In occasione della scomparsa di Franco Caroni ripubblichiamo il colloquio che avemmo con lui qualche anno fa, nel 2019.
Parlando con Franco Caroni si ha la sensazione di aver a che fare con un personaggio di altri tempi: vuoi per il rigore e la concretezza del suo pensiero, vuoi per la schiettezza – tutta toscana – del suo linguaggio e della sua parlata. Caratteristiche che colpiscono e talvolta sorprendono anche tutti coloro che, come chi scrive, lo conoscono da lungo tempo. Senese purosangue, da quarant’anni Caroni è presidente, direttore artistico e animatore instancabile di Siena Jazz, fondata con un gruppo di appassionati cullando un sogno poi divenuto realtà attraverso un lavoro duro e sistematico, accompagnato da numerosi sacrifici, che negli anni ha trasformato Siena Jazz in università della musica, un centro di formazione conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, come testimonia l’atmosfera internazionale che da parecchi anni vi si respira. Caroni è giustamente orgoglioso della sua creatura ma, da vero professionista, non è mai appagato dai risultati ottenuti, anzi. Le energie riversate nei nuovi progetti rivelano la volontà di alzare ulteriormente l’asticella di più alti traguardi. Certamente il quarantennale della fondazione non costituirà un’occasione di (auto)celebrazione. Piuttosto, sarà il trampolino di lancio per un’ulteriore crescita, come traspare anche dai passi salienti di una lunga e appassionata chiacchierata.
Come nacque Siena Jazz?
Fu una cosa da volontari «operosi» o da visionari. Ci si incontrò a casa mia in otto persone (tra cui mia moglie, anche lei appassionata di jazz) la sera del 9 settembre 1977 e si decise di affrontare il grande interrogativo: facciamo un piccolo club o creiamo un’associazione? Ce la feci a convincere tutti che un’associazione sarebbe stata un modo più aperto di concepire un’attività non solo ludica, ma anche sociale. Decidemmo di costituirci immediatamente come associazione senza vincoli burocratici e di chiamarla Siena Jazz. Un nome molto poco fantasioso, perché a quei tempi nel mondo dei vari «stati comunali» c’era l’abitudine di denominare associazioni omologhe con il nome delle città, come ad esempio Firenze Jazz e una precedente Siena Jazz, nate negli anni Sessanta.
Se ben ricordo, a quei tempi eri un giovane bassista elettrico che si occupava prevalentemente di rock.
Inizialmente col gruppo Livello 7 si faceva rock per intrattenere la gente nelle sale da ballo, il che ci serviva per acquisire i fondi per l’acquisto di una strumentazione e di un’amplificazione imponenti per i concerti in cui avremmo poi suonato la nostra musica, di stampo progressive. Verso il 1974 cominciai a scoprire il mondo del jazz, pur continuando a esibirmi nelle sale da ballo e a fare concerti in giro per l’Italia. Fummo addirittura invitati ai primi due festival rock nazionali nell’ambito della festa dell’Unità. Nel 1976, quando il gruppo cessò di esistere, chiesi agli altri membri (anche loro interessati al jazz) se intendevano ricostituirsi in un’altra maniera e così nacque il gruppo Studio Improvvisazione. Avevamo cominciato a capire che l’improvvisazione andava studiata e approfondita. Questa curiosità ci portò poi a costituire Siena Jazz l’anno dopo.
A chi vi appoggiaste?
In quel periodo, in molte città erano attivi numerosi movimenti studenteschi a stretto contatto con l’ARCI, che allora si occupava molto di musica. Ci rivolgemmo a loro per capire come orientarci per l’organizzazione dei concerti. Da lì iniziò un connubio tra Siena Jazz e ARCI. Ne vennero fuori quattro lezioni–concerto. La prima fu con Claudio Fasoli («del Perigeo», così scrivemmo sul manifesto). Avevo incontrato Fasoli a metà agosto – quindi, prima della costituzione di Siena Jazz – quando con Studio Improvvisazione avevamo fatto da spalla proprio al Perigeo nei magnifici Orti Leonini di San Quirico d’Orcia. Il concerto del Perigeo mi aveva ispirato, sia per la matrice rock sia per quella jazzistica. A Fasoli chiesi se fosse interessato a costruire un piccolo repertorio per noi. Lui si dimostrò subito disponibile e mi chiamò circa un mese dopo per confermare la partecipazione. Il 1° ottobre 1977 ci fu il primo incontro-concerto con Fasoli; poi seguirono quelli con Bruno Tommaso, Enrico Pieranunzi e Patrizia Scascitelli con Marvin «Bugalu» Smith. Ne stavamo allestendo anche un quinto (con Franco D’Andrea, previsto per l’aprile 1978) quando, parlando con l’assessore alla cultura Carlo Fini, persona aperta e di grande spessore, scoprii che era stato segretario del Siena Jazz degli anni Sessanta! Questa coincidenza mi aiutò a partire col piede giusto. Così proposi a D’Andrea di spostare il nostro appuntamento ad agosto per organizzare un seminario vero e proprio con lui, Fasoli ed eventuali altri colleghi. Dopo loro presero accordi con Bruno Biriaco e così nacque il primo seminario nazionale, a cui parteciparono trentasei iscritti. Fu un successo inaspettato e chiesi all’assessore se fosse il caso di ripeterlo a dicembre, in giornate particolari come quelle tra il 27 e il 30. La proposta fu accettata e vennero addirittura 47 persone invece della ventina preventivata. Fu allora che pensai di aver individuato un’esigenza e da lì nacque l’idea di Siena Jazz come centro di formazione. Quei primi seminari ci allargarono gli orizzonti e ci fecero capire che praticamente non sapevamo niente! Da quel momento i seminari attirarono i primi giornalisti e negli anni seguenti sui giornali si cominciò a parlare di «modello senese» per quanto riguardava la formazione.
Infatti verso la fine degli anni Ottanta eravate una realtà già consolidata, con fior di docenti …
Sì, tra i docenti avevamo anche musicologi come Marcello Piras e Stefano Zenni, e tra i partecipanti tanti musicisti che poi sarebbero diventati grandi anche in altri settori, come il percussionista Antonio Caggiano, docente all’Accademia Chigiana, che con noi fu allievo di Bruno Biriaco.
Oltre che dalle istituzioni, sentivate sostegno e vicinanza anche da parte della cittadinanza?
Siamo cresciuti sotto una sorta di curiosità e benevolenza «disinteressata». Essendoci organizzati per prevedere e prevenire qualsiasi evenienza, e fornire un servizio sociale e culturale, non costituivamo un problema per la città. Chi era in possesso di una certa apertura culturale e si riconosceva nella tradizione del jazz, cominciò a interessarsi alla nostra attività. Così siamo potuti crescere indisturbati, correggendo in corso d’opera i nostri errori e dimostrando di poter offrire un servizio utile alla comunità dei musicisti, non solo jazzisti in senso stretto, ma anche tutti coloro che erano interessati ad avvicinarsi al jazz come apertura verso altre forme. Questa è una delle funzioni del jazz anche oggi, nonostante già nel 1974 io sentissi dire che il jazz era morto. In questo senso penso di aver contribuito a chiarire un aspetto filosofico, cioè che con il jazz non si può insegnare a diventare grandi artisti, creativi e visionari, ma del jazz si può insegnare la grammatica in una maniera concettualmente aperta.
Per lungo tempo hai condotto questa attività parallelamente alla tua professione.
Prima come informatore medico-scientifico, poi come area manager. Fino a un punto in cui l’impegno crescente in entrambi i settori divenne inconciliabile. Per ventott’anni ho dato il mio contributo al jazz da volontario. Nel gennaio 2005 ho cessato la mia attività professionale, diventando così uno dei pochissimi professionisti in Italia nell’ambito del jazz, visto che tanti altri bravissimi operatori del settore hanno un secondo lavoro.
La successiva introduzione nei seminari dell’abbinamento tra docenti italiani e stranieri è stata certamente una formula vincente. In che misura ha contribuito ad ampliare gli orizzonti e sviluppare la vostra attività? Tra l’altro, avete avuto un notevole incremento di allievi stranieri.
Adesso siamo arrivati al 40% circa di stranieri, che secondo me è il massimo, in quanto devo avere un occhio di riguardo per la formazione dei nostri giovani. Al tempo stesso, non posso neanche pensare al jazz italiano come a un corpo estraneo. Tornando alla tua domanda, ho sempre cercato di essere il primo critico di me stesso e di valutare i pro e i contro di queste scelte. A volte certi musicisti hanno un nome in quanto statunitensi e, pur essendo bravissimi a suonare, non si sono occupati molto di didattica. Ci si rende poi conto che altri musicisti americani sono artisticamente vivi grazie all’esistenza dell’Europa, che li ha sempre riconosciuti culturalmente e pagati fior di quattrini. Per contro, molti altri hanno potuto sopravvivere proprio grazie alla didattica praticata da tempo immemore. Quello che inizialmente ho dovuto fare è stato spiegargli che qui non siamo né in ferie, né in una colonia. Qui si entra per merito e bravura, poi ci si rimbocca le maniche e si lavora.
Ti sei mai posto il problema di evitare di introdurre una certa influenza dell’approccio Berklee?
No, anche perché la nostra natura è diversa, com’è diversa la matrice da cui sono nati Rava, Tommaso, D’Andrea, Pieranunzi e altri grandi jazzisti italiani. Inoltre mi sono sempre preoccupato di chiamare persone diverse, che abbiano visioni e linguaggi differenti. Questo crea una sinergia e costituisce un arricchimento continuo per gli studenti e per gli stessi docenti. Anche per questo ho introdotto il meccanismo dei due docenti per lo stesso strumento. In tal modo, dal confronto tra due linguaggi lo studente dovrebbe essere incoraggiato a sceglierne un terzo, il proprio. Non a caso, con InJam abbiamo realizzato quello che è stato giudicato il miglior master biennale, dove per cinquantadue allievi abbiamo avuto sessanta docenti, trenta italiani e trenta internazionali, tra i quali Steve Kuhn, Billy Hart, John Abercrombie, George Garzone, Jerry Bergonzi, Eddie Gomez, Steve Turre, Eddie Henderson. La cosa entusiasmò i docenti a tal punto che da quell’esperienza si sono formati anche alcuni gruppi.
In questo senso, quanto è stato importante anche il fattore umano?
Questo è accaduto senza che lo avessi cercato. O, quantomeno, ho sempre cercato di selezionare i musicisti anche in base alle qualità umane. Si è poi creato un clima di reciproco rispetto anche tra gli studenti e lo stesso personale di Siena Jazz, composto da individui che inizialmente avevano dato il loro contributo come volontari.
A che punto è l’archivio sonoro?
È una realtà enorme, sempre in fase di espansione, che negli ultimi quindici anni si è veramente aperta al mondo, diventando un servizio a livello nazionale ed europeo. È significativo l’uso che del nostro archivio fanno anche molti statunitensi. Inoltre abbiamo indicizzato le annate complete di Musica Jazz dal 1945 al 1998, il che rappresenta una fonte inesauribile di informazioni.
Domanda un po’ antipatica ma necessaria: quanto ha influito sulla vostra attività la crisi del Monte dei Paschi?
La crisi economica avrebbe potuto anche non influire più di tanto sulla città, se non fosse stato per la crisi morale e professionale di alcuni dirigenti locali. Sono stati commessi errori pazzeschi che hanno imposto un profondo e radicale cambiamento. Noi ci siamo improvvisamente trovati a perdere 900.000 euro all’anno di contributi: una botta micidiale! Nonostante la mancanza di un supporto così importante, Siena Jazz ha continuato e continua a lavorare tanto. Per fortuna, come know how gestionale avevo l’abitudine di progettare con quattro anni di anticipo. Rimangono tuttavia diversi progetti in cantiere per i quali mancano ancora i finanziamenti. Sto aspettando da quattro anni di aprire il master biennale specialistico di jazz, per il quale ho già pianificato materie, orari, docenti e numero di aule. Abbiamo avuto aiuti importanti da parte della Regione Toscana e del Comune di Siena che, per quanto validi, non sono ancora sufficienti a garantire lo standard che ci impone il mercato europeo, non solo in ambito didattico.
Cosa prevedi per il prossimo futuro? So che vuoi anche riprendere a studiare il contrabbasso…
Già otto anni fa avevo chiesto al nostro consiglio d’amministrazione di non tenermi più in considerazione per un’eventuale nuova carica di presidente. Questo non è stato possibile e, al momento di rinnovare il mandato che terminerà a dicembre 2017, ho confermato al consiglio la mia indisponibilità a continuare, anche perché ho due incarichi: quello di presidente e quello di direttore artistico. Nella direzione artistica ho riversato la mia visione e la mia creatività: la presidenza è stata una necessità. Con il passare del tempo le due cose cominciano a pesare. Sono stato quello che ha dato e rappresentato la continuità, ma in tutti questi anni senza l’aiuto di un centinaio di persone non avrei potuto fare niente. Se nel 2018 mi verrà confermata la direzione artistica, la prolungherò per un altro mandato. Farò poi in modo che il passaggio di consegne avvenga in maniera indolore per evitare che qualcuno pensi che «le cose andavano meglio quando c’era il Caroni». Dopodiché, nel 2022 vorrei lasciare, ma prima di allora spero di riuscire a terminare il tetto della casa realizzando il master biennale specialistico. Quello sarà il momento per dedicarmi al contrabbasso. È bello avviarmi a terminare il mio percorso esistenziale iniziando a studiare sul serio lo strumento che amo.Sono un ottimista, non so fare altro che andare avanti, cercare un nuovo modo, una nuova cosa… E mi piace essere conscio di vivere fino all’ultimo attimo di consapevolezza.
Alceste Ayroldi