisti più disparati: Nick Cave, Bill Frisell, Beck, Roswell Rudd, i Sonic Youth, Don Byron, Elvis Costello, Eric Mingus, David Johansen, Van Dyke Parks, Lou Reed… Basta che a suonare sia sempre la buona musica. Come in questo caso. Ecco allora che canzoni come The Coo Coo Bird, John The Revelator o Spike Driver Blues riprendono improvvisamente vita senza dimostrare l’età che hanno. Col risultato che, a sentirle adesso, sembrano scritte il giorno prima. Come a dire che alle cose belle sul serio non vengono mai le rughe. Lo testimonia anche No Depression In Heaven, nella versione di Garth e Maud Hudson. Oppure Oh Death Where Is Thy Sting? rifatta da Eric Mingus e Gary Lucas. Willner, comunque, non usa tutte le canzoni della «Anthology Of American Folk Music». Ne prende solo una trentina. Che, però, bastano e avanzano per fare di «The Harry Smith Project» un album ai livelli di «That’s The Way» e «Weird Nightmare». Intanto, però, nell’aggiungere un altro tassello alla sua storia della musica americana, Willner collabora, come music producer, alla realizzazione di tre documentari: Leonard Cohen. I’m Your Man (2006), Berlin (2007, con Lou Reed, «il Miles Davis del rock», che nel 2006 suona dal vivo il suo album del 1973) e Chelsea On The Rocks (2008, con la regia di Abel Ferrara, che racconta la storia del celebre Chelsea Hotel e di alcuni suoi famosi ospiti).


Ma il Nostro ha ancora tanta musica da produrre. Quella di vecchi amici, per esempio, come Lou Reed, Terry Adams, Bill Frisell e Marianne Faithfull. Tutta gente con cui da tempo ha formato una famiglia. Ecco infatti che, nel 2013, pubblica il suo nuovo tribute album. Agitando ancora le acque dei Pirati dei Caraibi che, due anni prima, sono tornati al cinema con Oltre i confini del mare: il quarto capitolo della saga dedicata a Jack Sparrow. Così abbiamo «Son Of Rogue’s Gallery: Pirate Ballads, Sea Songs & Chanteys». Il figlio, che nessuno s’aspetta, di quel «Rogue’s Gallery» uscito nel 2006, anche perché adesso non c’è alcun film cui agganciarsi per avere un traino. «Son Of Rogue’s Gallery» è un fulmine a ciel sereno. Sette anni prima, dicevamo, Willner s’era presentato da Frisell con settanta canzoni per «Rogue’s Gallery», e i due ne avevano scelte quaranta. Molte delle trenta rimaste fuori vengono adesso recuperate per questo secondo volume dedicato ai pirati e alla vita sul mare. Le altre canzoni, invece, portano la firma di autori noti. Come Chuck E. Weiss, Dave Van Ronk, Patti Smith e George Harrison (sua è Sunshine Life For Me, qui nella versione di Petra Haden e Lenny Pickett). E c’è pure Frank Zappa con Wedding Dress Song / Handsome Cabin Boy, una vecchia registrazione degli anni Sessanta. Come sempre, anche per quest’occasione, Willner si circonda di amici vecchi e nuovi. Così ecco i soliti Tom Waits, Nick Cave, Dr. John e Gavin Friday. E poi Shane McGowan, Todd Rundgren, Marianne Faithfull, Iggy Pop, Michael Gira, Terry Edwards, Greg Cohen… E di questo formidabile equipaggio fanno pure parte due attori: Anjelica Huston e Tim Robbins (al quale, nel 2010, Willner ha prodotto il primo disco come cantante: «Tim Robbins and the Rogues Gallery Band»). Anche se ormai un album dedicato al mare e ai pirati non è più una novità, Willner riesce comunque a stupirci anche con «Son Of Rogue’s Gallery». Dove l’unico punto debole sono, forse, solo un paio di canzoni, ma tutto il resto è gioia per le orecchie.
E come sempre, dopo ogni tribute album, Willner se ne torna a lavorare per il cinema, come music producer ma, questa volta, anche e soprattutto per la tv. Senza smettere, logicamente, di produrre ancora dischi. Per Billy Martin e Laurie Anderson, stavolta. O a curare antologie celebrative e spettacoli per ricordare chi ormai non c’è più. Come il suo amico Lou Reed, scomparso nel 2013. Voci di corridoio, comunque, dicono che non si sia ancora stancato di produrre tribute albums e che ne abbia uno, già quasi pronto, dedicato a Marc Bolan e ai suoi T. Rex.
Così, arrivati a questo punto, non ci resta che attendere incrociando le dita.
Pike Borsa