Per la definitiva consacrazione del quintetto di Johnson sarebbe si rivelato decisivo il passaggio alla Columbia, che disponeva di una forte struttura produttiva e di un’eccellente distribuzione. Il produttore George Avakian aveva già apprezzato Johnson e Winding singolarmente, ma a colpirlo fu l’ascolto della registrazione di It’s All Right With Me, con il suo sound così nuovo e inebriante. Pensando che sotto l’ala della Columbia la musica del quintetto potesse avere ancora più successo, Avakian riuscì a far passare di scuderia ancora una volta il gruppo e, nei quattordici mesi in cui ebbe sotto contratto Jay e Kai, fu il primo responsabile della registrazione di trentasette titoli (provenienti da sette sedute in studio più la registrazione della loro ultima esibizione in pubblico al Festival Jazz di Newport) che sarebbero andati a formare tre dischi e mezzo. Il suo prezioso lavoro di proposta, raccordo e organizzazione (Avakian aveva l’incarico della produzione dei popular albums, il che significava che alla Columbia tutto, eccetto la musica classica, usciva dal suo dipartimento) fu importante sia per il grande successo di vendita sia per l’alto punto di equilibrio e raffinatezza raggiunto dal «prodotto».
Il primo album fu «Trombone for Two» (uscito originariamente in due dischi a 25 cm intitolati «Jay and Kay») del 23 e 24 giugno 1955, con Dick Katz al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso e Osie Johnson alla batteria, comprendente We Two e Turnabout (di J.J.), Trombone for Two (di Kai) più It’s Sand, Man, The Whiffenpoof Song, Give Me the Simple Life, This Can’t Be Love, e le ballad Close as Pages in a Book, Goodbye e Let’s Get Away From It All. L’album, come poi gli altri lavori Columbia, denotò ancor più dei precedenti compostezza, equilibrio, rifiuto dell’eccesso, ricerca dell’organicità della struttura e della sua unità, senza rinunciare al vigore e al contempo discrezione della propulsione ritmica e alla concretezza delle idee musicali.
Con la seconda uscita, Johnson e Winding azzardarono un esperimento, peraltro pienamente riuscito: al quintetto (con una ritmica formata da Hank Jones al pianoforte, Milt Hinton al contrabbasso e Osie Johnson alla batteria) aggiunsero una sezione composta da altri sei tromboni (Bob Alexander, Eddie Bert, Urbie Green, Jimmy Cleveland, Tom Mitchell e Bart Varsalona) che ai due leader consentì di studiare partiture più complesse, confermandoli sapienti e raffinati arrangiatori. Il disco, «J. & K. + 6», del 2, 4 e 6 aprile 1956 (con Candido Camero alle conga, e Ray Brown al contrabbasso al posto di Hinton nella seduta del giorno 6 per quattro brani dal latin flavor) comprende un fulgido Night in Tunisia arrangiato da Johnson, uno spettacolare The Surrey With the Fringe on Top, un asciutto blues di J.J., Four Plus Four, e due brani di Kai, Jeanne e Piece for Two Tromboniums. L’inclusione del trombonium (un particolare trombone verticale, a metà fra il trombone tenore e il bombardino, dalla sonorità simile a quella di un trombone a pistoni ma più vellutata e morbida) è frutto, come lo stesso allargamento a otto tromboni (in cui i vari Green, Bert e soprattutto Cleveland, con sporadici ma efficaci assolo, conferiscono ulteriore varietà all’insieme), della loro continua maniacale ricerca di variazione di timbro e di tessitura.
Prima della pubblicazione dell’ultimo album registrato in studio per la Columbia, il quintetto di Johnson e Winding partecipò il 6 luglio 1956 al festival di Newport (nella fenomenale edizione che annoverò anche Louis Armstrong e Duke Ellington con lo scatenato Paul Gonsalves nella celeberrima esecuzione di Diminuendo and Crescendo in Blue). La Columbia fece uscire un disco intitolato «Dave Brubeck and Jay & Kai at Newport» (quella sera i due gruppi si erano avvicendati sul palco): Johnson e Winding si presentarono con Dick Katz al pianoforte, Bill Crow al contrabbasso e Rudy Collins alla batteria, suonando tre brani inediti, composti per l’occasione: uno head arrangiament di Lover Come Back to Me, una forma canzone (AABA con classica introduzione e ortodosso sviluppo melodico) di J.J., NWPT, e un canonico semplice blues di Kai di nuovo per i trombonium, True Blue Tromboniums. I trombonium furono impiegati anche nell’ultimo album Columbia, «Jay & Kai» (sedute del 17 novembre 1955 con Milt Hinton al contrabbasso e Shadow Wilson alla batteria, e del 13 luglio 1956, con Bill Crow al contrabbasso e Kenny Clarke alla batteria) nel brano Tromboniums in Motion (questa volta composto da Johnson); del disco sono poi da segnalare Caribè (di Winding), con Candido alle conga e ai bongo, e una sequela di popolari ballad. L’impressione generale è di trovarsi di fronte a un prodotto ancora più sofisticato dei precedenti ma volutamente più accattivante, con arrangiamenti che esibiscono moduli certamente propri del gruppo, ma diventati ormai dei cliché e comunque meno pungenti. Quell’esibizione al festival di Newport e l’immediatamente successiva seduta del 13 luglio 1956 furono le ultime del Jay & Kai Quintet. All’apice del successo, i due trombonisti, di comune accordo e in completa amicizia, decisero di dividersi. C’erano per la verità alcune cose «extramusicali» che non andavano: per esempio, Jay avrebbe confessato di non più sopportare, durante le tournée negli Stati Uniti razzisti, il fatto di non poter condividere, lui nero, con il bianco Kai le stesse sistemazioni negli hotel e nei ristoranti (dichiarazione di Johnson a Gene Lees e da questi riportata a pag. 182 di Leader of the Band, New York, Oxford University Press, 1995). Fondamentalmente comunque il quintetto non soddisfaceva più le esigenze espressive di entrambi e le carriere dei due co-leader si divisero prendendo differenti strade. Nonostante questo, nel corso degli anni ci furono ugualmente altre occasioni per unirsi di nuovo nel two-trombone quintet. Già nel 1958 Johnson e Winding furono richiamati da Norman Granz per una tournée europea, il cui concerto a Berlino del 29 settembre fu surrettiziamente registrato e pubblicato dapprima nel bootleg Unique Jazz «All Stars – Live European Concerts» e sul cd «The 1959 European Tour» con Red Garland al pianoforte, Oscar Pettiford al contrabbasso e Kenny Clarke alla batteria.
Poi seguirono quattro album in studio, il primo (sedute del 3 ottobre, 2, 4 e 9 novembre 1960), davvero eccellente (giudicato il loro migliore da alcuni esperti, tra cui Thomas Everett, il direttore del prestigioso Journal of the International Trombone Association nel Vol. XVI, n. 2, «J.J. Johnson on Record»): «The Great Kai & Jay», ovvero il primo disco della neonata etichetta Impulse!, con Bill Evans al pianoforte, Paul Chambers e Tommy Williams che si alternano al contrabbasso così come Roy Haynes e Art Taylor alla batteria. Qui non ci sono gli ammiccamenti dell’ultimo Columbia, i due solisti sono in forma smagliante (Johnson è sempre più essenziale mentre Winding sembra aver recuperato, lontano dal collega, certe ridondanze in lui connaturali, come nell’entrata in This Could Be the Start of Something Big dopo l’assolo di Johnson) e la formazione ritmica è leggera, swingante e raffinatissima. Veri e propri gioielli sono le ballad Georgia on My Mind arrangiata da Winding e Alone Together da Johnson, l’ingegnoso arrangiamento di Johnson della composizione di Thelonious Monk Blue Monk e gli inediti di Johnson Judy e Trixie.
Gli altri tre album, di fine anni Sessanta, uscirono per la A&M (serie CTI) di Creed Taylor, la cui logica produttiva ha in parte condizionato, se non sempre la qualità, certo l’indirizzo «popular» della musica. «Israel» (inciso dal gennaio all’aprile 1968), comprende, in cinque dei nove brani, una piccola sezione di archi e fiati arrangiati con perizia e concezione bucolico-barocco-romantica da Don Sebesky (i momenti salienti con assolo significativi sono in Israel (con uno spettacolare Ron Carter), Catherine’s Theme e St. James Infirmary). Sulla stessa falsariga, «Betwixt & Between» (inciso dall’ottobre al dicembre 1968) riprende l’idea di elaborazioni barocche nei brevi interludi classicheggianti (di Bach e uno, non accreditato, di Prokof’ev, arrangiati da Johnson). I brani sono tutti di Johnson o Winding, tranne uno di Roger Kellaway, e il sound è tipico delle colonne sonore di Burt Bacharach e Francis Lai nei film degli anni Sessanta, sound qui caratterizzato ed enfatizzato dalla chitarra tagliente di Joe Beck, dal clavinet di Kellaway e dall’uso del Varitone applicato ai tromboni (viene trovata una eccellente verve in Just a Funky Old Vegetable Bin). Di altro stampo «Stonebone» (settembre 1969), dapprincipio uscito solo nel mercato giapponese in poche copie di difficile reperibilità, riedito in USA ed Europa (ma solo in vinile) nel 2020. È il migliore dei tre, con Johnson e (con meno spazio) Winding che nei quattro brani di chiara ispirazione funk prendono lunghe potenti improvvisazioni su incisivi grooves sostenuti da Grady Tate alla batteria, da Ron Carter al basso e dai fitti intrecci di George Benson alla chitarra e Herbie Hancock al piano (solo in Recollections si aggiungono i tastieristi Bob James e Ross Tompkins).
Johnson e Winding suonarono insieme per l’ultima volta l’1, 2 e 5 settembre 1982 in un ottetto di «all stars» (con loro anche Clark Terry, Dexter Gordon, Tommy Flanagan, Kenny Burrell, Richard Davis e Roy Haynes), allestito da George Wein per l’Aurex Jazz Festival in Giappone. In quest’ultimo incontro, testimoniato dalla East World nei dischi «Aurex Jazz Festival 1982 – All Star Jam» e «Live Special», hanno potuto rinverdire, a ventotto anni dalla creazione del celeberrimo gruppo, l’inconfondibile sound del «Jay & Kai»: con la tipica front line dei due tromboni furono eseguiti il 2 settembre a Osaka l’inedito Soba Up, un blues a tempo sostenuto composto da Winding, e l’immancabile It’s All Right With Me, il brano più famoso del gruppo, che nel periodo d’oro i due leader dovevano suonare a ogni concerto anche due o tre volte per notte a causa delle continue richieste, tanto che finirono per esserne nauseati.
Anche durante gli anni con Winding, Johnson partecipò ad altre importanti registrazioni. Il 15 settembre 1954 fu nella big band di Dizzy Gillespie (intervenne in Cool Eyes, incluso nel Verve «Diz Big Band». Il 24 settembre mise insieme un proprio gruppo comprendente Charles Mingus e Wynton Kelly, dal sapore latineggiante grazie all’apporto del conguero Sabu Martínez al fianco di Kenny Clarke, per realizzare sei brani per la Blue Note. Questa atmosfera avrebbe trovato un seguito nelle incisioni afro-cubaneggianti effettuate sotto la leadership di Kenny Dorham il 29 marzo 1955, sempre per la Blue Note, con Carlos «Patato» Valdes alle percussioni). Il 6 giugno 1955 Johnson fu di nuovo alla guida di un proprio quintetto comprendente questa volta Horace Silver e Hank Mobley: nel repertorio spiccano due ballad, You Are Mine, You e Portrait of Jennie, e le sue composizioni «Daylie» Double, Groovin’ e Viscosity. Questi brani, assieme a quelli del settembre 1954 e a quelli dell’anno prima con Brown, andranno poi a costituire i due volumi Blue Note «The Eminent».
A ogni seduta di incisione, Johnson continuava a sfornare temi originali che sembravano costituire la sintesi del suo modo di improvvisare e avevano come denominatore comune la pulizia della scansione, la linearità del disegno che poteva arricchirsi di eleganti viluppi di note, la perentorietà dei cambiamenti di indirizzo melodico e armonico. Ma il trombonista non si limitò a comporre per piccole formazioni. Egli aveva covato per anni ben altre ambizioni. Studioso e ammiratore della musica di grandi compositori classici (specialmente Stravinsky, poi Bartók, Ravel, Šostakovič e Prokof’ev), aveva aderito tra i primi al movimento denominato Third Stream, termine coniato da Gunther Schuller nel 1957 per un tipo di musica «peculiarmente americana» che voleva accogliere, sintetizzandole, le caratteristiche e le tecniche della musica classica occidentale e quelle del jazz o di musiche etniche. Tutto era partito nel 1955, con la costituzione della Jazz and Classical Music Society (poi diventata The Modern Jazz Society), fondata da John Lewis e dallo stesso Schuller. Johnson aveva già partecipato come solista a una delle prime idee dell’organizzazione, «A Concert of Contemporary Music», su composizioni e arrangiamenti di Lewis e Schuller. Aveva anche collaborato a un progetto molto ambizioso, sempre organizzato da Schuller: una serie di opere jazz-sinfoniche affidate a diversi compositori (oltre a lui e Schuller, c’erano Lewis e Jimmy Giuffre) poi incise nel 1956 e riunite nell’album «Music for Brass» per la Columbia. Il lavoro di Johnson, Poem for Brass, estremamente ricco e denso, non sarebbe rimasto isolato. Già nel 1959 John Lewis commissionò al trombonista due lavori che vennero eseguiti al Festival di Monterey di quell’anno, El Camino Real e Sketch for Trombone and Orchestra. Poi gli richiese una composizione ad ampio respiro per il suo Modem Jazz Quartet: Johnson gli presentò la complessa partitura di Rondeau for Quartet and Orchestra, dove al quartetto di Lewis e Jackson rispondeva una grande orchestra con trenta archi e dieci legni. L’anno dopo Dizzy Gillespie, che aveva molto apprezzato Poem for Brass, commissionò a sua volta a Johnson un’opera simile ma che avesse la sua tromba come solista. Johnson si mise all’opera nel settembre 1960 e, in stretta collaborazione con Gillespie, in sei mesi preparò Perceptions, una partitura di grande bellezza, divisa in sei parti, della durata di una trentina di minuti. L’esecuzione, registrata il 22 maggio 1961 per la Verve, con un’orchestra di ventun elementi diretta da Gunther Schuller, diede vita a un capolavoro grazie anche alle improvvisazioni di Gillespie, ornate di sottili sfumature e cangianti colori; l’opera sarebbe stata presentata anche al festival di Monterey di quell’anno.
Johnson si cimentò con successo pure con l’arrangiamento per big band jazzistica. Nel dicembre 1964 registrò nove brani poi raccolti nell’album RCA «The Great J.J.», di cui sei da lui arrangiati più una nuova, rielaborata versione di El Camino Real. Si avvertono l’influenza di Gil Evans per le pastosità timbriche e armoniche, quella di Mulligan per la determinatezza di certe soluzioni melodiche, e ancora di Oliver Nelson e Quincy Jones per una spruzzata di soul e pop. Nel 1965 compose e arrangiò ancora qualche brano nel suo «Goodies». L’esperienza con la classica formula della big band venne ripetuta nel dicembre 1966, dando frutti ancora migliori: questa volta i brani registrati erano totalmente composti e arrangiati da lui; in più dirigeva l’orchestra ed era l’unico solista. L’idea era stata di un produttore della RCA, Jack Somer, che appunto intitolò questo eccellente album «The Total J.J.». Sporadicamente Johnson partecipò anche a lavori orchestrali composti da altri: «Music for 4 Soloists and Band No. 1» di Friedrich Gulda (MPS, 1965), «The Soul of the City» di Manny Albam (Solid State, 1966) e i dischi a suo nome «Trombone and Voices», arrangiato da Frank De Vol (Columbia, 1960) e «Broadway Express» arrangiato e diretto da Mundell Lowe (RCA, 1966).
Dopo il 1956 e lo scioglimento del quintetto con Winding, e sino alla fine degli anni Sessanta, Johnson fu molto attivo anche al di là dei suoi impegni come compositore e arrangiatore. Si concesse i soliti periodi di temporaneo ritiro, che gli servivano per ritemprarsi in famiglia, oppure per dedicarsi ai suoi hobby (la fotografia e l’aeromodellismo), per scrivere musica o semplicemente per ascoltarla. Nonostante questo, partecipò a numerose esperienze importanti con piccole formazioni e registrò dischi che fanno risaltare, come mai prima, le sue grandi doti solistiche. E uno stile ridotto ormai all’essenziale, che fa uso efficace della sincope e della pausa, che appare spezzato in riff eterodossi, con intere frasi spostate ritmicamente e cambiamenti di marcia inaspettati, il tutto sostenuto da uno swing potente ed espresso con una sonorità bellissima, marmorea e cupa. Nel 1956 formò un quintetto con il tenorsassofonista belga Bobby Jaspar ed Elvin Jones alla batteria, che sarebbe rimasto unito fino al 1960 realizzando tra l’altro gli album «J. Is for Jazz» (Columbia, 1956-1957) e «Dial J.J. 5» (Columbia 1958). Nel frattempo registrò anche con Coleman Hawkins («The Hawk Flies High», Riverside 1957), con Sonny Rollins (per Blue Note, nel 1957, con Horace Silver e Thelonious Monk che si alternano al piano); con Stan Getz («Stan Getz at the Opera House», Verve 1957, e «Jazz at the Philharmonic in Europe», Verve 1960).
Ma è sugli album incisi con propri gruppi per la Columbia che bisogna soprattutto soffermarsi, in quanto sono forse i suoi migliori in assoluto. Per cominciare, i due strepitosi dischi dell’aprile e del maggio 1957, cioè «First Place» e «Blue Trombone», con Tommy Flanagan, Paul Chambers e Max Roach. Poi «J.J. in Person!», del febbraio 1958, con Nat Adderley e Tommy Flanagan (segnaliamo una nuova versione di Misterioso, già registrato l’anno prima con Rollins), e ancora «J.J. Inc.» dell’agosto 1960, realizzato dal gruppo che Johnson stesso, a ragione, riteneva il migliore di tutta la sua carriera: Freddie Hubbard alla tromba, Clifford Jordan al tenore, Cedar Walton al piano, Arthur Harper al contrabbasso e Albert Heath alla batteria. Né vanno dimenticati «A Touch of Satin», del dicembre 1960, con la sezione ritmica di Cannonball Adderley, ovvero Victor Feldman, Sam Jones e Louis Hayes, «Mack the Knife», del dicembre 1961, con André Previn al piano, dove vengono interpretate famose canzoni di Kurt Weill e Bertolt Brecht, «J.J.’s Broadway» (Columbia, 1963) dedicato alle canzoni di celebri musical americani, sia con il quartetto sia con un gruppo di cinque tromboni.
In quel periodo J.J. fece anche parte del nuovo sestetto di Miles Davis, assieme a Hank Mobley al sax tenore, Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Jimmy Cobb alla batteria, sestetto che dall’estate 1961 fino a quella dell’anno dopo, quando si sciolse, fu molto attivo, dando numerosi concerti positivamente recensiti, tanto da vincere nel 1962 l’annuale referendum di DownBeat, quello della critica: la prima volta che Davis se lo aggiudicava come leader di un proprio gruppo. Inspiegabilmente la band non fu mai registrata, né in veste ufficiale in sala di registrazione né privatamente con qualche incisione pirata di esecuzioni dal vivo: di questo sestetto, incredibile ma vero, a tutt’oggi non è emersa la minima documentazione sonora.
Per «Proof Positive», altra prova magistrale, Johnson cambiò casa discografica e nel maggio 1964,entrò in studio per la Impulse! (con Harold Mabern, Harper e Frank Gant, più un curioso brano con McCoy Tyner, Richard Davis, Elvin Jones e addirittura Toots Thielemans all’armonica); nel 1965 partecipò anche alla registrazione di uno dei più apprezzabili album di Horace Silver, il Blue Note «The Cape Verdean Blues», prima di ritirarsi nel 1967 dalle scene per un periodo più lungo del solito. Fu infatti assunto come compositore e direttore dalla MBA Music di New York e nel 1970, dietro sollecitazione di Quincy Jones, si trasferì in California per lavorare negli studi televisivi e cinematografici di Hollywood (scrisse e arrangiò musica per show televisivi come Starsky and Hutch, Mayberry, R.F.D e That Girl e colonne sonore per vari film fra cui Cleopatra Jones e il celeberrimo Shaft in cui collaborò con Isaac Hayes). In pubblico apparve solo per qualche breve tour (nel 1977 e 1982 in Giappone e del 1984 in Europa) o sporadica registrazione, sotto le insistenze di Norman Granz. Nel 1973, per la Pablo, videro la luce «The Bosses» con Joe Turner e Count Basie, e «Basie Jam». Il tour giapponese del 1977, in quintetto con Nat Adderley, Billy Childs, Tony Dumas e il figlio Kevin Johnson alla batteria) è ampiamente documentato dal doppio album «The Yokohama Concert» (e da un secondo volume, «Chain Reaction», uscito solo nel 2002); due anni dopo incise con Sarah Vaughan («Duke Ellington Song Book») e come leader per la Milestone «Pinnacles», con Joe Henderson, Tommy Flanagan, Ron Carter e Billy Higgins, presentando composizioni nuove quali Pinnacles, Night Flight e Cannonball Junction. Nel 1980 Johnson incise a suo nome «Concepts in Blue» (comprendente Blue Nun, Azure e Nermus) con Clark Terry ed Ernie Watts, e «Kansas City Seven» ancora sotto la leadership di Basie, assieme a Freddie Hubbard e Eddie «Lockjaw» Davis.
Il 1983 è contrassegnato da una cospicua produzione: tre album sempre per la Pablo, l’eccellente «We’ll Be Together Again» in duo con Joe Pass, «Jackson, Johnson, Brown and Company» in sestetto con Milt Jackson e Ray Brown e «Things Are Getting Better All the Time», dove J.J. rinverdì i fasti del gruppo con due tromboni duettando in scioltezza ed eleganza con il collega di strumento Al Grey. Di rilievo nel 1984 la tournée europea che lo portò anche in Italia, a Umbria Jazz, con una «all stars» che comprendeva Nat Adderley, Harold Land e Cedar Walton.
Johnson sparì poi ancora dalla circolazione per quattro anni, sempre preso dall’attività professionale a Hollywood. Ma i grossi mutamenti avvenuti nell’ambito della sonorizzazione cinematografica lo portarono a considerare chiusa la sua esperienza californiana (così com’era successo al suo vecchio amico Benny Golson) e, non appena decise di lasciare definitivamente Los Angeles per tornare ad abitare a Indianapolis si ritrovò a vivere una seconda giovinezza di solista e compositore jazz. Il grande ritorno di Johnson sulle scene avvenne nell’estate del 1988, al Village Vanguard di New York, con un gruppo compatto e pieno di slancio: Ralph Moore, Stanley Cowell, Rufus Reid e Victor Lewis. In quell’occasione vennero registrati i brani di due dischi, «Quintergy» e «Standards», che testimoniano con un ampio repertorio come Johnson avesse mantenuto l’autorità del grande maestro, l’assoluta padronanza del linguaggio strumentale e la freschezza del compositore di vaglia: basti ascoltare l’estrema modernità di un brano come quello che dà il titolo al primo album. In seguito il trombonista registrò tre lavori in studio. Il primo è «Vivian» (per la Concord, giugno 1992) dedicato alla memoria della moglie scomparsa l’anno prima e in cui il fraseggio appare ancora più sobrio, la sonorità più scura, in un contesto intimo e raccolto. «Let’s Hang Out» (EmArcy, dicembre 1992) è più vivace, con ripetute coloriture funky e bluesy (lo affianca, come ospite d’onore, l’allora giovane trombettista Terence Blanchard).
Johnson tornò in sala di incisione altre quattro volte, sempre per la Gitanes/Verve, prima del ritiro definitivo. Nel luglio 1994 diede vita a un tardivo esempio di Third Stream Music con un’imponente formazione che univa un’orchestra sinfonica e una big band jazzistica, in collaborazione con il compositore e arrangiatore inglese Robert Farnon. Il decorativismo ipertrofico di Farnon, elaborato nei suoi tanti lavori per il cinema, avrebbe avuto facilmente partita vinta se non fosse stato arginato dall’essenziale e potente incisività di Johnson: il prodotto di queste sedute, uscito poi col titolo «Tangence», si fa apprezzare soprattutto per le gemme rappresentate dai toccanti assolo di J.J., in tre brani, coadiuvati da quelli dell’ospite Wynton Marsalis alla tromba: in For Dancers Only (composto a suo tempo da Sy Oliver per l’orchestra di Jimmie Lunceford) i due si contrappuntano a cappella realizzando un pregiato gioiello in miniatura. Nel settembre 1996 Johnson si cimentò con una big band di soli ottoni (compresi euphonium, tube e corni) più sezione ritmica (che vede anche un’arpa e una nutrita sezione di percussioni), registrando «The Brass Orchestra», lavoro in cui il trombonista recupera l’impostazione dei suoi precedenti lavori di Third Stream (c’è anche un altisonante El Camino Real), arricchendoli con una scrittura ancora più magniloquente, veemente e ricca di complicate soluzioni. In ottobre fu la volta di «Heroes», un album composito nel quale il trombone del leader si mescola alla perfezione con i sassofoni soprano e tenore di Dan Faulk, mentre Rufus Reid al contrabbasso e Victor Lewis alla batteria sostengono ritmicamente con maestria. A Renee Rosnes al piano è affidata Vista, una delicata composizione di Johnson già suonata in passato dall’autore in diversi contesti, mentre In Walked Wayne l’ospite Wayne Shorter arzigogola un assolo magistrale al sax tenore.
«Heroes» rimane a tutt’oggi l’ultimo disco ufficiale di J.J. Johnson: ma potrebbe diventare il penultimo se dai cassetti della Verve/Gitanes saltasse fuori il master di un album fantasma, «Nina Mae», da lui registrato alla fine del 1995 con il suo regolare quintetto (e qualche ospite) poco dopo la morte della madre, alla quale doveva essere dedicato. Ne aveva parlato lo stesso Johnson in un suo forum online, che oggi non esiste più, mentre l’imminente uscita era stata segnalata dalla rivista francese Jazz Hot nel numero di febbraio 1997, dove venivano riportati addirittura la copertina e il numero di catalogo.
A parte questo inedito, ancora sconosciuto ai più e forse destinato a restare tale, tutti gli ultimi album di Johnson testimoniano come il trombonista non avesse minimamente perso il suo smalto, mantenendo anzi l’autorità del grande maestro grazie alla sua assoluta padronanza del linguaggio strumentale e, anche in ragione di una quasi sessantennale esperienza, superandosi nelle ballad, in un concentrato di emozioni che nessuna indagine musicologica riuscirà mai a spiegare. Anche in questa felice continuità e, col passare degli anni, nell’intatta qualità artistica, si riassume l’importanza della figura storica di chi per molti (per esempio il critico Demètre Ioakaimidis, che nel corso degli anni ne ha scritto a lungo) è considerato il più grande trombonista del jazz e un compositore di eccezionale rilevanza.
J. Johnson pose fine alla sua stessa vita il 4 febbraio 2001, a 77 anni appena compiuti, devastato dalla medesima e lunghissima malattia che, qualche anno addietro, gli aveva strappato la moglie Vivian.