Gato Barbieri: 1964, in attesa del paradiso

Andrea Polinelli, sassofonista, compositore, didatta, ricercatore e traduttore, pubblica per Artdigiland una corposa monografia dedicata a Gato Barbieri, frutto di un lavoro durato oltre cinque anni (Gato Barbieri. Una biografia dall’Italia, tra jazz, pop e cinema). Su gentile concessione di autore ed editore ne riportiamo un estratto, consci che l’opera possa offrire, oltre alla capillare indagine sul sassofonista, sostanzialmente senza precedenti né paragoni, un argomento di riflessione sulle evoluzioni odierne della «nostra» musica.

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La figura di Leandro Barbieri, per tutti «Gato», sassofonista argentino di origini italiane – e dall’Italia decollato, negli anni Sessanta, verso una carriera di rilievo internazionale – ha rappresentato una sorta di ponte tra le musiche popolari del Sud delle Americhe e la tradizione africana-americana, tra panafricanismo e panamericanismo, tra mainstream e free. Questi argomenti hanno infiammato anni che ormai paiono remoti, ma oggi, a conti fatti, rischiano di essere dimenticati. Ciò avviene, paradossalmente, in un momento in cui lo stesso terreno che fu dissodato da Barbieri negli anni Settanta appare più fertile, ora che un melting pot che fu largamente raccontato, spesso in modo strumentale e in una misura ampiamente eccedente il dato reale, sta esplodendo in modo irrefrenabile, sospinto anche da una logica di «nuovo meticciato culturale» (l’espressione è di Gianni Gualberto), che opera in modo inverso. La constatazione di questo paventato oblio prende corpo anche nel rilevare come l’opera in commento sia sostanzialmente la prima ad occuparsi del sassofonista argentino (va segnalata soltanto quella di Sergio Alejandro Pujol, Gato Barbieri. Un sonido para el tercer mundo, che per una singolare circostanza è stata scritta e pubblicata in parallelo a questa).

Il libro di Polinelli, intanto, rivela anche al primo sommario esame un impianto sostanzialmente «accademico» (le virgolette non vogliono sminuire il senso dell’aggettivo, ma esclusivamente evidenziare come l’articolata struttura dell’opera non vada a discapito della sua agile leggibilità): la messe documentale utilizzata e puntualmente riscontrata risponde a un metodo di tipo storico, ed è encomiabile – tanto più in quanto niente affatto frequente in opere di argomento musicale, almeno in lingua italiana – la cura con la quale tutti i materiali vengono intrecciati tra di loro. Il reticolo che così viene a crearsi offre al lettore una sensazione di familiarità, sia per la ricreazione di ambienti ideali, tutti ben descritti, sia per lo spunto di coralità che ne discende, il quale consente di cogliere il dipanarsi delle vicende nel tempo, nella loro sequenzialità, anche grazie a una struttura narrativa che opera per cicli, con riprese e sovrapposizioni sempre ben gestite. Questa coralità, di cui si diceva, risente anche positivamente degli stralci di intervista riportati nel testo, che tuttavia sono utilizzati molto abilmente, non suscitando mai la sensazione che l’Autore abbandoni il proprio ruolo e il proprio punto di vista, trasformando la storia nel racconto di una «cerchia». Insomma: le piccole storie narrate non vanno mai a discapito della grande Storia che le contiene.

Tutte queste circostanze agiscono assai positivamente sulla lettura, che risulta sempre piacevole, cosa niente affatto scontata nelle biografie, specie se di argomento musicale. La parabola artistica di Barbieri viene così esaminata nella sua interezza, attraversando i periodi, i luoghi, le persone e soprattutto la musica che l’hanno punteggiata. Assai opportunamente viene dedicata una riflessione ampia ed articolata al rapporto del sassofonista con il cinema (meritevole di citazione il tratteggio puntuale della grande personalità di Gianni Amico), da intendersi anche come indagine sulla sua attitudine alla «narrazione», in termini musicali e di trasferimento emotivo. La figura del musicista emerge così, alla fine della lettura, nella sua mantenuta integrità artistica e di suono, pur nella varie fasi di una lunga carriera.

La riflessione su di lui può essere particolarmente importante proprio perché i problemi stilistici che egli si trovò ad affrontare (la devozione iniziale a dei modelli «puristi», in qualche modo subiti, il passaggio attraverso una fase liberatoria con l’attraversamento del movimento free, l’acquisizione di una precisa coscienza identitaria e l’esercizio, di ritorno, di una enorme influenza quasi a rovesciare quei modelli di partenza), sono tuttora attuali e forse oggi persino di più, pur se in una temperie apparentemente meno fiammeggiante, mancando non tanto l’effettività di tale influsso, quanto la sua piena consapevolezza in una parte del pubblico.

Per questo l’opera va ampiamente lodata, non soltanto perché colma una lacuna obiettiva, ma perché può fungere da punto di partenza per considerazioni più ampie. Da elogiare la ricchezza delle appendici, ove trovano spazio oltre che indici accurati e precise indicazioni bibliografiche, discografiche e cinematografiche, anche undici trascrizioni di brani di Barbieri per sassofono tenore, che saranno di certo molto preziose per i lettori musicisti. Un plauso particolare, infine, va ad Artdigiland, sia per la cura estrema dell’edizione – che si colloca entro un catalogo vasto e stimolante, anche se per altri campi di interesse, ma che auspichiamo possa ulteriormente allargarsi verso la musica – sia, e soprattutto, per il coraggio dimostrato nel sostenere l’opera. 

Meo Patacca e il Purgatorio 

«Nel 1964 entrai per la prima volta in un jazz club. Era in Trastevere e si chiamava Il Purgatorio. Il locale non era altro che una grande sala che si trovava sotto al ristorante Meo Patacca, ne faceva parte integrante, e il proprietario aveva deciso di adibirla a jazz club. Era una domenica pomeriggio di dicembre. Appena entrai nel locale fui subito catturato da quella musica: il jazz. L’avevo amato alla radio, ma adesso l’ascoltavo dal vivo suonato da favolosi musicisti! Erano Gato Barbieri, Enrico Rava, Franco D’Andrea, Gianni Foccià e Gegè Munari. Quell’incontro fu una vera e propria folgorazione e, grazie anche a quei musicisti, in quel periodo partirà tutto il mio cammino fatto nel jazz» (). 

Franco D’Andrea ci guida nel ripercorrere gli inizi del Purgatorio: «La cosa curiosa è che l’idea del Purgatorio originò a Torino perché furono Franco Mondini ed Enrico Rava che, venuti a Roma per vedere cosa si potesse fare, conobbero i fratelli Olmsted che gestivano un bel ristorante a Trastevere. Uno dei due fratelli era innamorato della musica lirica e del jazz non gliene importava proprio niente. L’altro invece, Remington, era incredibilmente propenso a fare qualcosa col jazz e si dimostrò favorevole ad ampliare con questa musica l’attività del ristorante già ben avviato» (). 

28 Aprile 1987: Cristallo. Gato Barbieri © Paola Bensi

Remington 

Remington Olmsted (Los Angeles 1913 – Roma 2002), in gioventù anche ballerino e giocatore di football americano, oltre a essere ricordato come gestore del Meo Patacca, ristorante tuttora attivo, è stato anche attore in diversi film italiani di quel periodo. Tra questi: La nipote Sabella, regia di Giorgio Bianchi, del 1958, accanto a Peppino De Filippo, nel quale recita la parte di un cercatore di petrolio, e Il giudizio universale di Vittorio De Sica, del 1961, dove viene accreditato come Holmsted, con la H. Nota è la sua presenza nel film di William Wyler Ben-Hur del 1960, nel quale recita la parte di una guardia romana che rifiuta da bere al protagonista Ben-Hur. Ancora oggi, per chi si reca al ristorante Meo Patacca, è visibile una targa a lui dedicata che recita: A Trastevere in questo edificio egli fu uomo geniale e studioso dalle ardenti passioni morali e civili, signore dell’arte. Nel suo ristorante, su richiesta, un cameriere, fiero di fare da guida, conduce i commensali a visitare «la cave», il locale sottostante. Sulla soglia della scala che scende c’è ancora la scritta: Qui si fa il jazz. 

L’avventura inizia 

Rava e Mondini riescono dunque a convincere Olmsted a ingaggiare loro come organizzatori di un gruppo e in una settimana l’americano apre la sala: uno spazio rettangolare, ampio, con grandi panche e tavoli di legno scuro. In fondo alla sala è presente un forno in mattoni per le pizze e sul lato opposto è sito il palco, ben elevato con una ringhiera in ferro dai ricci sui montanti, ancora oggi in loco e visibile nelle foto d’epoca. Continua D’Andrea: «Enrico mi interpellò subito per fare da pianista e, oltre naturalmente a Gato al sax e Franco alla batteria, venne chiamato al basso Gianni Foccià. Così decollò tutta la faccenda. Mondini però si allontanò presto da Roma e alla batteria subentrò Gegè Munari» (). Infatti Mondini lascia il Meo Patacca dopo un mese per tornare in Belgio a suonare accanto al saxofonista Jacques Pelzer. Al quintetto si affianca la vocalist Gianfranca Montedoro, moglie di Umberto Santucci. 

A proposito di Gianni Foccià, ecco cosa ci racconta Cicci Santucci: «I Foccià erano due fratelli: Gianni suonava il basso e suo fratello la chitarra. Appartenevano a una specie di sottobosco di musicisti e suonavano spesso insieme. Fecero pure parte del gruppo di Harold Bradley al Folkstudio. Il problema di Gianni, e glielo dicevamo scherzando perché eravamo molto amici, era che, essendo esile e magro, non aveva quella forza che serve per suonare il contrabbasso, per cui dopo un po’ si stancava» (). E ricorda D’Andrea: «Gianni era un buon bassista, ma, cosa un po’ particolare, ogni tanto si addormentava suonando! Il fatto è che era talmente rilassato che sembrava appisolarsi appoggiandosi al pianoforte. Al Purgatorio avevo un pianoforte bianco, bellissimo, semovente su delle ruote. Così, quando Gianni vi si appoggiava, lo strumento mi veniva contro e la tastiera mi schiacciava la pancia. Gridavo: “Fermati, Gianni!” e allora lui si risvegliava, si tirava su e riprendeva a suonare! Insomma era una situazione piuttosto comica […]. Un periodo venne Giovanni Tommaso a sostituire Gianni, ma il quintetto base rimase quello con Foccià. L’ingaggio durò dall’autunno del 1964 fino ad aprile-maggio dell’anno dopo» (). 

8 Marzo 1986, Milano: Ciack. Gato Barbieri © Paola Bensi

Il repertorio del gruppo è incentrato su quello del quintetto Davis-Coltrane, anche come chiave di rilettura di Parker, e i musicisti si esprimono con uno swing à la page. Volano brani come Stella by Starlight, Milestones, Ah-Leu-Cha, So What e All Blues, tanto per nominarne alcuni. Gato spende senza riserve la sua esperienza a vantaggio dei giovani amici italiani del gruppo. In innumerevoli occasioni Enrico Rava ha infatti affermato che quel periodo con Gato ha rappresentato, per lui e per tutti gli altri, una vera «università». Oltre a offrire ai musicisti la possibilità di fare molta pratica, Il Purgatorio si trasforma in una fantastica vetrina. Come racconta Franco D’Andrea, il locale diventa luogo privilegiato dove fare incontri professionalmente costruttivi. «Conoscemmo Pepito Pignatelli con il quale, come batterista, poi realizzammo delle cose insieme, e pure il compositore Piero Umiliani che era interessato a sfruttare il sound del nostro quintetto per i film ai quali collaborava» (). 

Gato fa amicizia con Adriano Mazzoletti, che nel locale organizzerà alcuni concerti tra cui una serata con Marcello Rosa e Tullio Formosa, un clarinettista dilettante che lavora in RAI: «Dopo aver incontrato Gato al Meo Patacca, lo portai subito in Rai con Pepito Pignatelli a suonare col quartetto della trasmissione Italian East Coast Jazz Ensemble (), che andava in onda tutte le settimane. Era una bellissima trasmissione di cui non si ricorda nessuno. Andava in onda su Radio 2 e durò dal ‘64 al ‘65. C’erano Gato, D’Andrea, Pignatelli, Melis, poi anche Bill Smith, Foccià e Rava. Era una lunga serie di programmi mai replicati che, addirittura, oggi non si trovano più nelle teche RAI. A un certo punto si inserì al piano anche Mal Waldron che arrivò quasi contemporaneamente a Gato. Fu una bellissima avventura perché erano trasmissioni di altissimo livello. Con l’avvicendamento del personale Gato andò via e venne il saxofonista italo-belga Eddie Busnello che poi finì con gli Area» (). Mazzoletti riesce a portare al Purgatorio anche Earl Hines, di passaggio a Roma per suonare alla RAI. 

Ma c’è anche un’inattesa dark side svelata da Enrico Rava: «Pepito e Picchi (Pignatelli) erano persone meravigliose. Vennero al Purgatorio una sera, lui era appena uscito di galera. Tutti credevano che fosse ricchissimo: ci invitava nei migliori ristoranti di Roma, pagava lui, finché si seppe che non aveva un soldo. Un personaggio come Pepito non c’è più, era unico. Sapevamo tutti che era un aristocratico, un principe. Un giorno vidi il suo passaporto e il suo nome era lunghissimo, per leggerlo ci voleva mezz’ora! Spesso Pepito dava vita a gigantesche risse, anche al Purgatorio, perché a volte, se beveva, cioè sempre, era pericolosissimo. Ricordo che una volta voleva dare un pesantissimo ferro da stiro in testa ad alcuni americani perché non li sopportava!» (). 

Un’altra descrizione dell’ambiente del Purgatorio ce la offre il famoso trombonista Marcello Rosa, molto attivo nel locale soprattutto nel ‘65: «Molti si sono attribuiti il merito di aver portato avanti il jazz in quel locale. Conclusasi l’epoca del quintetto Rava-Barbieri, dal ‘65 chi lo conduceva musicalmente era Carlo Loffredo. Al Purgatorio c’era la lotta per entrare a far parte del gruppo che era fisso, di casa. Lì guadagnavamo 8.000 lire a sera. Non era poco, all’epoca. Loffredo, il maestro di cerimonie, chiamava i musicisti e si suonava tutte le sere per cui, bene o male, anche nell’impreparazione, c’era una continuità. Era una situazione oggi impensabile. Non esistevano parti, nessuno sapeva leggere, io un po’, ma tra gli amici-colleghi davvero nessuno. C’era però quella tale abitudine mnemonica che portava a interiorizzare la musica e a suonare col linguaggio giusto. Al Purgatorio dovevi essere pronto a suonare di tutto» (). 

Ci sarebbe da chiedersi come mai, tra le tante vicende di Gato in Italia e, nello specifico, del jazz nella capitale, proprio il Purgatorio sia rimasto prepotente negli annali della cronaca. Anche altri locali hanno contribuito alla storia del jazz romano eppure, quando si parla degli anni italiani di Gato, oltre a citare Ultimo tango e Sapore di sale, se c’è spazio per un’informazione in più, se si vuole aggiungere un ulteriore tassello alla conversazione o all’articolo, si parla del ristorante Meo Patacca e del Purgatorio. Dal punto di vista musicale è indubbia l’importanza che il locale ha avuto per i gruppi che vi hanno suonato. Alcuni si sono esibiti lì anche per settimane o mesi approfittando dell’opportunità di affinare il repertorio nella condizione ottimale della reiterata esecuzione dal vivo, cosa che oggi rappresenterebbe un’occasione unica in quanto la maggioranza dei club, per ragioni di carattere economico, raramente programma lo stesso gruppo per più date consecutive. Inoltre, al Purgatorio si andava sviluppando la cultura jazz dello scambio e dell’incontro tra musicisti attraverso le visite, le ospitate e le serate con personaggi particolari di passaggio. Il lato mondano del locale, però, è altrettanto importante. Avviate le serate con il jazz, oltre al batterista Pepito Pignatelli, che come abbiamo visto porta nel locale i suoi amici dell’aristocrazia romana, Il Purgatorio inizia a essere frequentato da Marcello Mastroianni, Anita Ekberg e altri noti attori, diventando, con il tempo, un vorticoso luogo d’incontro tra personaggi del cinema, della cultura in generale e dell’aristocrazia, all’epoca ancora influente. Divertito, Enzo Scoppa racconta: «Al Purgatorio suonavo con Nunzio e Cicci. C’era sempre un sacco di gente. Una volta c’ho visto anche quel regista-attore che è pure pianista, come si chiama… ah, sì: Clint Eastwood!» (). 

Il Purgatorio ebbe così anche un’importanza di carattere socio-culturale, diventando un simbolo dell’humus culturale della città, e si plasmò a calderone delle speranze e delle possibilità alternative ai mondi precostituiti dalle regole borghesi e stereotipate. Dai Parioli e dalla vicina Via Veneto, zone elevate di Roma sia geograficamente sia socialmente, si poteva «scendere» verso la plebea Trastevere, al ristorante Meo Patacca a Piazza de’ Mercanti, immersa nell’architettura di una Roma del Seicento raffigurata nelle tavole del Pinelli, e da lì, seguendo la scritta Qui si fa il jazz, scivolare ancora più giù verso gli ambienti sregolati della cantina-jazz club. I fratelli Olmsted furono bravi nel costruire un’atmosfera che raccontava una Roma forse mai esistita, un immaginario concepito da due turisti per i turisti. La finzione si fondeva poi con quella del cinema portata dai vip del mondo di Cinecittà a fare del club, del ristorante e della piazza sotto le stelle, un luogo magico dove, a suon di jazz, tutto era permesso e si poteva essere tutti re per una notte. 

La stagione incredibile passata al Purgatorio dal quintetto Rava-Barbieri non può terminare come un qualsiasi contratto di lavoro che si scioglie alla scadenza. Nato sotto gli auspici dell’energia giovanile di Enrico e Gato, alimentata da aspetti artistici fortemente radicali e intrecciati all’intimità della convivenza e dei rapporti con le proprie mogli- cugine, il percorso del quintetto è destinato a concludersi tra litigi appassionati e con l’incrinarsi del legame tra i due amici. Enrico e Gato si incontreranno nuovamente nel ‘66 per registrare con Giorgio Gaslini, a Milano, e nel ‘67 quando, un po’ per affetto e un po’ per necessità, divideranno casa a New York, con le loro compagne. La vera ricucitura avverrà trentasei anni più tardi, nel 2001, sul palco di Umbria Jazz, quando i due si ritroveranno come uomini adulti in una fase matura della vita, musicisti con una diversa percezione del mondo e con il ricordo delle proprie compiante mogli alle spalle. L’epilogo del quintetto al Purgatorio ce lo racconta Rava stesso: «Abbiamo finito di suonare al Purgatorio nel ‘65. Eravamo stati licenziati perché non avevamo voluto suonare per Capodanno. Però, in un secondo tempo, Remington voleva riassumerci. Mi ha chiamato e ho detto di sì. Invece Gato non voleva, ma io ci ho suonato lo stesso e da lì è nato il casino. Inoltre abbiamo avuto uno screzio per colpa di Michelle, per cui Gato ha preso e se n’è andato a Parigi dove ha conosciuto Don Cherry, il quale è impazzito per lui ed è nato quel loro meraviglioso quintetto» (12).

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