Fred Hersch Trio (con Drew Gress e Joey Baron)

Roma, Casa del Jazz, 5 luglio 2021

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Era da molti anni assente da Roma, Fred Hersch, uno dei più significativi pianisti dei nostri tempi, con una carriera ultratrentennale alle spalle.
Perciò, sotto i pini di Villa Osio, in una serata caldissima, l’attesa per il suo «nuovo» trio era molto forte. Direttamente proporzionale a essa la folta presenza del pubblico, per quello che sinora è stato, probabilmente, il più prestigioso dei concerti della rassegna di questa Estate 2021, «Si Può Fare Jazz» che ha il grande merito di aver riportato l’artista nella Capitale.
I due compagni di viaggio del pianista di Cincinnati nella serata romana sono stati suoi abituali sodali per molti anni: dapprima Joey Baron, negli ormai lontanissimi anni Ottanta (ricordiamo l’album «Sarabande», con Charlie Haden, del 1986); successivamente Drew Gress, per molti anni, a partire dal 1992 e sino a quelli più recenti, prima che si affermasse l’attuale trio con John Hébert  ed Eric McPherson (molti i dischi con Gress, tra i quali ci piace ricordare almeno «Dancing In The Dark», del 1992, «Passion Flower», del 1996, entrambi con Tom Rainey alla batteria – e un’orchestra d’archi, per il secondo dei due, dedicato alla musica di Billy Strayhorn – e l’imperdibile cofanetto «Songs Without Words», del 2000, vera summa della sapienza di Hersch, in quel periodo, di tutta la sua essenza espressiva ed emotiva), ma mai insieme e questa novità era di certo un ulteriore elemento di attrazione.
Quando avevamo avuto la preziosa occasione di intervistarlo in esclusiva, durante la sua ultima tournée italiana, nel 2019 [qui l’intervista integrale] Hersch ci  aveva in qualche modo spiegato i criteri ispiratori del proprio armamentario artistico: Monk («probabilmente il più importante compositore di jazz se pensiamo a brani di breve durata»), la musica brasiliana («è stato un mio amore sin da quando mi sono trasferito a New York nel 1977»), l’American Popular Songbook e, infine, le proprie composizioni originali. Questi sono i «gruppi di cibo musicale» (sono sue precise parole) coi quali il pianista ama confrontarsi, cimentarsi, suonare, improvvisare.
La scaletta della serata ha tenuto fede a questo manifesto estetico (in maniera meno esplicita di altre volte per quanto riguarda la musica brasiliana, che è stata abilmente proposta soltanto come sottotesto, da rinvenire tra le pieghe di un ordito piuttosto ricco, che ha visto una chiara prevalenza di pezzi monkiani).
In apertura subito From This Moment On, di Porter, e Whichita Lineman (da «Songs From Home», il bellissimo album del lockdown); a seguire il primo momento dedicato a Monk, con Skippy e Dream Of Monk (dal teatro da camera di «My Coma Dreams», la pièce del 2011 nella quale Hersch ha narrato in musica il tragico periodo di vita in sospensione, patito durante i due mesi di coma, dopo la grave malattia del 2008); successivamente Plainsong (da «Open Book», del 2017), una stratosferica versione di Moon And Sand, con evidenti afrori brasiliani, You’re My Everything e Blue Monk, per arrivare alla chiusura, con Everybody’s Song But My Own (brano di Kenny Wheeler che Hersch ha dimostrato di amare, facendone ormai elemento fisso del proprio repertorio) e sino a The Nearness You, che nelle mani del pianista diviene sempre un vero distillato del concetto di ballad, ma che è stata portata a sfociare di nuovo in Monk, nella coda inesorabile di In Walked Bud. Per i due bis, dapprima un momento di incantata e assorta solitudine, con Valentine e, a chiudere, una versione di Doxy trascinata e trascinante.
Sulle qualità di pianista e di interprete che rendono Hersch un artista unico è persino inutile dilungarsi ancora; doveroso soltanto tornare a sottolineare il suo spunto costante di condivisione generosa, nella sintonia naturale con il pubblico e con i partner. A proposito di essi va detto che, pur nelle oggettive differenze rispetto all’attuale trio abituale con Hébert e McPherson, che tanti meritati allori ha mietuto dal 2010 ad oggi, sanno «complementarizzarsi»  perfettamente con il leader (anche grazie all precedenti frequentazioni di cui si diceva sopra).
Gress con la propria naturale eleganza, che sa unire la sintonia coi momenti più lirici al gusto costante per il contrappunto e il blues; Baron con una personalità tellurica, ma mai irrispettosa del contesto e sempre capace di sottigliezze, all’occorrenza.
Nel complesso, un trio che sa intrattenere, divertire, swingare, senza mai perdere di profondità espressiva, con la Musica costantemente in primo piano, ad assecondare una precisa richiesta del leader: «Da solo, in trio, in ensemble… Quello che voglio è scomparire: voglio soltanto Musica».
Sandro Cerini